Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Uno sguardo all’indietro

17 Giugno 2014
Cecilia Bartoli

Tra la metà degli anni ’80 e la fine degli anni ’90 c’è stata nel privato sociale l’esplosione di una pluralità di proposte educative: associazioni e cooperative il terzo settore in genere, si è reso protagonista dell’educazione non formale, extra-scolastica, degli interventi educativi nella marginalità (periferie, campi rom) soppiantando quasi definitivamente il lavoro degli oratori, degli scout, del “volontariato etico”. Così si sono moltiplicate velocemente le ludoteche, i centri per l’aggregazione giovanile, i centri diurni, gli asili autogestiti. Questo mondo ha cominciato anche a dialogare con la scuola, portando avanti migliaia di percorsi di affiancamento ai programmi didattici: di educazione ambientale, musicale, interculturale, alla legalità, e poi laboratori espressivo/manuali spaziando davvero in ogni senso: teatro, manipolazione, attività grafico/pittoriche ecc.

Si viveva ancora nella risonanza dei movimenti pedagogici italiani degli anni ’60 e ’70, di quel po’ di educazione libertaria portata avanti da piccoli gruppi auto-organizzati, della ricerca dei Cemea e del Movimento di cooperazione educativa su un educazione laica, centrata sulla persona, sulla cooperazione, centrata sul “fare” e sulla relazione educativa. Una ricerca soprattutto di metodi prima ancora che di contenuti, ciò che ha dato vita a significative esperienze di scuola attiva e organizzazione del tempo libero di bambini e ragazzi.

Erano anni in cui sembrava che il terzo settore fosse dotato di una forza propulsiva nuova, in grado di agire dei cambiamenti sociali proprio a partire dall’educazione. Sembrava davvero che potesse porsi come interlocutore delle istituzioni per un ripensamento delle politiche sociali.

Molti giovani hanno visto in questo ambito una facile possibilità di applicazione dei loro studi e delle loro passioni (non solo pedagogia, ma anche letteratura, arte, musica, lingua e filosofia) e la possibilità di sottrarsi all’accademia, di reinterpretare un ruolo professionale. Diventare educatore nel sociale dava a molti l’idea da un lato di poter sbarcare il lunario nei tempi difficili, a volte indefiniti e infiniti della ricerca di affermazione in campo artistico o intellettuale, dall’altro di soddisfare un bisogno “etico” di impegno civico, rimasto ormai completamente disatteso dalla fine dei movimenti e delle federazioni giovanili di partito.

La riforma universitaria ha ridefinito il profilo e le competenze dell’educatore in senso sempre più tecnico e specialistico, intorno un pullulare di corsi gratuiti o privati sul sapere, saper fare, saper essere un educatore in campo sociale.

Chi in questo libro si occupa di terzo settore potrà delineare e approfondire meglio i contorni di una crisi che è sotto gli occhi di tutti.

L’involuzione progressiva delle politiche per il benessere sociale, ne ha reso evidente la poca incisività sul piano politico, così come l’espansione del mercato e dei servizi non ha certo comportato la sperata crescita qualitativa degli stessi.

Il panorama dei servizi educativi di terzo settore ci appare enormemente precario e frammentato per contro molto del volontariato etico ne è stato totalmente soppiantato.

La logica del concorso dei progetti, ha trasformato il mondo dell’educazione non formale in un progettificio. Ogni azione educativa ha iniziato a rispondere a bandi di concorso in arrivo daun mondo politico, più spesso preoccupato della propria propaganda, che non delle reali esigenze dei territori e delle comunità. L’azione educativa privata della necessaria continuità di intervento, della sua incisività si è andata impoverendo, di contenuti e metodi pedagogici, divenendo incapace di intraprendere percorsi di ricerca/azione. La riflessione sull’efficacia del proprio agire è stata presto sostituita, dall’affannosa ricerca sul come fare ad auto sostenersi in un panorama fortemente instabile e privo di punti di riferimento. La sudditanza alle istanze sempre mutevoli della politica di partito si è mostrata totale, dato l’enorme ricatto della propria stessa sussistenza.

I PRIMI GIOVANI DI BELLE SPERANZE E QUELLI DI OGGI

I primi giovani di belle speranze si sono trovati presto schiacciati: animati da una passione politica che vedeva nell’educazione l’applicazione pratica più immediata, per la costruzione di un modello di esistenza migliore (più sensibile, più paritario, più cooperativo e comunitario) attraverso la costruzione di solidi contesti educativi, si sono trovati presto nell’impossibilità concreta e sempre crescente di alimentarli, mantenerli in vita, renderli un modello. Le associazioni e le cooperative fondate in quegli anni hanno dovuto presto smettere di interrogarsi sul proprio agire, sulla propria utenza e sui mondi di provenienza di questa: culturali, familiari, sociali, cittadini; lo stesso educatore, è diventato in breve un professionista, molto mal pagato e precario, a cui vengono richieste prestazioni sempre più disparate, dal bambino piccolo all’anziano, dalla scuola all’extra scuola, capacità di cura psicologica (senza alcuna supervisione e supporto), di comprensione di contesti sociali disgregati, capacità di mediazione di conflitti spesso molto violenti, di animazione sociale e poi capacità di documentazione, vendita, marketing, progettazione, rendicontazione del proprio lavoro. Lavoro molto spesso affiancato da un altro o da altri due altrettanto precari e mal pagati, per potersi garantire la sopravvivenza. Fondamentalmente sembra che ormai all’educatore si chieda di svolgere le proprie mansioni e “resistere”, il problema della qualità dei metodi, della validità dei contenuti, dell’utopia di un mondo migliore sembrano definitivamente tramontati. Già dagli anni ’90 s’inizia a parlare di sindrome di Burn-out (letteralmente: bruciato, esaurito) anche nel mondo educativo. Si tratta di una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali che può presentarsi in persone che per professione si prendono cura degli altri.

Tra i fattori scatenanti si riconoscono dimensioni molto comuni nei servizi educativi del privato sociale in particolare:

  • Il conflitto di valori; ovvero quando la persona è in conflitto con i valori che il servizio trasmette oppure quando i valori non trovano corrispondenza, a livello organizzativo, nelle scelte operate e nella condotta, impedendo lo sviluppo di un senso di appartenenza al proprio ente/servizio
  • Il sovraccarico di lavoro
  • scarsa remunerazione e assenza di equità
  • alienazione; nel senso di impossibilità di cogliere il risultato del proprio lavoro proprio a partire da deficit nella condizione di lavoro stessa
  • la precarietà di ruolo e funzione, l’eccessivo turn-over

Le conseguenze del burn-out invece si configurano prima di tutto in una condizione di esaurimento emotivo. Quando una persona sente di aver oltrepassato il limite massimo: si sente prosciugata, incapace di rilassarsi e di recuperare, manca di energia per affrontare nuovi progetti, nuove persone, nuove sfide e il più delle volte entra in una dimensione di cinismo. Assume un atteggiamento freddo e distaccato nei confronti del lavoro e delle persone che incontra sul lavoro, diminuisce sino a ridurre al minimo o ad azzerare il proprio coinvolgimento emotivo nel lavoro e può abbandonare persino i propri ideali/valori. Questa condizione psichica non può che produrre di conseguenza una situazione di inefficienza, così che nella persona cresce anche la sensazione di inadeguatezza, qualsiasi progetto nuovo viene vissuto come opprimente. Si ha l’impressione che il mondo trami contro ogni tentativo di fare progressi, e quel poco che si riesce a realizzare, appare insignificante, si perde la fiducia nelle proprie capacità e in sé stessi.

È evidente che i fattori individuali non sono che delle concause, che si tratta di un male sociale, qualcosa che in forma più o meno macroscopica attraversa molti dei servizi nati e immaginati per il benessere delle persone. Esaurimento, cinismo e inefficienza serpeggiano un po’ ovunque nei servizi per la persona.

Formarsi come educatore nel sociale è diventato per tanti un percorso alienante: difficile al di là degli slogan sentire la propria associazione, il proprio ente di appartenenza come un agente di cambiamento e trasformazione sociale, difficile riconoscere nelle proprie condizioni di lavoro un contesto in cui si possa applicare ciò che viene insegnato nelle università o nei corsi di formazione, ancor di più dare respiro alle proprie motivazioni etiche o politiche; il lavoro di relazione educativa per lo più svolto in solitudine, mette sotto pressioni, a cui semplicemente viene chiesto di “resistere”, pochi gli spazi di riflessione, condivisione, crescita personale e professionale delle persone e dei gruppi. Il tecnicismo, derivato dalle università, il compilare schede di osservazione, monitoraggio, valutazione, sottraendosi quanto più possibile dalle relazioni educative, deresponsabilizzarsi rispetto alla cura dei contesti riducendo le proprie mansioni e la propria progettualità, nascondersi dietro un ruolo, è diventato per molti l’unica modalità che consente di andare a avanti.

Tuttavia in questi anni sono nati parecchi gruppi e esperienze di “resistenza civica”, realtà minoritarie, spesso nate nelle marginalità delle periferie cittadine, che si sono poste però quasi ai margini, mantenendo un dialogo critico con le istituzioni, cercando di porsi trasversalmente alle logiche di mercato del terzo settore, si sono alimentate soprattutto di volontariato etico, pur a volte costituendosi in associazioni o cooperative, puntando uno sguardo attento alla ricerca-azione, al proprio ruolo come agenti di cambiamento sociale. Nel loro agire hanno cercato di rifiutare la messa a sistema del progettificio terzo settoriale, proponendo modalità diverse di cooperazione, distribuzione delle risorse, condivisione e cercando di ri-centrarsi sul problema del senso e dell’efficacia del proprio lavoro.

ALCUNE SFIDE DELL’EDUCATORE

Abitare il “come se”

Eppure non può esistere mestiere per l’educatore senza uno slancio utopico, l’educazione non può che andare a braccetto con l’idea che possa esistere un mondo migliore o anche semplicemente un mondo dove si possa resistere. La prima sfida dell’educatore sociale è cercare di abitare il “come se”. Per chi lavora nell’educazione la perdita della speranza non è ammissibile, nemmeno il ragionevole pessimismo, se non è accompagnato da un ottimistica volontà. Si ha un dovere di autenticità certamente verso i propri interlocutori, ma anche di condivisione vera, di una ricerca comune di sviluppo, di resistenza, di immaginario oltre l’esistente. Ciò che aiuta a mantenere vivo lo spirito del “come se”, è lo spendersi nella costruzione di un contesto.

Costruire un contesto educante

Dall’etimologia della parola con-tessere, si intende contesto come “la trama” su cui poggiano e si sviluppano le azioni di tutti.

Nei principi dell’educazione attiva si trova che: “un contesto reso educante, educa tutti nello stesso momento”, al di la di ruoli e funzioni. Puntare sulla condivisione del contesto significa agire al di fuori delle dinamiche di ruolo e di potere.

Gli spazi devono essere curati, sufficientemente accoglienti da rendere l’atmosfera non asettica, ma quella propria di un ambiente di vita. Ma anche sufficientemente semplici e neutri perché il gruppo possa costruirseli a propria immagine e somiglianza.

L’ambiente, i muri, gli oggetti che vengono costruiti, sono la testimonianza visibile del dipanarsi di un processo di crescita del gruppo, delle esperienze condivise, dei rapporti.

Ma il contesto è anche il clima relazionale, continuamente curato attraverso la convivialità: celebrare le feste, preparare insieme il cibo, condividere musica, canti, danza, giochi. Sancire dei momenti di passaggio nel percorso. Offrire uscite per immergersi insieme in una esperienza collettiva che scaturisca direttamente dall’ambiente, urbano o naturale.

Il contesto educativo è luogo di ospitalità e cura se garantisce continuità nella relazione e utilizza il gruppo, valorizzandolo, sia come strumento di apprendimento che di cura dei singoli.

Chi oggi si avvicina alla professione di educatore nel sociale sa che il contesto in cui si trova a operare è o dovrebbe essere un luogo di aggregazione sociale vera. L’idea è che l’aggregazione sociale, perseguita tenacemente in quei luoghi, possa come il sasso gettato nell’acqua, creare intorno a sé altri cerchi più ampi di aggregazione sociale, ad esempio se si tratta di bambini quello delle loro famiglie e poi del quartiere, se si tratta di adolescenti delle comunità giovanili cittadine, dei gruppi musicali ecc. Ogni educatore dovrebbe lavorare con questo respiro, curare un contesto affinché le buone pratiche contagino un ambiente più allargato, anzi l’orecchio teso all’esterno fa parte delle buone pratiche stesse. Si punta in alto, di fronte alla disgregazione familiare e sociale: si è chiamati a reinventarsi una nuova forma comunitaria, che nasce tra quattro mura pensando almeno al quartiere, o perfino alla città.

La relazione educativa

La relazione educativa è tutto, è nella relazione educativa che nasce e si sviluppa trasformazione, cambiamento, per i singoli e per i gruppi. E’ nella relazione educativa che ognuno rimette in gioco i propri modelli affettivi sani e malsani vissuti fin lì, tutte le ferite, tutte le paure, tutti i bisogni e i desideri. Nella tradizione dell’educazione attiva il nostro interlocutore (che sia ragazzo, bambino, adulto o anziano) è per noi protagonista, sì delle attività del centro educativo, ma soprattutto del cambiamento evolutivo della sua vita. Il tentativo è quello di essere dei mediatori, di rendere favorevoli le circostanze. Nelle attività, nella vita dei centri educativi, cerchiamo di valorizzare attraverso i gruppi l’unicità di ognuno e poi di intuirne desideri e potenzialità inespresse, senza mai anticipare, precedere, cerchiamo di favorirne lo sviluppo, l’espressione. Le relazioni educative fanno si che ci si guardi ognuno come in uno specchio, capace però di tenere dentro sia le virtù che le deformità. I luoghi educativi che tendono ad uniformare sono il contrario del modello dell’ educazione attiva; l’educatore cercherà relazioni autentiche di confronto, anche di contrasto, in cui accetterà di misurarsi con i valori e le tendenze distruttive, spesso con la disillusione, gestendo ma non eludendo le dimensioni affettive. Ognuno a modo suo, e nella sua particolare esperienza porta un potenziale di critica dell’esistente che non deve essere addormentato, ma anzi risvegliato e “messo in azione” costruttiva, collettivizzato. Fondamentale è anche la dimensione del tempo, gli educatori sanno aspettare, non si sostituiscono mai al destino degli altri, affinano l’udito, aguzzano la vista, espandono l’intuizione, conoscono i tempi dell’anima e sanno che non è detto che spetti a loro assistere alle fioriture.

Intercultura

Integrazione è già una parola che nasconde un’idea discendente della convivenza, ci dicono gli antropologi che “interazione” sarebbe più corretta, contemplerebbe una convivenza che permette a ciascuno di interagire preservando la propria identità.

In Italia l’unico discorso che siamo capaci di fare sull’integrazione delle persone straniere è quello numerico: quanti, quanti ce ne servono? Quanti siamo in grado di assorbirne? Nel mercato del lavoro, nei centri d’accoglienza, nelle città, nelle scuole, nelle carceri, nei centri d’identificazione ecc. Quanti perché siano controllabili? Quanti da istruire? Quanti da sfruttare? Quanti da rispedire a casa?

È sorprendente come l’essere gente con una storia recente di migrazione, sia interna che all’estero non ci aiuti assolutamente né a sviluppare buone e concrete pratiche d’accoglienza, né a sviluppare un discorso culturale di qualche tipo riguardo all’immigrazione. L’immaginario è misero. Il sentimento comune oscilla tra un generico senso civico “italiani brava gente”, la paura per lo smarrimento di un senso d’identità e la solita paura di dover spartire il proprio benessere con chi essendo arrivato dopo, ha meno diritti di noi. Ogni educatore deve misurarsi con questo sfondo, se lavora con le giovani generazioni sarà chiamato a cogliere proprio da loro il giusto savoir faire, perché chi in un mondo multietnico c’è nato, è spesso maggiormente in grado di esprimerne le criticità, le potenzialità riportando un interrogazione nuova su parole come “radici”, “appartenenza culturale”, “cittadinanza”, l’educatore è dunque chiamato ad essere testimone e poi veicolo di questi piccoli pionieri, in grado di nutrire fuori dagli schemi ideologici e dai fantasmi, l’immaginario collettivo su una società multietnica, su una nuova convivenza interculturale.

Non si può nascondere che un contesto educativo che voglia dirsi tale si scontrerà col problema “delle comunità”, della loro incomunicabilità, dei pregiudizi, e delle tensioni che le attraversano. Per tutti le parole di Alex Langer, nel suo Decalogo per la convivenza dice:

“In ogni situazione di coesistenza inter-etnica si sconta, in principio, una mancanza di conoscenza reciproca, di rapporti, di familiarità. Estrema importanza positiva possono avere persone, gruppi,

istituzioni che si collochino consapevolmente ai confini tra le comunità conviventi e coltivino in tutti i modi la conoscenza, il dialogo, la cooperazione. La promozione di eventi comuni ed occasioni di incontro ed azione comune non nasce dal nulla, ma chiede una tenace e delicata opera

di sensibilizzazione, di mediazione e di familiarizzazione, che va sviluppata con cura e credibilità.

Accanto all’identità ed ai confini più o meno netti delle diverse aggregazioni etniche è di fondamentale rilevanza che qualcuno, in simili società, si dedichi all’esplorazione ed al superamento dei confini: attività che magari in situazioni di tensione e conflitto assomiglierà al contrabbando, ma

è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’inter-azione. Esplosioni di nazionalismo, sciovinismo, razzismo, fanatismo religioso, ecc. sono tra i fattori più dirompenti della convivenza civile che si conoscano (più delle tensioni sociali, ecologiche o economiche), ed implicano praticamente tutte le dimensioni della vita collettiva: la cultura, l’economia, la vita quotidiana, i pregiudizi, le abitudini, oltre che la politica o la religione. Occorre quindi una grande capacità di affrontare e dissolvere la conflittualità etnica. Ciò richiederà che in

ogni comunità etnica si valorizzino le persone e le forze capaci di autocritica, verso la propria comunità: veri e propri “traditori della compattezza etnica”, che però non si devono mai trasformare in transfughi, se vogliono mantenere le radici e restare credibili. Proprio in caso di conflitto è essenziale relativizzare e diminuire le spinte che portano le differenti comunità etniche a cercare appoggi esterni (potenze tutelari, interventi esterni, ecc.) e valorizzare gli elementi di comune

legame al territorio”.

CONCLUSIONE

L’educazione è una vocazione, un’arte e come tutte le arti ogni giorno si dedica ad affinare i propri strumenti, ogni giorno si nutre con uno sguardo vivo e curioso verso il mondo, ogni giorno guarda e riguarda il suo operare con occhio critico, sopportando la frustrazione, l’assenza di ispirazione. L’educatore come l’artista cerca la bellezza, e la trova.

Contesti di riferimento per la formazione e l’azione educativa:

Movimenti:

Movimento di cooperazione educativa: www.mce-fimem.it

Centri per l’esercitazione ai metodi dell’educazione attiva: www.cemea.it e www.cemea.it/index.php/ludea

Associazioni:

Casa laboratorio di Cenci: www.cencicasalab.it (Amelia)

Asinitas onlus: www.asinitas.org (Roma)

Centro territoriale Mammut: www.mammutnapoli.org (Napoli)

Associazione Asnada: scuolasnada.blogspot.com (Milano)

Testi di riferimento:

Zoppoli G.(a cura di), Come partorire un Mammut, ed. Marotta e Cafiero, Napoli 2011

Lorenzoni F., Saltatori di muri, Ed Macro, cesena 1988

Fofi G. (a cura di) Lamberto Borghi, La città e la scuola, ed. Eléuthera, Roma 2008

J.Korczak Il diritto del bambino al rispetto, ed. dell’asino, Roma 2011

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