Verso Puerilia
di Chiara Guidi, incontro con Franco Lorenzoni
Franco: Quale bisogno di arte ha per te il bambino?
Chiara: Io non credo che il bambino abbia bisogno di arte, non la chiede. Non dice: “Mamma voglio l’arte, me la dai?”. Il bisogno naturale dei bambini, in fatto di rappresentazione, è quello di giocare e di parlare. Allora l’arte è soltanto il modo che hanno gli adulti di testimoniare una veduta del mondo ulteriore, una visione del mondo. Disegnare e fare teatro per i bambini è un gioco. Credo che ciò che tocca ogni bambino non è tanto l’arte, quanto la qualità della relazione adulta nei suoi confronti. L’arte (se è veramente tale) porta alla qualità, e la prima qualità che i bambini comprendono è quella della relazione. Certo può darsi un’ottima relazione, priva di arte, ma ciò di cui si parla qui è la qualità speciale dell’arte e la possibilità che ha l’arte di mettere in gioco una veduta del mondo diversa dal panorama corrente. Per questo ora, con Puerilia 2014, voglio metterne a fuoco il metodo, nominandolo: Errante. Il Metodo Errante vuole mettere a fuoco tutte le figure che guardano all’arte intesa in questo modo o che vogliono avvicinarsi all’arte per creare, attraverso di essa, una relazione con l’infanzia. Artisti, insegnanti, genitori… e bambini…
Franco: Tu lavori da sempre intorno alla fiaba classica.
Chiara: Si, perché la fiaba classica è un oggetto d’arte. Mi interessa il suo processo. Lì desidero entrare. No, in realtà la fiaba spinge ad entrare e da sempre di fronte ad essa, così come di fronte ad ogni opera d’arte che mi seduce, chiedo: “Posso entrare? Posso accedere a questo spazio?”.
Franco: Come in un gioco?
Chiara: Sì, come quando un bambino di fronte ad altri bambini che giocano chiede di poter partecipare. Con la fiaba classica si interroga il tempo. Si volge lo sguardo al tempo. Da secoli essa opera e mette in moto le azioni. Questo mi affascina. Perché sfugge alla ragione e invita ad agire. È una forma di conoscenza pratica che permette di fare i conti con la vita e il destino. Come questo avvenga non lo sappiamo e quali siano gli effetti di questo non lo conosciamo. La fiaba invita al cammino in uno spazio. Anche il teatro genera uno spazio che, non solo sul palco ma anche restando in platea, si percorre in base a delle regole che generano un linguaggio. Mi ricordo da bambina che a teatro mi colpiva la suddivisione in atti… o al cinema l’intervallo. Fermarsi, uscire e riprendere. Come quando si interrompe il gioco per fare merenda. Oppure lo si interrompe per riprenderlo il giorno dopo, nell’esatto punto in cui lo avevamo interrotto. Bambole, terra, piatti e forchette… sedie… tutto doveva attenderci. E il gioco restava immobile ad aspettarci. Anche la fiaba ci attende.
Franco: Cosa accade alla scuola quando si trova dentro al vostro teatro?
Chiara: Il nostro teatro è un invito ad entrare e questo invito si rivolge non solo ai bambini ma anche agli insegnanti, ai genitori. Per farlo non si ricorre alla spiegazione né si cerca l’intrattenimento. Entrare comporta una fatica. Che bello uscire dal teatro e sentire che quello che si è visto è stato un fare che ha messo in moto l’immaginazione! Che ha messo in moto un’esperienza! Che ha creato una forma di conoscenza! Che ha mostrato in potenza qualcosa che interroga! Che ci ha messi in ascolto! Perché l’arte non dà risposte esaustive ma scatena immagini, figure su figure che producono pensieri.
Franco: La mia sensazione è che la scuola e gli insegnanti siano così spaventati dalla bellezza e dall’arte, che la immaginano fruibile solo se triturata, liofilizzata. Nella scuola entra quasi esclusivamente la critica dell’arte, spesso nemmeno di grande qualità, raramente l’arte da sola, con il grande mistero che l’accompagna, da ascoltare silenziosamente… Così la scuola troppe volte, senza neppure accorgersene, allontana sistematicamente bambini e ragazzi dall’arte.
Chiara: E allontana gli artisti dalla scuola. L’illustrazione della propria arte non è necessaria all’artista. L’arte è generatrice di domande. Parte da ciò che si conosce per andare verso ciò che non si conosce. Per passaggi. Ad un elemento se ne aggiunge compositivamente un altro, e questo insieme al primo ne genera un terzo, che non si vede e che restando sconosciuto ci chiama. Non puoi descrivere il lato oscuro della luna. Non mi interessa sapere cosa vi hanno trovato gli astronauti. Io lì continuo a lasciare la mia ragione. Forse per questo Conrad, quando scrive, dice che il narratore deve rendere giustizia alla realtà, deve cioè mettere nella scrittura anche ciò che la realtà nasconde. Sta a noi il coraggio di ascoltare perché, come dice ne Il Tifone, non tutto è scritto nei libri e un uragano va affrontato per quello che è e non aggirato con astuzia.
Franco: Se, come dici, l’arte crea una presenza che non c’è, è naturale che la scuola, imprigionata com’è dall’assurda pretesa di voler dare spiegazioni su tutto, entri in crisi.
Chiara: L’arte non garantisce conoscenza. Eppure la illumina. Crea bagliori, non una luce costante. Ma quei bagliori invitano a cercare, ad entrare nella casa della strega e ad uscirne trasformati.
Franco: Il problema allora è come incontrarla.
Chiara: La scuola ha un grande privilegio: dedicare del tempo a ciò che è stato, a ciò che è passato… Ne può ingigantire la presenza. Può entrare nei dettagli del tempo e della scienza, della grammatica e dell’arte. Di solito l’arte che si attraversa è la letteratura, ma la musica, la pittura, la scultura, l’architettura, dove sono? La scuola ha il privilegio di fermarsi e mettere l’attenzione su un particolare che apre la visione su un orizzonte più ampio. Può creare mondi analogici. È un grande privilegio della scuola in un contesto di entropia e di degrado diffuso delle immagini nel quale solitamente viviamo. La scuola può mettere in gioco una veduta del mondo radicalmente diversa dal panorama corrente, ma per farlo deve essere messa nelle condizioni giuste per poterlo attuare. Alla scuola va restituito il tempo dell’immaginazione. E come può un insegnante sognare con i suoi alunni se ha mille problemi di ordine pratico da risolvere? Eppure è un suo diritto! Qui entra in campo la responsabilità politica del nostro tempo. E questo ci porterebbe da un’altra parte. Ma torniamo alla inutilità dell’arte!
Franco: E della fiaba… Non puoi mai quantificare quanto hai appreso da una fiaba.
Chiara: Già, di quanti chili di Cappuccetto Rosso abbiamo bisogno nella vita?
Franco: A volere spiegare tutto, alla fine si rischia di non capire nulla. Pensiamo quanto soffre la letteratura nella scuola: si usa, si critica il testo letterario, raramente ci si entra dentro, se ne gode e il ragazzo si sente libero di porgli le sue domande.
Chiara: Io penso che l’arte generi strutture di conoscenza che la scuola (intendendo con scuola l’istituzione, non tutti gli insegnanti) ha addormentato. Quello che sperimentate nella scuola elementare di Giove tu e Roberta Passoni per me sono percorsi esemplari, per la prossimità che avete con l’arte, per il risveglio che proponete.
Franco: Oggi che le case sono stracolme di giochi elettronici e schermi sempre accesi, capaci di occupare per ore e distrarre e stordire i bambini fin dalla più tenera età, penso che nella scuola sia importante ritrovare la possibilità di fare esperienze che aiutino a ritrovare quella concentrazione e quell’intimità nella relazione con gli spazi e gli oggetti e i personaggi, che popolano l’immaginario di cui si nutre l’infanzia. Per questo noi sentiamo necessario un rapporto vivo con l’arte.
Chiara: In particolare, se prendiamo dall’arte non l’opera, ma il processo di lavoro, si aprono possibilità.
Franco: Nel teatro spontaneo infantile i bambini “delirano” sugli oggetti…
Chiara: Nel teatro d’arte ci fermiamo di fronte a un oggetto che ci chiama. Il teatro è un atto retorico di assoluta finzione e astrazione, che mette gli oggetti in punti strategici perché lì possa cadere lo sguardo del bambino, e suscitare domande, conoscenza. Lo spazio è apparecchiato e l’apparecchiatura dello spazio mette in campo una preoccupazione preminentemente artistica. Nel momento in cui apparecchio uno spazio il bambino diventa figura d’arte.
Franco: L’esatto opposto del consumatore passivo di immagini e oggetti, a cui viene la maggior parte del tempo costretto. Ma ci vuole chi accolga e rilanci la capacità dei bambini di inventare di continuo quelli che tu chiami mondi analogici. Quest’inverno sono andato con i bambini di prima elementare a vedere e a giocare con le opere di Alexander Calder a Spoleto. Una supplente, decisamente sprovveduta, vedendo i personaggi del suo fantastico circo, ha esclamato: “Era davvero un precursore: sembrano le sorprese degli ovetti Kinder!” Se l’ottica prevalente nel nostro tempo non riesce a vedere che la produzione seriale e la pubblicità, come dobbiamo operare?
Chiara: Da molti anni la nostra cultura costruisce immagini indifferenti. Il teatro che cerco deve costruire dei percorsi iniziatici, deve dare a ciascun bambino la possibilità di compiere un’esperienza che non può essere indifferente.
Franco: Per Puerilia di quest’anno tu proponi le figure della schiena di Arlecchino e dei lombrichi e mi diverte una coincidenza, perché a scuola, da ottobre, alleviamo lombrichi e non parliamo d’altro, da quando una bambina di prima ne ha portato un giorno uno in classe.
Chiara: Per me il lombrico è una metafora dell’arte. Vive dichiaratamente sottoterra, senza farsi vedere e occorre scavare e andare a fondo per incontrarlo. Lo si percepisce anche se non lo si vede. E da millenni metabolizza il terreno, lo divora e lo risputa con un lavorio lento. Gira e rigira la terra. Continuamente. È come un drone musicale. I lombrichi creano una bella relazione metaforica con l’arte.
Franco: Alcuni sostengono che l’uso continuo dei link, nel modo dei ragazzi di navigare dentro le informazioni digitalizzate, richiama il metodo analogico, che per tanti versi somiglia a come funziona la nostra mente nel processo inconscio delle libere associazioni.
Chiara: Passare da un link all’altro crea una linea retta ed esclude molti piani di azione. Il passaggio da un’epoca a un’altra per me è un trascinamento di pesi. Ma c’è del vero in quello che dici. Il passaggio da un link a un altro, da un brano musicale all’altro in un i-pod, porta a un’idea di rapidità che è in stretta correlazione con un modo di consumare le immagini a cui ci ha abituato la televisione e ora il computer. Una velocità che non si ferma sul dettaglio. L’arte, al contrario, non può non mettere l’attenzione al dettaglio, non può non mettere il dito nelle pieghe. E questo esige un tempo privilegiato.
Franco: Se ci pensi, cos’altro dovrebbe fare la scuola se non rendere vivo l’anacronismo? La scuola è il luogo dove dovremmo incontrare le arti e le culture del passato e visioni del mondo e lingue di altri luoghi. È da lì che dovremmo partire, valorizzando le intuizioni degli allievi e quelle dell’insegnante, che non dovrebbe seguire un percorso prestabilito, ma creare di continuo un proprio percorso.
Chiara: La programmazione scolastica non ha in sé il processo ritmico dell’analogia. Non mette l’insegnante nella condizione di agire componendo, ma solo la composizione permette di entrare nella materia, di aprirla e di conoscerla. Proprio come avviene nell’infanzia: quando un bambino vuol conoscere un oggetto lo apre e, a volte, lo rompe. Ma nella rottura si genera una luce.
Franco: Tra il sapere e i bambini c’è sempre un’incognita, che dovrebbe generare creatività….
Chiara: Generare metafore, figure… Sì, dobbiamo farlo! L’arte genera figure e consente poi, di fronte a quella figura, di stare. Stare davanti alla figura, ad una figura pregna, che, in inglese, vuol dire gravida, portatrice di qualcosa che è in potenza. L’arte è il momento della madre. Non la madre che ha generato, ma la madre che attende. L’arte sta in quel suo essere in potenza.
Franco: E qualcosa nasce quando si attiva una relazione, così come un testo vive solo quando c’è un lettore che lo legge e lo fa suo.
Chiara: Sì, anche per me. L’artista può solo dare forma a un’intuizione. Ma il problema dell’artista, con la sua tecnica, è creare una forma che sia pregnante, che stia nella condizione iniziale della sensazione. Qualcosa che non spiega, che non rivela tutti i passaggi, non sia autobiografica, ma sia capace di dare una spinta alla pregnanza di chi guarda, che metta in moto la pregnanza di chi guarda. Si nasce per spinta.
Franco: Quest’idea è pienamente socratica. Richiama Diotima che, nel Simposio, dice a Socrate che il bello è la generazione nel bello…
Chiara: La maieutica, certo. Socrate è una porta per il teatro. Con Socrate, attraverso Platone, abbiamo il passaggio dall’oralità alla scrittura. La grande porta del teatro è proprio passare attraverso Socrate e, in qualche modo, tornare indietro, dalla scrittura all’oralità. Quando tu sostieni che il teatro è una forma di conoscenza essenziale per l’infanzia e per la scuola, mi ritrovo perché ciò che ci unisce è il tentativo di rendere azione un processo analogico. Tu traduci in un gesto il tempo di Raffaello, mettendo in relazione “La scuola di Atene” non tanto con delle tematiche contemporanee, quanto, semplicemente, con la voce di un bambino. Quando tu racconti che in uno spettacolo Dioniso lo fa un bambino che tu non riuscivi a contenere e che ti metteva in crisi, perché vedevi in lui lo specchio di una parte di te, stai dentro un processo analogico. Crei una figura con un’altra figura. Forse è interessante ricordare quello che diceva Platone dell’analogia. La definiva il più bello di tutti i legami. Sì, credo che l’analogia ci metta in relazione con quanto cerchiamo: la bellezza.
Franco: Tu dici che Il bambino non chiede arte, ma una relazione d’arte. Cosa intendi dire?
Chiara: Non mi riferisco alla relazione giusta che un bravo insegnante o un bravo genitore sa creare con l’infanzia, ma cerco la molteplicità delle direzioni di uno sguardo rispetto all’arte. C’è una differenza tra l’artista e il maestro. Cerchiamo insieme di metterla a fuoco.
Franco: Penso che la scuola debba proporre un approccio con l’arte silenzioso. Deve creare le condizioni in cui i bambini possano stare di fronte a Giotto, a Raffaello o a una musica in silenzio. Lasciando che le domande covino dentro e non si esplicitino subito. Per me questo è importante, altrimenti l’arte viene avvilita da una scuola che spiega e interroga, allontanando l’oggetto dal soggetto. Si chiede subito di classificare e memorizzare, uccidendo fatalmente la bellezza e il senso. Arrivare a questo silenzio è molto difficile oggi, ma nel silenzio per me c’è la ricerca di un senso più profondo, spesso non sondabile. Qualche anno fa Sabrina, una bambina della nostra scuola di Giove, ha scritto a dieci anni: “Il silenzio è un vuoto, un buco, è il nulla. E’ difficile cadere nel buco del silenzio perché non devi essere concentrato in nulla, solo nel silenzio. Il silenzio per me è ogni angolo di una stanza, di un prato, in ogni centimetro c’è il silenzio. Non si sente solo con l’udito ma anche con il corpo e l’anima quando è dentro di te. Non è molto semplice ascoltarlo perché ci devi mettere il sentimento e la forza. Il silenzio ha una strada, ma non è molto facile prenderla e non è facile seguirla (…) Il silenzio per me è una cosa indescrivibile ed io credo che non sono mai stata in un vero silenzio”.
Chiara: L’arte, come l’osservazione della natura, ci permette di vedere come in modo inconsapevole, ma con una logica che sfugge al nostro controllo, nascano in noi le sensazioni. Mettono in campo le nostre singolari capacità e danno fiducia alla nostra capacità d’intuizione. Quello che tu fai a scuola con i bambini di Giove entra dentro lo statuto dell’arte. Tu chiedi loro di diventare uno strumento per insegnare.
Franco: Io cerco il più possibile di ascoltarli e, in questo modo, separo e intreccio continuamente cose diverse. Questo penso debba essere il ruolo dell’insegnante.
Chiara: È una delle regole della conoscenza alchemica. Solo le cose che sono separate è possibile congiungerle. Ma quello che mi colpisce nel tuo discorso, è quando tu sottolinei il bisogno di silenzio e di mancanza di spiegazione di fronte all’arte.
Franco: Per me questo bisogno c’è anche di fronte alla natura. Di fronte a un bosco, alla luna, allo spazio della notte… Ma attenzione, non penso assolutamente che i bambini siano artisti, né tanto meno che tutti si sia artisti. Questa è la grande bugia data dalla dilatazione dell’ego, propria di un’epoca che pensa di poterci vendere tutto.
Chiara: Quella che porta molti assessori comunali a voler sostituire gli artisti nella formulazione dei progetti culturali senza entrare in dialogo con essi.
Franco: Diverso è dire che tutti devono poter godere ai massimi livelli dell’arte, prima di tutto i bambini.
Chiara: Tutti devono poter cercare la bellezza.
Franco: Trovare delle strade per avvicinarsi, non alla creazione dell’artista, che è al di là del crepaccio, ma a uno sguardo capace di vedere.
Chiara: Sì, vedere e in modo personale, non personalistico, per ritrovare se stessi al di fuori di noi stessi. Attraverso l’arte la percezione della forma cambia. Se vedo un volto di Modigliani o uno di Raffaello è come se si ampliasse l’orizzonte della mia percezione. Attraverso Morandi cambia la mia visione della bottiglia. Questo presupposto l’arte lo ha come statuto. Colui che si pone di fronte all’arte può decidere di entrare o di starne al di fuori. È una scelta personale. L’artista non deve porsi il problema della fruizione dell’opera nel momento in cui crea. Eppure l’artista porta con sé una visione anche del pubblico, in quanto l’artista stesso è il primo spettatore di ciò che compie. Velazquez, in Las meninas, è in quanto uomo dentro il quadro così come lo siamo noi. Tutti vi entriamo dopo aver mosso lo sguardo da una figura all’altra. A un certo punto scopriamo di essere vicini a coloro che il pittore sta dipingendo. Siamo parte di quel quadro e siamo pensati da Velazquez.
Franco: Qual è la necessità che ti urge?
Chiara: Stare con la cultura di cui i bambini sono portatori. Lo dici anche tu, no? Stare con gli infanti, coloro che vivono prima del linguaggio, per ritrovare la mia voce e per serrare in me il mistero della vita. Una incessante profusione di domande su domande.
Franco: Tu dici che l’arte riempie di domande.
Chiara: Sì, incessantemente e, per quanto mi riguarda, sempre intorno alla stessa cosa. L’arte invita a un’esperienza che è ben diversa dall’impresa. Non ci sono eroi o slogan. Forse dubbi che però mettono in atto la complessità del vivere. La scuola ha obiettivi, l’arte no. Risponde piuttosto al bisogno ontologico di metterci in contatto con i fantasmi della nostra esistenza. L’arte riempie di domande. Deve riempirci di domande.
Franco: Tu parli di dubbio metodico.
Chiara: Si, per questo il Metodo si chiama errante. Non voglio fissare un’unica linea operativa ma allargare lo sguardo alla geometria iperbolica che mette in crisi la geometria euclidea. Lo sguardo si può spostare e ha bisogno di altri sguardi. Per questo Puerilia organizza, insieme a Roberta Ioli, una serie di dialoghi per una riflessione sull’arte tutt’altro che astratta e che riguarda profondamente la pedagogia e la relazione con i bambini. Si parte dalla visione degli spettacoli e ci si ferma a dialogare. Perché per inventare bisogna essere in due. I dialoghi mettono l’accento sulla responsabilità dello spettatore e dell’artista come cittadino. Perché, come già ci siamo detti: l’arte non serve a spiegare le cose, non è uno strumento pedagogico di insegnamento, ma è un modo di organizzare i pensieri; segue una logica e un metodo, ma non li irrigidisce in un sistema; assume quella contraddittoria ricchezza di vita che apparteneva originariamente all’universo mitico; è pronta a comprendere l’incoerenza delle figure della fantasia, l’irruzione dell’imprevisto, e a elaborare i profondi significati che racchiudono. Credo che la pedagogia possa guardare all’arte. La pedagogia può essere un’arte in questo senso.