Una scuola a Zurigo

a cura di Nicola Villa
Mi chiamo Michele Cirigliano e insegno in una scuola media di un quartiere di Zurigo in cui io stesso sono cresciuto e che si chiama distretto 4, che tradizionalmente viene denominato “il quartiere dei lavoratori”. Non so di preciso da quando viene chiamato così ma, probabilmente, da quando c’è stata la prima ondata di migranti proveniente dall’Italia, quindi dal 1860 in poi, quando i primi emigranti italiani provenienti soprattutto dal settentrione trovavano lavoro nell’edilizia e nelle ferrovie. Seguì un’altra forte ondata di emigranti negli anni Sessanta del secolo scorso, quando a raggiungere la Svizzera furono gli italiani del Sud. Questo è stato sempre considerato un quartiere malfamato. Qui si possono incontrare molte diaspore: un nucleo di italiani originario a cui si sono aggiunti gli spagnoli, poi i turchi, e si è allargato col tempo a tutto il mondo. Parallelamente a questa storia di migrazioni, è cresciuto anche il fenomeno della prostituzione e dello spaccio di droga, fenomeni considerati anomali per la Svizzera, e infatti questo quartiere, insieme al quartiere limitrofo, quello industriale, è diventato celebre a livello nazionale, in un paese dove sembra che i problemi non esistano. Al contrario di quanto si pensi, Zurigo ha una lunga storia legata alla droga, ad esempio con la vicenda del cosiddetto “Needle Park” (parco degli aghi, nel senso delle siringhe) nel quale i tossicodipendenti si iniettavano la droga in spazi pubblici e che venne sgomberato nel 1995; da quel periodo in Svizzera ci sono leggi tra le più avanzate al mondo sul consumo di droghe pesanti e sull’assistenza alle tossicodipendenze.
Nel 1961 è emigrato qui mio padre da Tricarico, provincia di Matera, e diversi anni dopo anche mia madre, nel 1974. Io sono nato a Zurigo, praticamente questo quartiere non l’ho mai lasciato fino a qualche anno fa, quando mi sono trasferito in un paese poco fuori la città.
Negli ultimi anni, come spesso accade nelle grandi città, i quartieri un po’ malfamati subiscono il fenomeno della gentrificazione: tantissime case, con l’intenzione di valorizzare il distretto o spesso semplicemente per guadagnare quattrini, sono state vendute oppure proprio buttate giù e ricostruite e chiaramente come sempre succede gli affitti sono saliti alle stelle. È stato investito molto per rivalutare il quartiere e cosa è successo? Stanno venendo a vivere sempre più famiglie benestanti, molti hipster, giovani con dei lavori buoni, e molte famiglie anche con bambini piccoli. Tuttavia molti stranieri abitano tuttora nelle case più vecchie, più malandate, quelle case dove magari i proprietari non hanno voglia di ristrutturare e che hanno comunque alzato i prezzi degli affitti. Capita spesso che due famiglie si dividano un appartamento di quattro stanze.
Per quanto riguarda la scuola media dove insegno (qui le scuole medie vanno dai 13 ai 16 anni), più dell’85-90% degli alunni sono figli di immigrati, anche perché la nuova popolazione gentrificata del quartiere tende a mandare i figli in altre scuole, perché la nostra scuola come altre simili ha una cattiva reputazione, per cui il livello scolastico sarebbe più basso che altrove. In questa scuola insegno da tre anni, nel quartiere da 18.
Come infrastruttura, nella scuola pubblica non esistono scuole di livello molto più alto rispetto ad altre; ci sono molte differenze tra cantone e cantone per via del federalismo, quindi ogni cantone decide come investire nell’ambito dell’educazione, però diciamo che lo standard è alto dappertutto in Svizzera. Per questo anche la nostra è una scuola con un’infrastruttura molto valida. Non ci manca niente, abbiamo un proiettore in tutte le stanze, le officine di falegnameria, di metallo, due aule-cucina, c’è l’aula per fare canto, c’è l’aula disegno, due palestre, un computer per ogni secondo allievo, un’aula di fisica e chimica per le sperimentazioni. La scuola offre diverse possibilità, di lavorare con le mani, con la testa, con i movimenti perché da noi è molto importante il sistema scolastico duale: in Svizzera, di solito, dopo le scuole medie circa il 20% degli alunni va al liceo mentre l’80% fa un apprendistato, diventa uno specialista in un qualsiasi mestiere. Dopo la terza media devi fare un esame di accesso se hai i voti buoni per accedere al liceo e solo il 20% degli alunni ce la fa. Si possono contare oltre 250 professioni che puoi imparare dopo la scuola media. Fai altri tre o quattro anni di apprendistato in cui uno o due giorni a settimana vai a scuola e durante gli altri giorni impari il mestiere. La reputazione di queste scuole tecniche è molto elevata. Il liceo ti porta direttamente a poter studiare all’università, però se fai un apprendistato non vieni considerato inferiore perché dopo l’apprendistato in quasi tutti i mestieri hai l’opportunità di continuare a studiare e specializzarti. L’obbiettivo è far trovare a tutti gli alunni un accesso a quello che poi succede dopo le scuole medie, un accesso al mondo lavorativo soprattutto. Visto che sono in pochi ad andare al liceo noi ci concentriamo molto sui ragazzi che andranno poi a lavorare e per questo cerchiamo di fargli fare delle esperienze in vari campi, li facciamo lavorare con tutto. Grazie a questo sistema duale il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 16 e i 25 anni è molto basso. Parliamo del 5% circa. Più o meno il 30% delle ore che hanno a scuola sono dedicate a queste materie pratiche: fanno tre ore di cucina, due ore di falegnameria, due ore di lavori col metallo, tre ore di sport; in seconda fanno cucito, lavori di sartoria, due ore di disegno, un’ora di canto… sono materie sempre molto presenti da noi. Oltre alla matematica, il tedesco, il francese, l’inglese, la storia, la geografia, insomma le materie che fanno parte del tradizionale programma scolastico. Però un terzo delle ore sono sempre materie pratiche proprio perché consideriamo il fatto che dopo dovranno essere pronti e disposti a saper lavorare con tutto. Cerchiamo di avvicinarli a delle prime esperienze autentiche o almeno simili a quelle con cui potenzialmente si confronteranno dopo la scuola dell’obbligo.
Tutte le scuole di questo quartiere hanno un numero di stranieri molto elevato, ma nella nostra scuola esiste una “classe di accoglienza” per chi viene dall’estero in situazioni precarie oppure con lo status di rifugiato. Abbiamo qui degli alunni che non parlano neanche una parola di tedesco. A seconda della situazione geopolitica, per esempio ultimamente accogliamo molti ragazzi dalla Siria, dall’Eritrea; negli anni duemila venivano molti bambini dallo Sri Lanka. In questi paesi c’erano, ci sono, situazioni di crisi e di guerra. Si può osservare in modo evidente dalla formazione di queste classi dove nel mondo ci sono le problematiche più atroci. E un’altra cosa interessante che riguarda la situazione che stiamo vivendo adesso è che per via del Covid questa classe è praticamente vuota; mentre negli anni passati avevamo dai 13 ai 15 alunni, adesso ne sono rimasti 2 perché con le restrizioni di viaggio le frontiere sono chiuse. L’alto tasso di bambini che vengono dall’estero non è dato dal fatto che siamo una scuola particolare ma proprio dal fatto che si trova in un quartiere tradizionalmente di lavoratori, di operai e di gente che viene dall’estero, di gente semplice, di stranieri.
Poi chiaramente questo fattore di un alto tasso di stranieri comporta diverse conseguenze: da una parte è un arricchimento incredibile per tutti, un arricchimento culturale, di scambi di idee per gli alunni che non hanno nessuna paura a confrontarsi, a toccarsi, a comunicare, è automatico sedersi vicino a un turco, vicino a un somalo, il problema non si forma proprio perché è la normalità. Ovviamente può capitare il conflitto: ad esempio negli anni novanta mi ricordo che quando venivano i ragazzi dai Balcani avevamo moltissimi problemi con i kosovari che non andavano d’accordo con i serbi, oppure oggi teniamo d’occhio i ragazzi provenienti dall’Eritrea e dalla Somalia. Le tensioni tuttora accese tra i due paesi possono rispecchiarsi negli allievi. Lì poi c’è molto lavoro da fare perché sono conflitti che anche loro si portano dietro. Oppure abbiamo molti ragazzi che provengono dall’Eritrea o dalla Siria che hanno visto cose inimmaginabili.
Da una parte è un arricchimento enorme anche per noi maestri, dall’altra, a differenza di quello che succede con classi più omogenee, in una scuola come la nostra devi trovare un linguaggio comune, c’è molto lavoro da fare dal punto di vista della comunicazione e sul piano educativo, devi badare a molte più cose.
La classe di accoglienza è una classe speciale dove c’è una didattica diversa dell’insegnamento del tedesco, ci sono anche due maestre che sono specializzate su questo tipo di casi e in un anno si cerca di far apprendere il tedesco in modo da poter poi mettere i ragazzi in una classe regolare. Quindi si usa proprio una didattica diversa, a volte questi ragazzi vengono qui che non sanno veramente neanche leggere o scrivere e lì chiaramente devi individualizzare molto, per ogni alunno devi mettere in atto un programma diverso, devi essere molto bravo a trovare i bisogni di ciascun alunno.
L’altra problematica è che il livello del tedesco nella nostra scuola è comunque un po’ più basso perché spesso i genitori di questi ragazzi il tedesco non lo parlano bene e spesso loro a casa parlano la loro lingua madre che può essere il kosovaro, serbo-croato, l’italiano, lo spagnolo… qui abbiamo più di 25 nazionalità diverse. Quindi a casa hanno imparato una specie di lingua madre che non sanno bene perché questi genitori spesso non sono coltissimi e loro stessi non masticano la loro lingua madre benissimo e la linguistica dice che se hai una base molto forte nella tua lingua madre sarai poi più facilitato nell’apprendere un’altra lingua. Ma siccome molti dei nostri alunni non parlano bene neanche la lingua madre poi fanno fatica anche a imparare il tedesco anche se spesso sono nati qui. Molti dei nostri alunni sono nati a Zurigo. Però fanno fatica a parlare il tedesco, anche perché non partecipano alla vita sociale della città, non li vedi in una squadra di calcio, in un’associazione sportiva. Soprattutto ad esempio le ragazze portoghesi o tamil si muovono molto nella loro rispettiva diaspora e quindi per loro diventa più difficile apprendere la lingua. E con questo noi combattiamo, mettiamo molto a fuoco l’apprendimento del tedesco.
All’attività dell’insegnante affianco quella del videomaker. Non mi ritengo un regista perché di film non ne ho fatti ancora tanti e secondo me in tutte le professioni bisogna aver fatto qualcosa e avere alle spalle tanti anni di esperienza per potersi ritenere del mestiere. Il primo lungometraggio che ho realizzato è Padrone e sotto nel 2014: si tratta di un film su un gioco molto diffuso soprattutto da Roma in giù, che si faceva nelle osterie e ora nei bar di paese e di provincia, per il quale seduti a un tavolo gli uomini “fanno olmo” qualcuno, cioè creano un capro espiatorio, impedendogli di bere tutta la sera. Già da bambino mi ha molto colpito – e infatti l’ho messo nel film – che in qualsiasi bar di Tricarico sentivi questi uomini che gridavano e che si arrabbiavano. Ripensandoci da adulto mi sono chiesto che cosa significa ritrovarsi nel bar, cosa significa trovare un pretesto per poter bere, stare insieme, per non rimanere da soli alla fine. Il bar è un rifugio alla fine per tutti quelli che stanno un po’ ai margini. Il gioco stesso è molto crudele, e cercavo di capire se chi nel gioco è sempre padrone, chi decide sempre quale giocatore non beve neanche un sorso di birra, anche al di fuori del bar assume un ruolo di maggiore importanza. Se tu nel gioco di “padrone e sotto” non vinci mai o non riesci mai a bere la birra, sei un perdente anche fuori dal bar? Era questa la mia domanda, e non so se ho trovato una risposta. Ma la risposta più importante è proprio che il gioco è un pretesto per raccontare la storia di questi contadini e di questi cacciatori, di questo operaio della Fiat che la mattina si sveglia alle cinque per farsi due ore di viaggio per andare a lavorare a Melfi. Dico che sono persone ai margini della società anche perché quando ho mostrato il film a Tricarico, due volte, sono rimasti tutti meravigliati da questi personaggi. Tutti quelli che non bazzicano quei locali non conoscono bene queste realtà. E parliamo di un paese di cinquemila abitanti, ci si conosce tutti eppure certe storie non le sai. E i motivi per cui vanno a bere praticamente ogni sera, come si sentono veramente questi personaggi, non lo sa nessuno. Alla fine i bar italiani dei paesi piccoli sono anche dei rifugi per chi altrimenti non troverebbe alternative. In passato giocavano anche personaggi altolocati, poteva capitare al tavolino un avvocato, un professore, ed essendo un gioco in cui si devono assumere dei ruoli a seconda delle carte che hai (ad esempio il ruolo di padrone) rispetto alla realtà da perdente nel gioco hai la possibilità di prenderti una rivincita su chi è superiore a te. Nel gioco valgono altre regole.
Di recente ho fatto un altro film per la tv svizzera sul calcio, che uscirà l’anno prossimo nei cinema svizzeri. Sono sempre stato un appassionato di calcio, soprattutto l’ho sempre giocato, e ho sempre sentito fortemente i momenti vissuti negli spogliatoi perché secondo me era proprio lì che si vedevano tante gerarchie, che tu cambiavi ruolo: entravi da individuo e uscivi con la divisa della tua squadra e dovevi far parte della squadra, dovevi cambiare atteggiamento, da individuo egoista dovevi diventare parte di un collettivo. Questo momento della trasformazione mi interessava. E quindi ho seguito quattro squadre, una squadra di professionisti, una squadra di donne, una squadra di juniores di 14 anni e una squadra di seniores, di over 50. Sono andato alla ricerca dei punti comuni di queste squadre così diverse tra loro e chiaramente ho trovato sia punti comuni che grosse differenze, e adesso ne è uscito un film secondo me abbastanza interessante perché fa vedere anche l’importanza della vita all’interno dell’associazione sportiva, è un esempio dell’importanza formativa anche di un’associazione, che sia sportiva o culturale. In Svizzera le associazioni hanno un ruolo importante nel trasmettere certi valori tipicamente svizzeri come la puntualità, la disciplina, il lasciar da parte l’ego per dare spazio all’altruismo… E proprio adesso, nella situazione particolare che tutti noi stiamo vivendo, il film ci ricorda di quant’era normale fino a qualche mese fa abbracciarci, toccarci, baciarci, starci vicino. Le immagini ci fanno rendere conto che forse alla fine sono proprio i gesti che prima non consideravamo nemmeno ad essere quelli più importanti.
Fare cinema, musica, letteratura… viene considerato un atto culturale, artistico, mentre lo sport, in particolare il calcio, è stato sempre visto come solo popolare, un po’ banale, un po’ rozzo e io ho cercato proprio di mostrare l’aspetto sociale del calcio. Secondo me è un contributo molto importante al vivere bene, al vivere insieme. Il calcio come il tennis, la pallavolo, l’associazionismo sportivo in generale.
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