Tunisia, razzismo di stato e politica della frontiera

Sfide continue per la libertà di espressione
Nonostante la rivoluzione abbia cercato di riconsegnare ai tunisini e alle tunisine una rinnovata libertà di espressione, il dissenso politico è oggetto di censura sotto il regime politico sempre più autoritario di Kais Saied: ne sono esempio i numerosi processi nei confronti di singoli cittadini, giornalisti, attivisti, avvocati e personaggi pubblici con capi di accusa quali attentato alla sicurezza pubblica, diffamazione e diffusione di informazioni false per aver espresso pubblicamente la propria opinione non allineata col potere politico. Tali accuse sono basate sull’articolo 24 del Decreto-legge n. 2022-54 del 13 settembre 2022, che permette di limitare il diritto alla libertà di espressione sotto il pretesto di contrastare i crimini informatici e la diffusione di false informazioni.
Questo decreto – varato subito dopo lo scioglimento del parlamento avvenuto il 25 luglio 2021 – è in conflitto con gli articoli della Costituzione che sanciscono la libertà di espressione e con il Patto Internazionale relativo ai Diritti Civili e Politici, che la Tunisia ha ratificato. La sua applicazione sta progressivamente diventando uno strumento per detenere e minacciare coloro che esprimono voci contrarie al governo e molteplici sono le organizzazioni che la considerano una minaccia palese per i principi fondamentali della libertà di espressione e di stampa, tra cui il sindacato dei giornalisti, la Lega Tunisina per i Diritti dell’Uomo, il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali e molte altre componenti della società civile tunisina.
Parlando di rischi e minacce per le libertà è il caso di ricordare il discorso del 21 febbraio pronunciato dal presidente della Repubblica Kais Saied durante il Consiglio di Sicurezza Nazionale, che ha innescato una serie di pratiche che violano i diritti umani, specialmente nei confronti di richiedenti asilo, rifugiati e persone in movimento, che si sono ritrovate improvvisamente nell’occhio del ciclone.
Un discorso cruciale
“Il Presidente della Repubblica ha confermato che questa situazione non è normale, sottolineando che esiste un piano criminale che è stato preparato fin dall’inizio di questo secolo per modificare la composizione demografica della Tunisia. Ha anche indicato che ci sono entità che hanno ricevuto considerevoli somme di denaro dopo il 2011 al fine di insediare migranti non regolari provenienti dall’Africa subsahariana in Tunisia. Queste ondate consecutive di migranti non regolari hanno un obiettivo non dichiarato, che è quello di rendere la Tunisia uno stato africano, escludendola dalle appartenenze sia arabe che islamiche”: così il comunicato ufficiale del presidente Saied riportato dai giornali. Diverse ONG e associazioni della società civile tunisina hanno denunciato queste affermazioni perché considerate razziste e incitanti all’odio razziale, ma forte è il silenzio delle organizzazioni internazionali.
In seguito a questa linea politica le partenze dei migranti dal paese hanno subito un rapido incremento: la paura e il clima di incertezza hanno infatti convinto molti a fuggire anzitempo. È il caso di Mdou, un ragazzo senegalese che ho conosciuto a Sfax. Sopravvissuto a un naufragio avvenuto la sera prima, ha raccontato di come la sua vita sia cambiata a seguito del discorso del presidente. “Il giorno in cui il presidente ha pronunciato il discorso era il 21 febbraio e il 23 febbraio ho perso il lavoro. Il mio datore di lavoro mi ha licenziato in tronco consegnandomi l’ultima paga del mese. Dopo qualche giorno il proprietario di casa mi ha obbligato a lasciare l’appartamento entro 24 ore, giustificandosi con il fatto che il governo perseguiva chi affittava e dava lavoro a persone irregolari”.
A seguito di questo discorso e delle sue conseguenze drammatiche, la società civile tunisina si è attivata per aiutare chi era in condizioni di vulnerabilità e irregolarità lanciando raccolte fondi per acquisto di cibo, vestiti, farmaci, tende e attrezzature. Molti migranti che non avevano più un tetto dove risiedere in modo legale e sicuro si sono uniti ad un accampamento autorganizzato davanti all’ufficio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni fondato nel 2022 da richiedenti asilo e rifugiati che non avevano ricevuto risposte alle loro richieste di protezione internazionale dall’UNHCR. Un’equipe di medici volontari ha fornito assistenza alle persone che non potevano uscire dalle loro case per paura di essere aggredite, oppure per chi si trovava a dover vivere in strada. Inoltre diverse associazioni a difesa dei diritti delle donne hanno messo a disposizione le loro strutture per i casi più vulnerabili, con il rischio di incorrere in sanzioni amministrative e pecuniarie. Da febbraio in poi è aumentato infatti il rischio di ripercussioni amministrative e legali per le persone che forniscono supporto a persone irregolari, scoraggiando la solidarietà con i migranti.
Zied, militante tunisino membro del Fronte Antifascista – movimento che ha organizzato la manifestazione del 25 febbraio a sostegno delle persone perseguitate e cacciate dalle loro case subito dopo il discorso del presidente – aggiunge: “È una vergogna per la storia dello stato tunisino, perché la Tunisia è parte dell’Africa, è un paese africano, ha ereditato una parte della cultura africana e numerosi sono gli scambi culturali ed economici tra le due parti. Il discorso del presidente sta creando una spaccatura sempre più profonda nel tessuto sociale e sta mettendo a rischio la vita di persone sub-sahariane in situazione di irregolarità. Chiediamo l’immediato ritiro di questo comunicato accompagnato da una serie di scuse nei confronti di chi ha subito le gravi conseguenze di questo discorso!”.
Un’identità conflittuale
Difficile spiegarsi come un tale discorso xenofobo abbia trovato consenso all’interno di una parte della popolazione tunisina, arrivando a suscitare diffidenza e paura nei confronti delle persone appartenenti alle diverse comunità subsahariane, etichettate come “Africani”, “Africani Sub Sahariani” o con l’acronimo arabo dell’ultimo termine (Ajas, أجص) utilizzato dal presidente. Il termine ha assunto una connotazione peggiorativa, influenzando le interazioni tra persone tunisine e persone provenienti da zone subsahariane.
Nonostante la Tunisia, chiamata Ifriqiya al tempo dei Romani, faccia parte del continente africano, l’utilizzo ossessivo del termine “Africano/i” per identificare le persone subsahariane è diventata una pratica molto diffusa rivelando la presenza di un razzismo popolare che fa da sottofondo al discorso razzista che viene dal governo.
La lotta contro le discriminazioni razziali in Tunisia ha visto nel 2018 l’approvazione della legge organica n° 50 volta all’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Tuttavia, persiste una notevole discrepanza tra le leggi antidiscriminazione e la loro effettiva attuazione e il loro rispetto. Come sottolineato da Saadiya Mosbah – militante tunisina e fondatrice di “Mnemty”, un’associazione per la difesa dei diritti delle minoranze e per combattere le varie forme di discriminazione razziale – “non si è mai cambiata una società con i decreti. Il razzismo rimane un conflitto sociale costante”. Parlando con Saadiya Mosbah, emergono la mancanza di senso di appartenenza della Tunisia al continente e come la componente nera tunisina – non solo i migranti – non sia stata sufficientemente inclusa nella costruzione della Tunisia post indipendenza.
Irregolarità forzata
La Tunisia, come molti paesi dell’area, ha una legislazione in materia di permessi al lavoro molto restrittiva, che predilige l’impiego di persone tunisine. Non aderisce alla Convenzione n. 143 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro del 1975, riguardante i lavoratori migranti e la prevenzione dello sfruttamento lavorativo, né alla Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori e lavoratrici migranti e dei membri delle loro famiglie del 1990. Vista l’impossibilità di ottenere un permesso di soggiorno per lavoro, molte persone sono obbligate ad accettare le condizioni dell’irregolarità per poter rimanere e continuare a lavorare. In questo campo la Tunisia agisce all’interno dei propri confini prendendo a modello le leggi europee sull’immigrazione, accettando di fatto il ruolo di frontiera esternalizzata della “fortezza Europa”.
Lontani dagli occhi, ancorati nei nostri cuori
Dall’inizio di luglio si assiste a un’escalation di tensione tra tunisini e subsahariani in diversi quartieri della città di Sfax, punto di partenza per la rotta verso l’Europa per molti migranti. Il 25 giugno si è svolta una manifestazione anti-migranti che ne chiedeva l’espulsione da Sfax. La tensione non era del tutto nuova fra le due comunità, ma gli eventi di inizio luglio sono velocemente sfuggiti di mano causando la morte di un ragazzo tunisino e scatenando l’ira della componente populista anti-migranti. In diverse occasioni il partito nazionalista tunisino ha colto la situazione di instabilità politica economica e sociale per diffondere il terrore attraverso i diversi canali di informazione. Tali violenze sono state avallate dall’intervento delle autorità che hanno provveduto ad “allontanare” i migranti dalle varie città e principalmente da Sfax. Effettuando controlli dei documenti in maniera arbitraria e organizzando viaggi verso il confine con la Libia e con l’Algeria, il governo ha avviato un processo di vera e propria deportazione dei migranti. “La Tunisia è cambiata da febbraio” afferma Fatima, una ragazza conosciuta a Djerba. Fatima, pur lavorando nel settore alberghiero da oltre un anno, è testimone delle gravi ripercussioni politiche e sociali innescate dall’inizio del 2023. Di origine ivoriana, e membra dell’associazione degli ivoriani in Tunisia, era andata a Sfax insieme a suo marito e ad altri suoi connazionali. Il 6 di luglio è stata fermata per un controllo documenti e subito dopo si è ritrovata costretta a salire insieme al figlio di 3 anni a bordo di un bus con all’interno altre persone nere di varie nazionalità. Una volta a bordo ha cercato in tutti modi di spiegare agli agenti della polizia di non avere nulla a che vedere con le dinamiche che avevano segnato la città di Sfax qualche giorno prima, sottolineando il fatto che abitava a Djerba insieme alla sua famiglia e chiedeva solamente di poterci ritornare. “È ingiusto quello che hanno fatto, Dio perdoni chi è la causa di tutto ciò … Portare così tante persone nel deserto e lasciarle lì, questa non è giustizia. La Tunisia è un paese democratico e queste deportazioni sono illegali”, aggiunge il marito di Fatima. “Non capivano o non volevano capire, gli agenti continuavano a ripetere che erano ordini e che bisognava eseguire. Ci hanno portati fino a Zarzis, una volta scesi dall’autobus sono arrivate 5 camionette della polizia e ci hanno caricati dentro, direzione Ben Gardane, la zona più vicina alla frontiera libica. Faceva caldissimo non avevamo né acqua né cibo, c’erano tanti bambini e molte donne che avevano bisogno di assistenza medica”.
Dopo ore di attesa e di tentativi di convincere alcuni agenti, un gruppo di persone, tra cui Fatima e la sua famiglia, è riuscito a dimostrare la permanenza a Djerba nell’ultimo periodo, elemento che probabilmente ha permesso loro di scappare più facilmente dalle zone desertiche. “Ci hanno detto che potevamo scappare ma in cambio hanno preso tutti i nostri soldi, i cellulari e i documenti”. Una fuga a piedi che è durata diversi giorni, ripercorrendo tutto il tragitto, di oltre 200 km, da Ben Gardane fino a Djerba.
Sono molte, purtroppo, le persone che, come Fatima, hanno subito e subiscono le ingiustizie di un sistema che continua a fingersi sordo di fronte ai numerosi appelli e richiami al rispetto dei diritti umani. Ingiustizie come quelle vissute da Fati e sua figlia Marie, morte abbracciate nel deserto, vittime di queste pratiche violente prive di umanità. A tal proposito sono da ricordare tutte le vittime che hanno perso la vita lungo le frontiere con la Libia, l’Algeria o con quella più estesa, la frontiera mediterranea. Attraverso l’ultimo accordo bilaterale con l’UE, ovvero il Memorandum d’Intesa e di partenariato multidimensionale, sono stati stanziati oltre 150 milioni di euro in cambio di un maggiore impegno da parte della Tunisia nel controllo repressivo e securitario della gestione dei flussi migratori verso l’Europa, nonostante tali procedure mettano in atto pratiche discriminatorie nei confronti dei migranti subsahariani.
L’Europa rifiuta di vedere le pratiche adottate da parte delle autorità tunisine nei confronti delle 160 persone, di cui 10 bambini e 14 donne, deportati verso la frontiera con l’Algeria, nella remota zona di Wadi Al- Mghatta. Le vicende e le testimonianze di queste persone sono state seguite e ascoltate da parte di un gruppo di militanti solidali del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali con l’aiuto di volontari della mezzaluna rossa sezione di Rdayef. “Wadi Al-Mghatta è un posto senza ombra senza vegetazione e senza acqua, è un ambiente dove mancano tutti gli elementi biologici vitali…È impossibile trasformare quel luogo in un centro di accoglienza per migranti o rifugiati. Considerando tutti gli standard internazionali, i diritti umani e le norme umanitarie, non è possibile che le persone possano vivere in quel luogo.” Così un volontario della mezzaluna rossa della sezione di Rdayef denuncia le estreme condizioni di vita e l’incompatibilità della zona ad essere un centro di accoglienza, come afferma il governo tunisino.
Alcuni migranti hanno cercato di fuggire da Wadi Al-Mghata e hanno protestato contro le autorità tunisine nel tentativo di ottenere dell’acqua. Tuttavia, le forze dell’ordine tunisine hanno affrontato la situazione sparando gas lacrimogeni contro di loro.
Le zone dove le persone sono state deportate sono accessibili solo a militari e agli agenti della guardia nazionale, questo ha reso impossibile fornire aiuti e assistenza a chi non aveva permessi per recarsi sul territorio e alle persone che vi si trovavano. Inoltre non c’è stata una comunicazione chiara e ufficiale da parte delle autorità.
La Tunisia si trova attualmente a un bivio storico cruciale e affronta sfide complesse su diversi fronti: politico, economico, sociale e ambientale. Il periodo successivo alla rivoluzione ha visto fasi di instabilità e di deriva sotto i vari governi che si sono succeduti: una instabilità aggravata da questioni come il terrorismo e la corruzione. A livello economico, il paese vive una situazione precaria, con un debito crescente e una dipendenza economica che la rende vulnerabile agli interessi esterni. Socialmente, la società civile è stata un pilastro nell’istituzionalizzazione delle lotte sociali e si è mobilitata per esprimere dissenso in risposta alle numerose ingiustizie e violazioni dei diritti, specialmente nell’ultimo periodo. Tuttavia, sfide come la crisi alimentare e gli effetti devastanti del cambiamento climatico – particolarmente acuti nelle zone “profonde” della Tunisia – minano seriamente le condizioni di vita della popolazione.
Il quadro che emerge è quello di un paese in lotta incessante per la stabilità economica e politica. In questo scenario si incontrano le difficoltà dei cittadini provenienti da due anime africane, mentre coloro che sfruttano le paure e la diffidenza verso un “invasore nero” riescono a guadagnare consensi, spesso tra i più vulnerabili. Questo fenomeno non è nuovo e l’Europa ne è ben consapevole. La repressione e le restrizioni delle libertà fondamentali stanno nuovamente definendo la realtà quotidiana tunisina.