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Una morte in famiglia. Annie Ernaux e suo padre

Grazie a "La Place", nel 1983, Annie Ernaux si portò a casa l'illustre premio Renaudot; adesso, dopo più di 30 anni, il breve testo della scrittrice francese viene tradotto in Italia grazie alla casa editrice Le Orme, che ha il merito di proporre, per la prima volta al lettore italiano, questo bellissimo libro.
16 Giugno 2015
Matteo Moca

Grazie a “La Place”, nel 1983, Annie Ernaux si portò a casa l’illustre premio Renaudot; adesso, dopo più di 30 anni, il breve testo della scrittrice francese viene tradotto in Italia grazie alla casa editrice Le Orme, che ha il merito di proporre, per la prima volta al lettore italiano, questo bellissimo libro.

Si tratta di una sorta di autobiografia ibrida, un racconto che narra l’esperienza individuale della Ernaux attraverso la figura di suo padre (azzeccatissimo il disegno di copertina dell’edizione italiana con le due ombre, quella del padre è quella della figlia, che si riflettono vicendevolmente) e, viceversa, la personalità del padre in funzione della figlia, partendo proprio dalla sua morte, consegnandoci così un doppio ritratto familiare. Una storia che riflette un preciso periodo storico e una frattura filiale che deve aver colpito un’intera generazione: si parla di un periodo in cui la cultura e l’istruzione erano ancora mezzi di emancipazione (“Studiare, una sofferenza obbligatoria per farsi una posizione e non sposare un operaio”), un periodo in cui la divaricazione che si apriva tra la famiglia contadina e provinciale e i figli istruiti e “di città” segnava una ferita che, anche con molti coagulanti, non riusciva mai a richiudersi. Come racconta la Ernaux, non è che si creassero delle discussioni pesanti che portavano alla frattura, si trattava piuttosto di una mutazione dei punti di vista e dei riferimenti che facevano perdere completamente il fronte comune (“I libri, la musica, vanno bene per te. Io non ne ho mica bisogno per vivere” dice il padre). Leggendo le pagine di questo racconto, si viene travolti da un sentimento di tenerezza e di compassione (nel senso etimologico di “soffrire con”) verso un padre che entra a far parte della categoria delle “persone semplici, o modeste, la brava gente”, colui che cerca di assecondare la figlia istruita non riuscendo però nel suo scopo (esemplificativo il comportamento del padre nei confronti delle compagne di università che la Ernaux invitava nella casa di campagna dei genitori, nell’alta Francia, quelle ragazze “senza pregiudizio” che andavano a passare del tempo in quegli “ambienti semplici”).

In esergo al testo si trova una citazione di Jean Genet che recita: “Azzardo una spiegazione: scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito”. Frase eloquente e dal significato, in apparenza, abbastanza semplice ma che porta con sé tutta una serie di conseguenze che si riflettono poi nella scrittura, nello stile e nella struttura. Di che tipo di tradimento si parla? E può essere questo tradimento genitore della scrittura? Possono cioè le parole ordinarsi sul foglio grazie allo spirare dei sensi di colpa? Leggendo il libro credo di no, o almeno credo che non derivi tutto da questo. È innegabile che la ferita e la frattura di cui si parlava prima non sia stata ricucita. Il padre della Ernaux è morto due mesi dopo che lei aveva ricevuto l’incarico di professoressa di ruolo. Dopo il suo funerale la necessità di spiegare tutto questo, di “scrivere riguardo a mio padre, alla sua vita, e a questa distanza che si è creata”, di dare libero sfogo a quella che, freudianamente parlando, può essere definita la scrittura privata dell’io, la semplice necessità di scrivere un libro sul padre. Sono questi i presupposti che rendono impossibile la stesura di un romanzo, la creazione di un mondo artificiale e l’affiliazione al “partito dell’arte”: l’unico sforzo possibile è quello della biografia, quello di mettere “assieme le parole, i gesti, i gusti” del padre, i fatti di rilievo della sua vita e di scrivere di un’esistenza che pure lei ha condiviso. E, legando la struttura alle forme, è scontato e normale che lo stile sia quello che ci si aspetta: “nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione” ma una scrittura “piatta” che è quanto di più naturale venga fuori, “la stessa che – dice la Ernaux – utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare le notizie essenziali”. Ma tutto questo non può e non deve sembrare una semplificazione; nelle 107 pagine del libro è racchiusa un’esistenza intera, quella del padre, e l’importanza che essa ha assunto nella vita della figlia. Ogni frase, ogni parola, ma anche ogni segno di punteggiatura, è magistralmente calibrato per soddisfare un simile, difficilissimo compito.

Come dicevo in apertura, questo duplice e contemporaneo resoconto di vite, si apre con il racconto di una morte, quella del padre, che arriva dopo neanche cinque pagine e, anche per questo triste episodio del racconto, lo stile della Ernaux non si muove di un passo, non abbandona il suo stile da memoir ma, paradossalmente, riesce a non essere freddo, risultando caldo e sentimentale: “Era una domenica, nel primo pomeriggio. Mia madre è comparsa in cima alle scale. Si tamponava gli occhi con un tovagliolo che probabilmente aveva portato con sé quando era salita in camera dopo pranzo. Con voce neutra ha detto: «È finita». I minuti seguenti non li ricordo. Rivedo solo lo sguardo di mio padre mentre fissa qualcosa dietro di me, lontano, le labbra contratte a lasciare scoperte le gengive. Credo di aver chiesto a mia madre di chiudergli gli occhi”. Oppure l’altrettanto memorialistico, ma venato da forti sentimenti, episodio in cui la madre comunica al figlio la morte del nonno, nel modo più naturale possibile: “Ho chiuso le persiane e ho svegliato mio figlio che stava facendo il riposino nella camera a fianco. «Il nonno ora fa la nanna»”. La centralità dell’episodio della morte del padre nella vita di una figlia è ovvia e viene ancora sottolineata dalla forma circolare del testo che, a poche frasi dalla conclusione, ritorna sulla descrizione di quel momento per precisarlo ancora di più, per raccontare cosa lei stava facendo quando suo padre è morto e per evidenziarne, come se ce ne fosse ancora bisogno, la portata emotiva e personale e, forse, la spinta alla scrittura: “Mentre lavavo i piatti sono arrivati i miei zii. Dopo aver fatto visita a mio padre si sono sistemati in cucina. Ho servito del caffè. Ho sentito mia madre camminare lentamente al piano di sopra, cominciare a scendere. Ho creduto, nonostante quei passi lenti, inusuali, che stesse venendo a prendere il caffè. Era ancora sulla curva delle scale, ha detto piano: «È finita»”. Ma è in una delle frasi finali che si vede ancor più alla luce del sole la funzione che il padre, più o meno inconsciamente, ha avuto per l’iniziazione alla formazione culturale della figlia, con un’immagine semplice e di cui a molti sarà capitato di essere protagonista; ma trovarla qui, a conclusione del racconto, la porta ad imporsi come una delle chiavi attraverso cui riuscire ad entrare nel testo: “Mi portava da casa a scuola sulla sua bicicletta. Traghettatore tra due sponde, con la pioggia e con il sole. Forse il suo più grande motivo di orgoglio o, persino la giustificazione della sua esistenza: che io appartenessi a quel mondo che l’aveva disdegnato”.

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