Un operoso alveare senza l’ape-regina. Pensieri sulle rivoluzioni arabe

“C’è stato un tempo in cui eravamo presenti, poi siamo stati sconfitti, e il senso di tutto questo è stato sconfitto assieme a noi. Non siamo però ancora morti, e anche il senso continua a vivere. Forse la nostra sconfitta era inevitabile, ma il caos che ha invaso il mondo prima o poi darà alla luce un nuovo mondo, un mondo che – ovviamente – sarà guidato dai vincitori. Ma niente riuscirà a bloccare i forti, né modificherà i limiti della libertà e della giustizia, oppure definirà gli spazi della bellezza e le possibilità per una vita comune se non i deboli, che insistono sul fatto che il senso prevarrà – persino dopo la sconfitta”.
Alaa Abdel Fattah, A profile of the activist outside his prison, in Mada Masr, 18 aprile 2017
“Che cos’è un uomo in rivolta? È innanzitutto un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia: è anche un uomo che dice sì”.
Albert Camus, L’Uomo in Rivolta
foto di Eduardo Castaldo
Non c’è rivoluzione senza città. Tunisi, Cairo, Manama, Khartoum, Algeri, Baghdad, Beirut… L’elenco è lungo e aperto, in quello che ormai si configura come il decennio del Secondo Risveglio Arabo. Non c’è rivoluzione senza i centri urbani, siano essi le capitali, le grandi città, i centri rilevanti per il farsi delle singole storie nazionali.
La riappropriazione dello spazio politico passa, dunque, sempre dallo spazio urbano. Non è solo perché, in modo verrebbe da dire tautologico, la protesta si dispiega nelle piazze e nelle strade, in particolare nei centri storici, frutto di una stratificazione violenta e complessa. È perché, soprattutto, occupare quegli spazi vuol dire risignificarli e, in questo modo, appropriarsene dal punto di vista politico. Basta guardare a quali sono, o sono stati, i luoghi deputati delle proteste, da Beirut al Cairo, da Baghdad ad Algeri, per comprendere nel profondo quanto le rivolte trovino nei simboli urbanistici e architettonici una delle cifre più importanti a definire le stesse richieste politiche.
Non c’è rivoluzione senza i centri urbani, siano essi le capitali, le grandi città, i centri rilevanti per il farsi delle singole storie nazionali.
In principio – al Cairo – è stata Tahrir, la “piazza della Liberazione”. Ironia della storia, più che della sorte, a Baghdad il cuore della protesta è in un’altra piazza Tahrir. Nel caso egiziano, la piazza era non solo la congiunzione tra diverse aree della metropoli, ma conteneva imponenti simboli del potere, come il lugubre ministero dell’Interno e la sede dello NPD, il partito che ha guidato il Paese per decenni e che significava la famiglia Mubarak, la corruzione, la clientela. Occupare il centro del Cairo significava, peraltro, sottolineare come il potere avesse deciso da anni – e continua ancora oggi – di abbandonare la città e mettere tra sé e i governati (i subalterni) la distanza siderale che separa il cuore del Cairo dalle comunità protette, le città satellite emendate dal contatto con gli strati popolari.
A Baghdad, invece, la piazza scelta è prossima al potere, quasi la tocca. È ai confini della “zona verde”, dunque di un altro luogo decisionale che mette assieme il governo nazionale e le ambasciate, il potere locale e le pressioni internazionali.
Il caso di Beirut è altrettanto simile e al tempo stesso introduce la lingua della storia, dello sfruttamento neoliberale della città, della perdita di un pezzo di trama urbana e, dunque, di memoria. La piazza dei Martiri rivisitata dopo la guerra civile e tutta la zona che arriva al mare, sede principale della speculazione edilizia targata Solidere, ha perso lo spessore della condivisione che aveva avuto fino agli anni Sessanta. Le ferite della guerra civile non sono state curate, sono semplicemente state cancellate. La protesta di queste settimane non solo si concentra proprio in quella piazza, ma prende possesso dell’Uovo, il cinema mai terminato e mai aperto, simbolo dello scempio architettonico della città. L’Uovo, scheletro di un progetto architettonico ambizioso degli anni Sessanta, diviene il contenitore della nuova scena artistica libanese, vivace, ricchissima. Uno spazio che si libera delle regole statuite dalla storia confessionale del Libano.
Rue Didouche Mourad, la piazza della Grand Poste, piazza Maurice Audin ad Algeri, risignificano dal punto di vista politico non solo lo spazio, ma il tempo quotidiano. Il centro che la Francia coloniale aveva disegnato a sua immagine e somiglianza, sul piano culturale e soprattutto militare, di controllo della città, diventa lo spazio della protesta e, in un gesto ancor più rivoluzionario, riempie le notti di Algeri. Fino a febbraio, al primo dei circa quaranta venerdì di protesta, vi era ad Algeri un coprifuoco non scritto ma rispettato: l’oscurità, la sera, la notte erano il tempo del rientro nelle case, retaggio degli anni della guerra civile. Il gesto di estrema liberazione, da febbraio a oggi, è il gesto della conquista del buio nella città.
La città diviene, simbolicamente, anche lo spazio in cui la gestione dei servizi necessari alla vita quotidiana raggiunge la sua complessità. Rifiuti, elettricità, acqua, infrastrutture, crisi degli affitti, e poi traffico, lavoro, convivenza. Non è dunque un caso, è anzi uno dei colori delle rivoluzioni, se dalle piazze – da tutte le piazze – sale alta la richiesta di assunzione di responsabilità. Quella che nell’inglese usato in tutto il mondo si definisce come accountability, un termine che contiene quel “dover rendere conto del proprio operato” in quanto funzionario pubblico, esponente del governo del Paese, impiegato, imprenditore. Chiunque appartenga al pubblico impiego o ai settori economici che hanno un qualsiasi legame (politico-clientelare, in genere) con lo Stato deve rendere conto a chi usufruisce dei servizi, a chi vive una quotidianità sempre più percepita come defraudata, indifesa, insostenibile. Gli esempi sono sempre gli stessi: l’assenza o carenza di servizi essenziali, il comportamento fraudolento non sanzionato, la percezione di essere subalterni in qualsiasi aspetto della vita, la corruzione che blocca il futuro.
In Libano, le manifestazioni degli anni scorsi si sono, per esempio, concentrate sui rifiuti, portando i sacchetti di immondizia sino alle porte dei potenti. Un problema talmente reale da aver provocato la reazione corale della popolazione, che vive (ancora) coperta di immondizia. E allo stesso tempo è un problema che diviene il simbolo di una richiesta complessiva di pulizia. Mondare il Paese da corruzione e malgoverno, ripulire il Libano dalla gestione settaria, confessionale, familistica del sistema. Una richiesta che sale forte da Beirut, e da tutte le città arabe che sono insorte in questi anni. Se si dovesse scegliere il simbolo delle proteste, infatti, la ramazza è forse l’oggetto più visto e più usato nelle strade. Brandito come un cartello, usato per pulire i marciapiedi e le piazze, indicando la distanza tra un “noi” che è pulito e vuole pulizia, e un “loro”, i potenti, i governanti, che insozzano il Paese con il loro comportamento.
Non è casuale che i gesti all’interno del contenitore “fare pulizia” comprendano anche i ritratti dei governanti, degli uomini del regime. È l’iconografia che inonda da decenni le città arabe, con differenze di carattere semplicemente estetico. In Libano si strappano i poster dell’iconografia familistica che invade da anni le strade di Beirut, di Tripoli, di Sidone, di Tiro. Diversi i volti e le appartenenze, uguale il significato politico della onnipresenza di quei volti su ogni palo dell’illuminazione, palazzo, viale. In Egitto i poster di Hosni Mubarak si cominciarono a strappare nel 2003, quando Stati Uniti e Regno Unito invasero l’Iraq. In Algeria la rabbia contro la quinta candidatura del presidente Abdelaziz Bouteflika, malato da anni, si è subito concentrata sui maxiposter affissi nel centro della capitale.
Se si dovesse scegliere il simbolo delle proteste, infatti, la ramazza è forse l’oggetto più visto e più usato nelle strade. Brandito come un cartello, usato per pulire i marciapiedi e le piazze, indicando la distanza tra un “noi” che è pulito e vuole pulizia, e un “loro”, i potenti, i governanti, che insozzano il Paese con il loro comportamento.
Fuori gli esponenti dei regimi, dentro un simbolo che gli stessi regimi hanno sempre usato, nella chiave della decolonizzazione o in quella della sovrapposizione tra potere e nazione. La bandiera è onnipresente in ogni rivoluzione araba. Non per un nazionalismo di ritorno. Anzi! È soprattutto il suo significato inclusivo, di cittadinanza, a essere preso da chi protesta – mettendo assieme generazioni e appartenenze a diversi ceti sociali, confessioni religiose, genere – e brandito come una forte riappropriazione dei segni politici oltre la rappresentanza dei partiti e dei movimenti. “Qui non ci sono vessilli di partito. Solo la bandiera nazionale. Questa è una rivoluzione di popolo, senza colore politico”. È una delle frasi più frequenti che si ascoltano a Beirut, Baghdad, Algeri. Ed erano le stesse pronunciate a Tunisi, Cairo, Manama. La bandiera nazionale, intrisa anch’essa di segni storici e di percorsi politici, si emenda nelle mani della piazza, si risignifica e diventa un simbolo inclusivo. A volte, ben oltre la “nazione”. Sempre, comprende in sé la dimensione più genericamente popolare, di una società che vive un’esistenza quotidiana povera di diritti.
Diritti. Questa è ancora oggi la parola chiave. La questione della dignità, dunque dei diritti, percorre l’intero decennio e tutta la regione. Diritti umani, civili, di genere, di fede, di espressione, sindacali. Tutti i diritti compresi nelle convenzioni internazionali. È attraverso i diritti che le rivoluzioni si fanno inclusive nella stessa pratica politica della protesta. Perché le rivolte in corso, e quelle che le hanno precedute, che sono state sconfitte ma non sedate, rompono gli stereotipi di un “oriente permanente e astorico”, come in sostanza lo definiva Edward Said. Nelle piazze ci sono le donne, parte più che attiva, costitutiva, perché nell’assenza delle donne non c’è rivoluzione, nelle piazze arabe. Nelle piazze ci sono i cittadini che pregano in modo diverso il loro Dio. Nelle piazze ci sono diverse storie culturali e politiche. Nelle piazze c’è la cittadinanza inclusiva perché, come si grida a Beirut, “tutti vuol dire tutti”.
Nelle piazze non ci sono, proprio per questo, i leader. “In piazza, oltre al cibo, si trova di tutto: unità di cure mediche, unità di pulizia, gruppi di artisti che trasformano i muri in opere d’arte, unità di soccorso dei feriti (i Tuktuk), unità antilacrimogeni. Una specie di alveare, ma senza l’ape regina. Ecco, la cosa straordinaria è che questo alveare funziona da solo, senza nessun capo, ognuno sa quello che deve fare. Tutti lavori gratuiti, fatti con il cuore e con l’anima, e con una dedizione rara”. È Gassid Mohammed, poeta iracheno che vive da molti anni a Bologna, a scrivere, sul suo profilo Facebook, un primo diario da Baghdad, dov’è andato per vedere con i suoi occhi la rivoluzione. La medesima descrizione la si ritrova dappertutto, nelle proteste.
Il paragone con l’alveare dice molto della piazza. Delle piazze. Si potrebbe anche andare oltre, e fare un altro paragone, quello con le reti informatiche, soprattutto quelle che tra la metà degli anni Novanta e per il successivo decennio hanno mostrato una potenzialità “orizzontale”, vale a dire la possibilità di creare legami e relazioni e comunicazioni e scambi al di fuori di strutture di potere consolidate. Strutture analogiche, ancora poco use a essere sfidate da una rete che metteva assieme con strumenti nuovissimi i “senzapotere”, per dirla con Vaclav Havel. A spiegarlo, forse involontariamente o forse no, è Alaa Abdel Fattah, attivista egiziano, suo malgrado icona della rivoluzione di Piazza Tahrir al Cairo. In un suo scritto uscito nel 2017 dalla prigione in cui è stato rinchiuso per cinque anni (ha passato questi ultimi mesi in semilibertà, prima di essere di nuovo rinchiuso nel carcere di Tora in detenzione amministrativa lo scorso ottobre), Alaa Abdel Fattah traccia una cronologia di ciò che lui e la sua generazione di informatici hanno compiuto per incidere sui cambiamenti nella regione araba.
“Capimmo allora l’importanza della IT nel modellare il nuovo mondo, ma eravamo talmente coscienti di quanto eravamo esposti ai monopoli globali da adottare software gratuiti e open-source come una necessità per lo sviluppo sociale e per l’indipendenza […]. La localizzazione del software divenne la nostra priorità. Abbiamo lavorato sulla arabizzazione dei termini, tradotto gli interfaccia degli utenti, codificato le regole per i numeri arabi, la grammatica e la pronuncia. Abbiamo inventato i font, sviluppato i software e costruito i siti. […] abbiamo connesso blogger in tutto il mondo arabo, sostenuto artisti, scrittori, ricercatori e traduttori perché potessero condividere l’accesso alla loro produzione creativa e alle loro raccolte. […] è stato questo il nostro modo di entrare nei ranghi dei difensori dei diritti civili”
[Alaa Abdel Fattah, A profile of the activist outside his prison, in Mada Masr, 18 aprile 2017]
Possono sembrare dettagli di vita e attivismo relativi a un piccolo settore di giovani informatici arabi, quelli elencati da Alaa Abdel Fattah. Sono, invece, strumenti chiave per comprendere quali sono stati i pilastri sui quali si è costruita (quanto inconsapevolmente?) la protesta. Ci sono voluti almeno dieci anni di cultura e controcultura, a partire dai primi anni del Terzo Millennio, per preparare proteste, rivolte, rivoluzioni, diverse nei tempi e nei modi a seconda dei casi nazionali. Non solo manifestazioni di giovani e giovanissimi studenti, ma scioperi industriali ed embrioni di nuove coalizioni politiche. A partire dal 2005 è nata nella regione una cultura del dissenso meno solitaria e individualista, la creazione di comunità politiche e culturali del dissenso nei diversi contesti nazionali, che coinvolgevano gruppi sociali e generazioni che si erano abbeverate a linguaggi, piattaforme digitali, miti, richieste, insoddisfazioni molto simili tra di loro. Un dissenso non solo nascosto, ma anche poco interessante per regimi che si reggevano (e si reggono) a seconda dei Paesi interessati sulla gerontocrazia, sui clientes politici o economici, sul monopolio della forza militare, sul neoliberalismo e sull’aderenza alle richieste del più grande donatore, il Fondo Monetario Internazionale.
La rivoluzione non è un evento. È un processo. E la seconda fase delle rivoluzioni, quella in atto nel 2019, dimostra che le costanti ci sono, e che le controrivoluzioni e i consolidamenti dei sistemi di governo nella regione araba non hanno portato stabilità.
L’assenza dei leader nelle piazze introduce la vexata quaestio sulla presunta incapacità della protesta di diventare così organizzata da poter sfidare realmente il sistema che contesta a tal punto da volersene liberare. Lo slogan che sale dalle proteste – è opportuno ricordarlo – è sempre il medesimo, ormai da nove anni: as-shab yurid isqat an-nizam, il popolo vuole che cada il regime. Il popolo che detiene, e non solo attraverso le elezioni, gli strumenti di legittimazione del potere pretende che il regime dia conto al popolo e che al popolo restituisca il suo potere di legittimazione. Ma come fare a riprendere in mano il potere di legittimazione, da parte della protesta, senza una o più organizzazioni politiche? Senza dirigenze? La domanda è più che rilevante, vista anche la sconfitta subita da chi ha fatto la rivoluzione al Cairo, ed è stato investito dalla sanguinosa repressione che il presidente Abdel Fattah al Sisi guida dal 2013.
La rivoluzione non è un evento. È un processo. E la seconda fase delle rivoluzioni, quella in atto nel 2019, dimostra che le costanti ci sono, e che le controrivoluzioni e i consolidamenti dei sistemi di governo nella regione araba non hanno portato stabilità. Nei quasi dieci anni di proteste, nei quasi quindici anni di movimenti carsici, meno plateali ma sicuramente più importanti per la costruzione del dissenso e della protesta, l’unico dato certo è che non è più possibile pensare che i regimi colpiti dalle proteste abbiano più un lungo respiro, anche quando a sostenerli sono investimenti e finanziamenti molto consistenti. Il loro corto respiro non dipende solo dal fatto che l’età media dei governanti sia alta, che la gerontocrazia sia una delle costanti regionali. Chi protesta li definisce quasi sempre “ladri”, contesta ai governanti l’aver defraudato il proprio Paese delle ricchezze, spesso cospicue, di cui dispone. La necessità di un cambiamento radicale è negli stessi conti dello Stato.
Da una parte una massa politica. Dall’altra un sistema che non può rigenerarsi. È da questo che bisogna partire, per un’analisi che va nel profondo solo se cambia gli stessi paradigmi dell’interpretazione dei movimenti, osserva i segni della strada, comprende la geografia delle città in rivolta. Perché se le rivoluzioni hanno quasi un decennio, la loro interpretazione – da parte di un Occidente distratto – è ancora ai primi vagiti.