Tutti a terra. Convivere nella differenza sarà ancora possibile?

Un uomo giace a terra nel centro di una grande città europea, occupa un piccolo spazio, inerme, sembra totalmente avulso dall’ambiente che lo circonda, quasi volesse scomparire. Non offre il suo volto, tende solo un braccio, in mano ha un bicchiere vuoto, anch’esso poggiato a terra. L’uomo sembra ferito, agonizzante, un’agonia lunga, chissà da quanto tempo è lì.
Dall’altra parte c’è un altro uomo, a zonzo per la città, incuriosito da quest’uomo a terra, si china, prova a osservare, teme una sua reazione, esita, tiene la distanza, resta incredulo, scatta una foto.
Scene di questo genere si verificano ormai da anni in tutte le nostre grandi città occidentali. Rivelano la realtà drammatica di una persona, ma dicono anche qualcosa di noi che ancora in piedi le osserviamo passandovi accanto indifferenti e infastiditi da questo modo di occupare lo spazio pubblico, o in fretta depositiamo qualche spicciolo nel bicchiere.
L’uomo a terra non si fa vedere e non guarda, non offre il suo volto, rimane nascosto, rimarca un’assenza, una lontananza. L’ineluttabilità di una condizione che diventa drammaticamente aliena. Una condizione che svela come la fatica di vivere può annichilire l’esistenza di una persona.
Ricorda la scena di una battaglia. Un uomo a terra, gravemente ferito. Altri che continuando a combattere non si fermano, non possono. Fermarsi e prestare aiuto è pericoloso. Ci vuole fegato per farlo, forse per un amico, per uno di famiglia, per qualcuno che valga la pena, e anche in questo caso la paura fa esitare. Si corre il rischio di diventare bersaglio. I più continuano la traiettoria della propria battaglia/esistenza e non sembra possibile fermarsi.
Tempi duri questi. Nonostante una ricchezza e un tenore di vita mai visti, sembra che tutto favorisca questa continua decrescita di sostenibilità umana. La propria traiettoria prima di tutto: l’individualismo prevale, unica cifra culturale rimasta, disegnando il ritmo di un cieco desiderio diventato pulsione, diventato paura e indifferenza nei confronti dell’Altro.
Lo conferma anche il World Economic Forum nel suo Global Risk Report 2019, che inserisce la questione della “sostenibilità umana” tra i principali rischi a cui siamo più esposti, e i sintomi di questa fatica di vivere sono evidenziati dal peggioramento di tutti gli indici che misurano depressione e disordini dell’ansia.
La solitudine è diventata la misura della struttura sociale, fondata su un individualismo irrefrenabile che riduce il grado di empatia e la capacità di mettersi nei panni dell’altro. Alcuni dati indicano una tendenza a ridurre l’attitudine ai rapporti umani. Nei paesi europei, la percentuale di famiglie costituite da una sola persona è raddoppiata negli ultimi cinquant’anni, con alcuni picchi nelle grandi città: a Milano siamo al 40%, a Parigi al 50%, a Stoccolma addirittura al 60%. Il centro di Manhattan è già al 90%.
Si vive una maggiore difficoltà nell’andare oltre i propri confini. Sembra essersi ridotto lo spazio dello scambio, delle alleanze, del sentirsi protagonista del cambiamento insieme ad altri, mantenendo le relazioni solo tra simili e all’insegna della convergenza di interessi condivisi.
Questo ritorno a uno spazio ristretto contraddice le aspettative di una società aperta che trent’anni fa abbattendo i muri apriva alla libertà di movimento. Una società che sarebbe dovuta diventare aperta, pluralista, multi e interculturale, dove i diritti di cittadinanza sembrava potessero essere affermati, allargati e riconosciuti.
Anche per Genova lo spazio si è ristretto in questi anni; chiudendo con la sua storia industriale, si è progressivamente ripiegata su sé stessa. Una città sempre più vecchia che ha perso oltre duecentomila abitanti in trent’anni, è diventata prigioniera di un declino che ha aperto le porte alla paura e all’indifferenza e le ha chiuse al nuovo, al possibile, al futuro.
Negli ultimi otto anni ho osservato questa città da un punto di vista particolare, l’ex Ospedale psichiatrico di Quarto. Questo luogo mi ha coinvolto quando Asl3 e Regione Liguria avevano avviato una gara al massimo ribasso per quattro lotti di venti pazienti da sistemare altrove, per sgombrare il complesso architettonico e procedere con l’ennesima speculazione edilizia.
Indignati, nel giugno del 2012 abbiamo deciso di difendere quelle persone, quel luogo, per riprendere un discorso di partecipazione, sulla salute, sulla salute mentale, sull’amministrazione della città. Non c’erano solo ottanta pazienti da difendere ma una storia, di sofferenza ma anche di liberazione e impegno civile, una rivoluzione, forse l’unica in Italia davvero tentata e riuscita. Un luogo che con i suoi 120mila metri quadrati rimaneva, come altri settanta ex Ospedali Psichiatrici in Italia, spazio vuoto e inutilizzato. Dopo aver rinchiuso la follia e con essa le storie di tanti uomini e donne, non si è pensato alla loro rigenerazione, abbandonandoli, facendoli diventare vuoti urbani, nonostante le grandi potenzialità e il pregio architettonico che spesso presentano, come nel caso di quello di Genova Quarto.
Simultaneamente, favoriti anche da un cambio alla guida del Comune, con una Giunta a trazione civica, le diverse Istituzioni fecero un passo indietro, aprendo un tavolo di confronto, che trovò una sintesi in un Accordo di Programma firmato da Comune di Genova, Regione Liguria, Arte e Asl3, nel novembre 2013. L’accordo sancì la continuazione di una funzione pubblica all’insegna dell’integrazione, contemplando le storiche funzioni sanitarie residenziali, la creazione della Casa della Salute per il Levante e potenziando le funzioni culturali e sociali.
In questi anni abbiamo assistito ad altri cambi di amministrazione: la Giunta a trazione civica ha ceduto il passo a quella leghista e cinque anni fa anche la Regione è passata dal centro-sinistra al centro-destra. Nonostante questi cambi non ci siamo scoraggiati e continuando a insistere nel rapporto con le Istituzioni, facendo riferimento all’Accordo, cercando un diverso modo di fare Salute Mentale e organizzando eventi, abbiamo tenuto il punto sul progetto. Negli ultimi tre anni un miglior rapporto con la Direzione dell’Azienda Sanitaria Locale ha permesso di avviare tre progetti: i cantieri per la nuova Casa della Salute del Levante cittadino, il Patto per la Salute Mentale – La città che cura, e l’apertura dello Spazio 21, le ex cucine: uno spazio di oltre seicento metri quadri aperto alle attività socio-culturali.
La Casa della Salute sarà inaugurata nella prossima primavera e lo Spazio 21 negli ultimi due anni è stato al centro di diverse attività, consentendo a migliaia di cittadini genovesi di trovare un motivo per entrare in questo luogo, a molti completamente sconosciuto.
Il Patto è nato dalla necessità di riattivare un dialogo sulla e nella salute mentale, confinato da anni ai soli addetti ai lavori, aprendolo ai pazienti, ai familiari, ai cittadini e alla città, nella consapevolezza di dover costruire un nuovo punto d’incrocio per migliorare i percorsi di cura. L’11 maggio 2018, a quarant’anni di distanza dalla legge 180, il Patto veniva presentato, approvato e formalmente firmato da circa settanta organizzazioni, riattivando l’Osservatorio Regionale per la Salute Mentale, la Consulta per la Salute Mentale nel territorio di Asl3 e i Circoli territoriali nei diversi Distretti. Il Patto diventava inoltre oggetto di un lungo dibattito all’interno del Consiglio di Regione Liguria e del Consiglio Comunale di Genova, dove veniva votato all’unanimità da tutte le forze politiche. Questo ha consentito di riprendere una discussione pubblica sulla medicina di territorio e sull’integrazione socio-sanitaria: politiche abbandonate a vantaggio di una sanità medico-centrica. Un modo per rimettere la questione sociale al centro delle politiche di protezione e di sicurezza, affinché anche la sanità diventi strumento di contrasto alle diseguaglianze.
Ma torniamo all’uomo a terra e a Genova. La storia dell’ex Ospedale psichiatrico di Quarto conferma il declino di una città sfinita, tentata come tutto il Paese da visioni autoritarie, mentre l’esperienza del Coordinamento testimonia in piccolo una possibile alternativa.
Oggi non siamo in un’epoca di cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca. Il mondo è il paese nel quale siamo stati gettati e anche Genova dovrà fare i conti con i suoi nuovi confini. Una storia è davvero finita ma il nuovo non è riuscito a emergere. Le categorie del Novecento si sono spente, come il manicomio hanno completato la loro funzione, mentre le nuove, ad esempio un nuovo modo di fare salute mentale, non sono riuscite a svilupparsi. Con le categorie del Novecento l’uomo a terra, etichettato come “alienato”, in poco tempo sarebbe stato costretto, suo malgrado, a trovare “accoglienza” dentro al manicomio. Oggi invece vive la sua solitudine in completo abbandono, slegato dal corpo sociale.
Il nuovo sistema di protezione non è riuscito a diventare infrastruttura organizzata e diffusa. Appena nato è stato preso a picconate, aggredito dall’ideologia diventata nel frattempo egemone, quella del mercato, del profitto e del consumo. Questa reazione ha impedito la transizione da un sistema che salvaguardava l’ordine pubblico a uno che ambiva alla promozione sociale della persona. In questo delicato passaggio siamo rimasti nell’attesa di completare la costruzione di una nuova mediazione nel rapporto tra individuo e società.
Anche Genova è rimasta sospesa assistendo al declino e all’abbandono delle persone, degli spazi, della memoria, senza trovare la capacità di reagire. Una città annichilita da una cultura politica che ha lasciato il campo a fazioni da stadio, incapace di avvicinarsi al vero. Da una parte un buonismo che indica propositi celesti, possibili forse per spazi ristretti, dall’altra un cattivismo che disprezza ogni forma di alterità, fomentando paure da trasformare in odio, nostalgico di un ordine di novecentesca memoria. Entrambe, vivendo in spazi immaginari, condividono l’assenza di confronto con un piano di realtà e soprattutto rimangono distanti da un piano di responsabilità, che le impegni seriamente in processi di trasformazione. Fazioni che perseguono autoreferenzialità e consenso, colludendo con un sistema dei media asservito anch’esso al proprio narcisismo.
Stretti tra non luoghi e un presente che non vede futuro, individui sempre più insoddisfatti, siamo sempre meno capaci di avvicinarci agli altri, di sentirci parte di una comunità, di una città. Un io che nella relazione con il tu rinuncia alla mediazione del noi, giudicata ormai troppo impegnativa. L’alterità in questo modo assume la forma del nemico, dell’intruso, del corpo estraneo. Nell’interpretazione buonista dell’elemento da tollerare, in quella cattivista della minaccia da espellere.
Rinunciare al valore della costruzione di un noi vuol dire rinunciare all’esperienza dell’estraniamento. È nella dimensione del noi che possiamo diventare più leggeri sollevando lo sguardo per poter osservare noi stessi da una prospettiva nuova. È nella relazione con gli altri che possiamo avere una vista di noi stessi estranea, nuova, insolita, che ci dà modo di sospendere le nostre convinzioni, le nostre certezze, dandoci una chiave di accesso al cambiamento. Una possibilità che diventa salvezza, rigenerazione, futuro.
Ma l’uomo è ancora a terra e tanti altri continuano a passargli accanto.
Che fare? Far nascere una nuova istanza mediatrice. Far sentire una città, una comunità che si stringe intorno a lui per comprendere il suo dolore, accogliendo la necessità di dare parola e azione al paradosso che il suo sdraiarsi per strada comporta. Inventare insieme a lui un linguaggio che inizi a descrivere la sua esperienza. Un linguaggio capace di imprimere alle parole e ai discorsi una dinamica per ripartire, recuperare un nuovo e possibile piano di senso. Per fare tutto ciò si dovrà fare a meno di riferirsi alla regolarità o alla normalità, che possono diventare muri invalicabili. Dovremo essere aperti ai paradossi, per abitare spazi nuovi dove poter giocare, sospendendo parzialmente le regole della realtà.
Siamo lontani da questa nascita, prigionieri dell’individualismo, di un’ideologia che fa a meno del terzo, prigionieri dell’illusione di essere abbastanza forti da sostenere la battaglia da soli. Senza troppa consapevolezza ci siamo lasciati conquistare da questo modello predatorio: io mangio te o tu mangi me. Siamo lontani perchè non abbiamo lasciato crescere nuove forme di terzietà, nuove forme collettive che promuovano la capacità di proteggerci.
Avremo il coraggio di rendere viva questa funzione attraverso il rinnovamento delle nostre Istituzioni? Senza le Istituzioni sappiamo che i diritti non esistono, non sono fruibili, rimangono enunciati vuoti e l’aiuto per l’altro diventa solo esperienza individuale.
L’esperienza maturata in questi anni mi ha persuaso che non è più sufficiente chiedere solo alla politica, c’è bisogno di educare e far maturare una nuova responsabilità civile per rinnovare il lavoro nelle Istituzioni. Nel campo sociale lo abbiamo già osservato. Negli anni si è tentato qualcosa del genere attraverso lo sviluppo del Terzo Settore, ma questa azione si è impantanata negli schemi che hanno imprigionato le sue organizzazioni nella logica della concorrenza e nella cultura del mercato, compromettendo la loro funzione sussidiaria. C’è bisogno di osare.
Come suggerisce Michel Serres: “…di fronte a questi cambiamenti, conviene escogitare novità inimmaginabili, fuori dai quadri desueti che formattano i nostri comportamenti, i nostri media, i nostri progetti annegati nella società dello spettacolo. Troppo spesso vediamo le nostre Istituzioni brillare di una luce simile a quella delle costellazioni che gli astronomi ci dicono morte da molto tempo”. Per questo sarà necessario promuovere nuove forme di partecipazione: l’esperienza del Coordinamento per Quarto è solo un esempio possibile. Questo può avvenire mettendo insieme specifiche competenze, spinta ideale e partecipazione civica rispettando i diversi ruoli e il pluralismo delle parti. Allo stesso tempo è necessario coltivare una nuova utopia, dice sempre Serres. L’utopia dell’accoglienza, della pace, del doversi chinare di fronte a un altro uomo per sentire un senso di appartenenza a una storia comune. Da questo si dovrà ripartire per rigenerarsi e non assistere impotenti al declino. Altrimenti saremo destinati a cadere, soli, e rimanere a terra, privati dell’umanità necessaria per poterci rialzare.