Turano: un romanzo (storico) sui moti di Reggio del 1970

La rivolta di Reggio del 1970 è un bel rompicapo storiografico, un oggetto complesso per chi studia la storia di quegli anni. Tra gli altri, un filone saggistico vede la rivolta come episodio della strategia della tensione e ne fa il Big bang della mafia calabrese: la mobilitazione contro l’attribuzione a Catanzaro del capoluogo di regione, che paralizzò la città per mesi, offrì ai gruppi criminali locali l’occasione di sedere al tavolo da gioco dell’eversione nera e dei servizi e da lì di captare la vena delle compensazioni economiche offerte per sedare la piazza e soprattutto di incistarsi nella politica e nella classe dirigente. Questo racconto delle origini ha una rilevante matrice giudiziaria e conosce varianti non sempre immuni dal fascino di lupare e grembiulini, barbe finte e trame nere: deve piacere il genere. L’aver messo a fuoco questa genealogia criminale con un certo senso della misura è un merito dell’ultimo libro di Gianfrancesco Turano (Salutiamo, amico. Il romanzo sull’estate dei boiachimolla, Giunti) che di questi argomenti offre un ordinato compendio in appendice ma nel romanzo fa qualche passo oltre. Se si tengono distinti i piani – non è un saggio storiografico – si coglie meglio che non è la ricostruzione dei retroscena della rivolta, praticabile fino a un certo punto, a farne un romanzo storico.
Salutiamo, amico è costruito su uno scambio di lettere fra due tredicenni reggini nell’estate del 1970. Luciano è al mare, i suoi hanno preso casa sulla costa jonica – mezz’oretta di macchina, ma il 14 luglio scoppia la rivolta e la città sarà più lontana. Nunzio invece dovrebbe restare a casa a studiare per gli esami di riparazione: diventerà un dimostrante, subendo più direttamente il fascino del coté malavitoso e fascista della rivolta, e darà corpo di scrittura a una porzione del narrato popolare di quei mesi. Luciano ha pure i suoi esami di fronte: un innamoramento estivo, le continue prove cui si assoggetta per mostrarsi uomo di fronte a lei e agli altri ragazzi in spiaggia e infine il venire a galla dei segreti che legano la sua alla famiglia di Nunzio e porteranno i due ragazzi a guardare in faccia quel che si muove dietro la rivolta e il futuro che è stato preparato per loro.
Se di romanzo storico si tratta, bisogna intendersi. Anche nel precedente Contrada Armacà (2014) Turano partiva dalla cronaca recente – il collasso del comune reggino e il suicidio della dirigente del settore finanze – tirando fili che portavano alle guerre di mafia dei Settanta e Ottanta e da lì ad alcuni modi di vivere di una borghesia che è d’uso chiamare “grigia” quando ci si contenta del bianco e nero; anche in quel caso c’è una cronaca in appendice e una verità narrativa che la trascende, affiorando soprattutto attraverso caratterizzazioni credibili dei personaggi e ricostruzioni plausibili di dinamiche relazionali. Laddove le cose sfuggono a quel che la cronaca può accertare, al magistero civile degli inquirenti, all’analisi storiografica, la finzione letteraria si fa avanti: per illuminare l’intreccio di poteri torbidi all’ombra della lotta per il capoluogo, c’era bisogno di montare una macchina narrativa così. L’assunzione della rivolta come parabola eziologica del parassitismo mafioso in Calabria è l’impalcatura di un gioco più sottile.
“Da lì a cinquant’anni – considera all’inizio Stranges, figlio di pastore reso orfano e poi ingegnere dagli stessi che si avvarranno della sua lucidità per organizzare la sopraffazione con metodo – nessuno avrebbe creduto che in una città italiana nel 1970 a migliaia erano scesi in piazza per avere un cerchietto più grande sulla carta geografica”. Il fatto è che neanche da Reggio la rivolta è facile capirla del tutto. Le memorie dei testimoni non si adagiano mai senza scarti sulle ricostruzioni formalizzate, storiche o meno; ma qui, a me pare, è come se mancasse sempre un pezzo. Vivendo a Reggio chiedo talvolta a chi c’era di spiegarmi la rivolta e di solito ne esco più confuso: problema mio, pensavo prima. Quel che ancora dura è il peso di una memoria pubblica depressiva. Lo status risarcitorio di città metropolitana, ottenuto a dispetto di ogni evidenza geografica negli anni fulgenti di Scopelliti ma salutato da consenso trasversale, è stato sintomo più che cura: ha mostrato come i fantasmi del ’70 tarlano ancora l’autorappresentazione della città e permeano le ossessioni del dibattito locale. Turano, che come tanti è andato via al tempo dell’università, avrà fatto i conti con il privilegio non confortevole di poter guardare la città da lontano e da vicino, da dentro e da fuori, e qui assume un rischio ma vede anche un vuoto di cui occuparsi e trova uno strumento abbastanza capiente per far vedere in modo plausibile l’intero.
Questo pezzo di Calabria senza agavi e fichidindia – che sicuramente ci sono ma la loro evocazione è lasciata all’immaginazione del lettore – è disseminato di segni di una modernità che arriva dal Nord “come i dischi a 45 giri, le espressioni ‘in che senso?’ e ‘cioè’, l’avverbio ‘praticamente’, la provola di Cremona, la laurea in ingegneria di Stranges” e i salvavita e le case nuove senza corridoio. Ma la modernità che arriva non fa mai tabula rasa: chiama le cose che c’erano prima a rigenerarsi o adattarsi, coopta quel che di vecchio è capace di restare con ostinazione mimetica, chiama alla luce quel che di nuovo e di autoctono è capace di spuntare e di unirsi alla festa. Lo sguardo dell’autore sembra sensibile a oggetti con questa potenzialità simbolica bifronte: il tondino di ferro preso dal cantiere che diventa gancio per raccogliere la frutta nei giardini che presto saranno seppelliti dal cemento, i conzi per pescare fatti con i secchi in plastica di Moplèn. Questi segni materiali della trasformazione cercano occasioni per affiorare ma qualcosa bisogna dire anche sui segni linguistici. La prosa epistolare dei due ragazzi, soprattutto quella accidentata di Nunzio, fa pensare a un narratore che non si fa scrupolo di lasciare a vista i tiranti della macchina. Uno può trovare l’artificio troppo scoperto, può pensare a Catarella o ai ragazzini del maestro D’Orta ma quando la macchina va a regime si intuisce questo: nella divisione del lavoro fra i personaggi, davanti agli occhi dei quali il gioco impone che debbano passare in qualche modo tutti gli snodi della vicenda, Nunzio ha probabilmente il compito di veicolare un’aneddotica della rivolta che chi ha parlato con i testimoni riconosce e un tipo di coinvolgimento giovanile che chi ha presenti i risvolti ludici e avventurosi di questi fenomeni può immaginare. Quanto alla lingua, entrambi i ragazzi offrono per lettera modulazioni diverse di un parlato che non è semplicemente di quel luogo ma anche di quel tempo. Per quanto possiamo aver letto De Mauro l’idea che i dialetti stiano alle lingue come la campagna alla città, l’antico al nuovo è difficile da scalzare; non è scontato riuscire a vedere che in mezzo ci sono infinite forme idiolettiche ibride e moderne che colludono con il nuovo italiano di massa e che per buona parte sono cronologicamente situate, durano poco ed è raro leggere su carta. Nunzio e Luciano scrivono una lingua parlata da chi, non necessariamente dialettofono in senso pieno, sceglie modi dialettali per forza espressiva e come marcatori di cameratismo – giovanile o meno; ed è un codice che prende la forma che conosciamo negli anni del benessere. La sua trascrizione è ardua e non sempre può riuscire fluida e filologicamente scrupolosa (non esageriamo) ma è il codice in cui è plausibile che fra quei ragazzi si parli di tamerindi e camillini, gomme del ponte, mangiadischi e apprendimenti dell’adolescenza.
L’artificio dello scambio epistolare consente di mettere in salvo queste tracce orali, inventate ma non dal niente. Un’attenzione acuta così orientata si fa strada nello spazio che separa la memoria dei partecipanti da ogni possibile rilettura a freddo: oltrepassando il recinto angusto dell’eziologia criminale è possibile provare a raccontare la rivolta come l’avrebbe potuta raccontare, misteri a parte, un ragazzino che ha giocato alla guerra coi grandi sulle barricate se solo avesse potuto scriverne a parole sue.
Nell’appendice può anche capitare qualche cedimento: di fronte alle interpretazioni del narrato sulle vetrine rotte ma non saccheggiate dai dimostranti, per esempio, affiora per un attimo lo schema che contrappone ai poteri nascosti la rivolta popolare, spontanea quindi buona. Ma la struttura narrativa filtra meglio e alla fine il romanzo conserva la sua presa visiva su un oggetto complesso e resiste anche alla tentazione consolatoria di idealizzare l’innocenza rurale e la piccola città gentile di prima: non è il racconto di un mondo che finisce ma di qualcosa di nuovo che prende vita, con tutta la violenza che sappiamo ma senza che la rappresentazione della violenza ne impedisca un’esplorazione più intelligente. Senza che ne resti soffocato qualcosa che bisognava pure dire, un tassello del romanzo di un’Italia baciata dall’abbondanza in cui le vie dell’ascesa sociale sono infinite, non confrontabili i costi, e che solo provincia per provincia si può ricostruire. “Gente buona o gentuzza, il popolo ha lo sviluppo mentale di un tredicenne come Luciano e Nunzio”, ragiona ancora Stranges all’inizio. Impossibile non ripensarci di fronte all’ultima lettera del febbraio 1971, quando tutto è finito e i due tredicenni tirano le somme e si decidono, come se a quel tempo fosse ancora tutto possibile.