Virus, controllo, tecnologia digitale

Il 22 marzo – quando i dati dell’emergenza da Covid-19 in Spagna sembravano preoccupanti, ma non ancora catastrofici come si sarebbero rivelati qualche giorno dopo – usciva per il quotidiano “El País” un articolo del filosofo Byung-Chul Han dal titolo La emergencia viral y el mundo de mañana (L’emergenza virale di oggi e il mondo di domani). Byung-Chul Han è docente di Filosofia e Studi culturali alla Universität der Künste di Berlino ed è tra i filosofi contemporanei che hanno riflettuto con maggiore acume sul controllo sociale al tempo dei big data. Con il progresso e lo sviluppo degli algoritmi che governano internet, i social network e soprattutto le grandi piattaforme di e-commerce, i big data sono diventati il “nuovo petrolio”: la vera fonte di ricchezza della nostra epoca. Questo perché le informazioni che i big data raccolgono riguardano la vita, le preferenze, i gusti di tutti noi, oggi più che mai volenti o nolenti cittadini del web. Informazioni che possono essere scambiate, vendute e acquisite. Informazioni necessarie per esercitare il controllo.
Nell’articolo del 22 marzo Han parte da un dato – “il coronavirus sta mettendo alla prova il nostro sistema” – che suscita una domanda: perché il nostro sistema più di quelli orientali, dove l’epidemia sembra essere sotto controllo? A distanza di alcune settimane dalla scoperta dei primi casi di infezione da Covid-19, a Hong Kong, Taiwan e Singapore il numero degli infetti resta contenuto, mentre in Italia e nel resto dell’Europa il numero dei contagi cresce esponenzialmente superando le centinaia di migliaia di unità. Anche la Corea del Sud – spesso presa a metro di paragone per misurare la situazione italiana – sembra aver superato la fase peggiore. Perfino la Cina, paese d’origine della pandemia, già intorno alla metà del mese di marzo si avviava a dichiarare zero contagi nella regione di Wuhan. Per avere tutto sotto controllo la Cina e i paesi limitrofi hanno imposto un rigido protocollo d’ingresso alle frontiere e il monitoraggio dei movimenti di tutte le persone giunte dall’estero. Anche l’Europa e l’Italia hanno adottato questa espressione disperata di sovranità, ma la chiusura delle frontiere si è rivelata una dimostrazione inefficace o meglio “assurda”, secondo Han: “qual è il senso di emanare un divieto di ingresso agli stranieri, quando l’Italia e l’Europa sono precisamente i luoghi dove nessuno vuole venire?”. Sensato sarebbe stato il contrario: vietare le uscite per proteggere il mondo dall’Europa. La chiusura è la risposta a una crescente domanda interna di sovranità, apparentemente giustificata in questo momento storico dalla contingente emergenza sanitaria, ma in fondo preparata da un decennio di propogande nazionalistiche e di caccia allo straniero.
Nella corsa al controllo – invocato come in un canone polifonico prima dalle voci del potere poi da quelle dello sciame annullatosi nei like della rete – l’Europa insegue però gli stati asiatici, decisamente avanti nel perseguimento dell’obiettivo. Han afferma che “Corea, Cina, Taiwan o Singapore hanno una mentalità autoritaria, che deriva dalla loro tradizione culturale”, fondata su princìpi, dati dalla tradizione confuciana, irrigiditisi sotto la spinta di un capitalismo votato al primato dello sviluppo economico: disciplina personale, rispetto delle convenzioni sociali, osservanza delle regole governative. “Le persone sono meno riluttanti e più obbedienti che in Europa – scrive ancora Han –, hanno anche più fiducia nello stato. E non solo in Cina, ma anche in Corea o in Giappone, la vita quotidiana è organizzata in modo molto più rigoroso che in Europa. In particolare, per affrontare il virus, gli asiatici sono fortemente impegnati nella sorveglianza digitale”. La teoria secondo cui i big data potrebbero avere un enorme potenziale di difesa contro la pandemia si sta facendo strada anche in Italia e in Europa, tra cittadini fino a qualche tempo fa riluttanti a vedere cannibalizzata la propria privacy. Una strada che conduce all’azzeramento della consapevolezza critica verso la sorveglianza digitale, come mostrano gli “esemplari” casi delle applicazioni lanciate in Corea del Sud e Cina per controllare i movimenti delle persone e conseguentemente la diffusione del contagio da Covid-19.
Il Codice sanitario integrato all’app Alipay, sviluppato da una collaborazione tra il governo cinese e Ant Financial, la più grande compagnia fintech al mondo, affiliata dell’Alibaba Group (gigante dell’e-commerce cinese proprietario di diverse piattaforme attraverso le quali passa un volume di transazioni superiore a quello di Amazon e di qualsiasi altro concorrente), è stato utilizzato per controllare i cittadini cinesi coinvolti nell’epidemia da Covid-19.
Alipay assegna un colore verde, giallo o rosso in base all’utente e al suo ipotetico stato di salute; solo in seguito alla scansione di questi Qr code (codici identificativi) i cinesi possono avere accesso ad aree pubbliche e private, condomini e uffici. In base al colore il soggetto si può muovere: se il colore è verde può entrare in una determinata area, palazzo o mezzo di trasporto, se giallo o rosso l’accesso non è consentito. Se un soggetto ha il colore giallo deve osservare una quarantena di 7 giorni, se il colore è rosso la quarantena è di 14 giorni. Alipay è inoltre collegata a sistemi statali e privati di video-sorveglianza; così, ad esempio, quando qualcuno attraversa una stazione, viene automaticamente controllato da un visore che misura la temperatura corporea. Se la temperatura è preoccupante, tutti coloro che siedono nello stesso mezzo pubblico ricevono una notifica sui loro telefoni cellulari. Pur essendo Alipay di proprietà di un colosso del mercato online, come Alibaba, ciò non deve far credere che il governo centrale non possa controllare una multinazionale a suo piacere; lo schema è il seguente: dopo il periodo iniziale di lancio e crescita, in cui le aziende d’innovazione hanno libertà quasi completa nelle loro scelte di business, il Partito comunista torna a controllarle attraverso funzionari che assumono ruoli di rilievo nella dirigenza. Il Codice sanitario Alipay è solo l’ultima esemplificazione di un modello di controllo in cui ogni click, ogni acquisto, ogni contatto, ogni attività sui social network è monitorata. Non esiste alcuna protezione dei dati; del resto – ricorda Han – il termine “sfera privata” non appare nel vocabolario cinese (i due poli che esistono sono “famiglia” e “mondo esterno”). Affinché un modello di controllo sia pervasivamente efficace, come quello cinese, è necessario che sia oggetto di monopolio e non plurale. Per questo, il Ministero di Pubblica Sicurezza cinese ha lanciato tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo millennio il Golden Shield Project (o “Great Firewall”, come ironicamente definito nel 1997 da Geremie R. Barme e Sang Ye in un articolo per “Wired”), un progetto di censura e di sorveglianza che blocca in entrata dati potenzialmente sfavorevoli provenienti dai paesi stranieri. Basta fare un elenco dei siti web che, al momento, non funzionano oltre il Great Firewall, per comprendere la portata dell’operazione messa in atto dal Partito comunista cinese: tra i social, Facebook, Twitter, Instagram, Reddit, Snapchat, Tinder, Tumblr, WordPress, Flickr; tra le app, Google Play, WhatsApp, Messenger, Telegram; tra i motori di ricerca Google e Yahoo; tra i portali di video-sharing, Youtube, TikTok, Vimeo, Daily Motion; tra le piattaforme di streaming, Netflix, Amazon Prime Video, Twitch, Spotify, SoundCloud. Un elenco parziale e potenzialmente più lungo se si inserissero i nomi di servizi, portali, app e piattaforme open source.
Il più diffuso mezzo digitale attraverso cui comunicare in Cina è Wechat (Weixin per il mercato locale), servizio sviluppato dalla Tencent (anch’essa sotto l’attento monitoraggio del Governo centrale). Nata come applicazione messaggistica, Wechat si è trasformata in una sorta di estensione vitale: con l’app si chiama, si messaggia, si conoscono persone, si fissano appuntamenti, si acquista, si paga, si prenota un taxi, si scommette, si ascolta musica, si vedono film, si accede a un mezzo pubblico, si richiedono certificati, si compra la verdura al mercato rionale, si paga la carta igienica al bagno pubblico, si prenota un tavolo al ristorante. Un luogo virtuale chiuso che ti offre tutto ciò che ti serve, un luogo in cui l’utente, e i dati che condivide, sono la merce di scambio. ll sogno proibito di qualsiasi big tech, da Facebook a Google, che in Occidente ha trovato fino a oggi ostacoli, ma che forse l’epidemia da Covid-19 potrebbe favorire, al grido di “pubblica utilità”. Nei giorni dell’epidemia Wechat ha permesso al Governo cinese di filtrare le conversazioni degli utenti, censurare riferimenti al virus nelle chat, raccogliere dati degli utenti su acquisti di farmaci per la febbre e la tosse, macinando così informazioni che includevano nome, codice di cittadinanza, indirizzo, numero di telefono dei contatti di infetti e non: la scrematura dei sospettati di contagio è stata un’occasione unica di reperimento di informazioni. Infine – notizia passata sotto silenzio e pubblicata dal “New York Times”, che ha analizzato il codice del software –, Wechat ha condiviso informazioni sensibili con la polizia “creando un modello per nuove forme di controllo sociale automatizzato che potrebbero persistere a lungo dopo che l’epidemia si sarà placata”.
Il caso cinese dimostra che non è possibile un controllo digitale efficace – soprattutto nella lotta contro un’epidemia – se i dati forniti dalle app non sono in possesso di un unico soggetto che li gestisce e analizza; inseguire la Cina sul terreno del controllo digitale significa rinunciare alla pluralità di portali web, gestori di rete, app e social a cui l’Europa è abituata. Il paradosso è che la stessa rete digitale che favorisce la psicosi da virus viene invocata come fonte di salvezza: l’eccessivo panico di queste settimane, scrive ancora Han, “è una reazione immunitaria sociale, e persino globale, a un nuovo nemico. La reazione immunitaria è così violenta perché abbiamo vissuto a lungo in una società senza nemici, in una società di positività, e ora il virus è percepito come un terrore permanente. Ma c’è un’altra ragione per l’enorme panico diffuso. Ancora una volta ha a che fare con la digitalizzazione. La digitalizzazione rimuove la realtà. La realtà è vissuta grazie alla resistenza che offre e può anche essere dolorosa. La digitalizzazione, l’intera cultura dei “mi piace”, sopprime la negatività della resistenza. E nell’era post-fattuale di fake news e deep fake, nasce un’apatia per la realtà. Quindi qui c’è un vero virus, e non un virus informatico, che provoca confusione. La realtà, la resistenza, torna a essere di nuovo evidente sotto forma di un virus nemico. La reazione di panico violenta ed esagerata al virus è comprensibile in base a questo shock provocato dalla realtà”.
Al riguardo, è utile richiamare l’articolo La società iatrogena di Raffaele Alberto Ventura, apparso sul magazine online “Not”. Nella sua riflessione Ventura ha sottolineato quanto sottovalutata sia stata “la capacità del sistema tecnologico di funzionare come ripetitore del contagio e amplificatore del rischio – e in particolare quella, pure già nota, del sistema sanitario: a poco più di un mese dalla scoperta del primo caso di coronavirus sul territorio italiano, stanno emergendo con forza ipotesi sul ruolo svolto dagli ospedali nella catastrofe che si è manifestata in Lombardia”. Il panico diffuso in Italia dalla fine di febbraio attraverso le reti digitali ha potuto stimolare una corsa agli ospedali controproducente. “La natura ha creato il virus ma è il sistema tecnologico che l’ha trasformato in una epidemia”. Un sistema, espressione di un selvaggio capitalismo, che pone oggi il suo estremo ricatto: “sacrificare la nuda vita oppure accelerare verso la distopia”. Un evento imprevisto ha fatto emergere le contraddizioni del sistema globale nel quale viviamo, fondato su capitalismo, tecnologia e reti digitali, mostrando la fragilità di tutti i sottosistemi che lo compongono: un’infrastruttura tecnologica che accelera i rischi sanitari, finanze pubbliche assoggettate al ricatto dei mercati, governi incapaci di cooperare in organizzazioni transnazionali, un mercato del lavoro precario, un sistema carcerario sovraccarico, reti digitali predisposte al controllo delle masse. Ciò spiega, ad esempio, pur di fronte ai rischi delle drastiche misure di distanziamento sociale adottate in Italia per il contenimento del virus, la crescente richiesta da parte della popolazione di interventi governativi autoritari per combattere l’epidemia. Un “atteggiamento sacrificale” – per usare ancora le parole di Ventura – che si manifesta nella riemersione di una vocazione patriottica e militarista, e di una speranza cieca, quasi religiosa, nelle soluzioni offerte dal controllo digitale.
La richiesta di controllo digitale è accompagnata in Italia dal mantra “tanto non siamo la Cina” e dalla convinzione diffusa che il ricorso a tali misure determinerà solo una parziale restrizione delle libertà personali, reversibile con la fine dell’emergenza. Eppure la recente storia del diritto processuale ci insegna che il terreno è già pronto per la tracimazione di un corto-circuito mediatico al piano legislativo, con conseguenze difficilmente reversibili. In un articolo apparso su “Dibattiti/Focus” dal titolo Le categorie dei soggetti socialmente pericolosi, l’avvocato penalista Antonio Nobile ha ricostruito l’evoluzione del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali conosciuta dal nostro ordinamento negli anni recenti: una storia assai utile per comprendere come strumenti di controllo “versatili” possano permanere e interpretare altri ruoli dopo aver cavalcato l’emergenza contingente per i quali erano stati creati.
Terreno privilegiato dell’espansione degli strumenti di controllo è stata – scrive Nobile – “l’individuazione della categoria dei soggetti pericolosi; e non potrebbe essere altrimenti, dato che il sistema della prevenzione fonda le proprie radici in epoca preunitaria”, quando lo scopo era tanto sanzionare con una pena straordinaria coloro nei confronti dei quali non si sarebbe potuto dar luogo alla esecuzione di una pena ordinaria, quanto colpire determinate categorie di soggetti, quali “zingari, oziosi, vagabondi, questuanti forestieri”, a prescindere dalla rilevanza criminale dei loro comportamenti. Il sistema ha poi trovato utile impiego nel fronteggiare, dopo l’unità d’Italia, il brigantaggio e, nel ventesimo secolo, terrorismo e criminalità mafiosa. Ancor prima, l’individuazione della categoria dei soggetti pericolosi aveva offerto efficaci strumenti di repressione del dissenso alla dittatura fascista: durante il Ventennio “la generica esigenza di colpire soggetti definiti ‘pericolosi per la sicurezza pubblica e l’ordine nazionale’ trovò la propria sublimazione”. L’odierna espansione del novero dei soggetti pericolosi e dell’applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali sembrerebbe, dunque, in continuità con un percorso non estraneo al nostro ordinamento giuridico.
Lo stato emergenziale in cui versa in Italia il procedimento penale, per problemi strutturali e legislativi, ha determinato – afferma Nobile – “la volontà di tradurre in regola il tentativo di bypassare il processo e le sue ‘lungaggini’, termine normalmente somministrato all’opinione pubblica per descrivere il complesso di garanzie presidiato dal codice di rito”. I reati diminuiscono su scala nazionale, ma a guidare le modifiche legislative è la logica della “percezione” popolare dell’insicurezza. E così, col tempo, la categorie dei soggetti definiti dalla legge “pericolosi” e in quanto tali passibili dell’applicazione di misure “social-preventive” si è allargata sulla spinta di corto-circuiti mediatici, arrivando a comprendere molte categorie, definite a loro volta in modo generico. Questo rende l’idea della malleabilità di un ordinamento che può facilmente scivolare in forme di controllo che mettano da parte la tutela delle libertà personali. Senza dimenticare ancora una volta tecnologia e progresso digitale: nel campo delle misure social-preventive, i big data, solitamente utilizzati per la profilatura dei consumatori, sono in fase di sperimentazione per la profilatura dei “tipi criminali”, mentre il processo penale, attraverso il ricorso alla video-conferenza (per chi è soggetto a misure particolarmente restrittive), mostra già quali siano i limiti che l’innovazione digitale pone all’oralità e al contraddittorio. In questo quadro, per usare ancora le parole di Nobile: “Il sistema della prevenzione supera di gran lunga il procedimento ordinario, poiché libero dalla ‘zavorra’ dei diritti”, con tanti cari saluti al principio della responsabilità “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
La storia giuridica italiana, qui sommariamente descritta, fa temere che l’emergenza da Covid-19 potrebbe rappresentare un ulteriore passo verso l’inasprimento del controllo collettivo (attraverso strumenti digitali di profilazione; la Lombardia ha da poco lanciato l’app “AllertaLom”) e di ampliamento della categoria dei soggetti pericolosi (dettato dalla necessità di “combattere” nuovi nemici emersi con la crisi sanitaria). I tragici eventi di questi giorni potrebbero rappresentare l’ennesimo corto-circuito da cui il legislatore prenderà le mosse per compiere ulteriori passi nella tradizione nostrana del diritto emergenziale. La retorica del “siamo in guerra” è pericolosa proprio perché a un modello di stato indirizzato ai cittadini, con le garanzie e i diritti tipici degli stati democratici, si contrappone uno riservato a coloro ai quali si nega l’appartenenza alla propria comunità e a cui, in forza della loro pericolosità sociale, vanno applicate risposte ispirate alla logica di guerra.
La realtà è ben altra: invocare e affermare l’implacabilità dello Stato, di fronte al dramma dell’emergenza sanitaria, significa attestare il collasso di un sistema che non è in grado di programmare secondo logiche illuminate indirizzate al futuro, e che al contempo non sa accertare i colpevoli, anche in tempi lunghissimi. “Domani domani domani chi lo sa che domani sarà”, cantava Lucio Dalla.