Tunisi, un pugno di mosche
“Servirebbe un’altra rivoluzione”.
“La vita di tutti i giorni era meglio prima della rivoluzione”.
“Abbiamo guadagnato maggior libertà di parola, a volte nemmeno quella”.
“Ci hanno rubato la Rivoluzione”.
“Prima nessuno attraversava col rosso, ora la libertà è poter fare ciò che si vuole”.
“Prima rubava una famiglia sola. Oggi sono tutti Ben-Ali, rubano tutti”.
“Tutti i fedelissimi stanno tornando al loro posto”.
“Non bevevo mai, ora sono al bar tutte le sere, il bar dove vado è un circolo di alcolizzati, dopo la rivoluzione siamo tutti depressi”.
Queste sono solo alcune delle frasi più comuni che si possono raccogliere a Tunisi parlando nei bar e nei caffè. I sentimenti più diffusi sembrano essere frustrazione, rassegnazione, delusione, sfiducia. Il potere è cambiato, dal 2014 è in vigore in Tunisia una nuova costituzione, la libertà di parola è stata sguinzagliata, le manifestazioni, piccole e grandi, si susseguono tutte le settimane.
Lungo il corso principale della capitale, di quando in quando, un gruppo, più o meno nutrito di persone, si riunisce davanti al teatro municipale, sulle scalinate e appena sotto. Tutti insieme brandiscono bandiere e scandiscono cori inneggianti al cambiamento. Dopo qualche mezz’ora di slogan si dirigono verso il Ministero dell’Interno, sull’Avenue Habib Bourguiba, intitolata al pater patriae della Tunisia moderna e indipendente. Il Ministero della Libertà, come lo chiama qualcuno guardandolo dalla finestra di un bar all’altro lato della strada, è uno scuro complesso grigio, tutto cemento, e dà l’impressione di essere una gabbia. L’edificio occupa un intero isolato a cui da anni, per questioni di sicurezza, non si può più accedere. Il Ministero è infatti circondato da una protezione di transenne, filo spinato e poliziotti.
Intorno e lungo l’Avenue, nel Centre Ville, si alzano invece i bianchi palazzi coloniali voluti dai francesi nella prima metà del novecento.
I manifestanti, arrivati davanti al peggior simbolo del potere, affrontano le transenne e i poliziotti in tenuta nera antisommossa. Qui le manifestazioni vanno avanti ancora diversi minuti prima che le voci si spengano e ognuno torni a casa.
Sette anni fa, quando il 14 gennaio 2011 Ben Alì, dopo 25 anni ininterrotti di potere, ha dovuto abbandonare il paese, la proteste erano iniziate nelle zone dimenticate della nazione.
Le regioni del sud, del centro, Ghafsa, la città mineraria famosa per le sue lotte contro il potere già nel 2008, si erano infiammate fino a raggiungere la periferia della capitale e, finalmente, il cuore della capitale, fino alla cacciata del dittatore.
Oggi come allora, sette anni dopo, sono ancora le regioni più svantaggiate del paese a riprendere la strada per chiedere lavoro e dignità, ma la protesta non ha raggiunto la città. Appena due mesi fa, sui giornali di tutta Europa e in Tunisia, sono comparsi i resoconti e le immagini di manifestazioni e scontri avvenuti in tutto il paese. Talvolta gli scontri con la polizia sono proseguiti o iniziati a notte fonda. Catene alimentari, negozi e commissariati sono stati presi d’assalto.
Quasi mille persone sono state tratte in arresto durante o prima delle manifestazioni. Sembra sia ancora in voga la pratica degli arresti preventivi, ossia il fermo di polizia nei giorni appena antecedenti alle manifestazioni o durante le stesse. Fermo che si protrae fino al termine del periodo caldo.
Di questo vento di protesta nella capitale non si è quasi avuta notizia, se non per qualche sparuto gruppetto di manifestanti che ha sfilato lungo l’Avenue.
Se non fosse stato per i giornali o per le telefonate preoccupate provenienti dall’Europa, nessuno in centro città si sarebbe accorto dell’agitazione che attraversava il paese.
Le proteste in città sono state per lo più organizzate e chiamate dal collettivo Fech-Nestennau. Questo gruppo informale di ragazzi, che si organizza principalmente attraverso Facebook, e attraverso di esso chiama alle manifestazioni, ha invitato i tunisini a scendere in piazza per chiedere l’immediata abrogazione e/o modificazione della legge di bilancio 2018, appena approvata dal Parlamento. La stessa prevede tagli ai servizi pubblici e un aumento delle tasse su un grande numero di generi di consumo. La Tunisia, dopo la rivoluzione, è difatti destinataria di un programma di prestiti da parte del Fondo monetario internazionale il quale chiede in cambio l’attuazione di precise politiche economiche, qui come in molti altri paesi del mondo.
Se sette anni fa la Tunisia era scesa in piazza per liberarsi dalla paura di un sistema poliziesco e repressivo nonché per chiedere migliori condizioni di vita, oggi, secondo il sentire comune, può dire di aver ottenuto solo una più ampia libertà, di parola e di costumi. Il costo della vita impenna ogni anno con tassi d’inflazione elevatissimi e, se una giornata di lavoro può valere tra i 20 e i 40 dinari, il prezzo di una stanza in città può superare i 300 dinari.
Sette anni fa, il panorama politico e istituzionale è stato travolto dalla protesta. Una dittatura monolitica ha lasciato spazio al pluralismo, alla libertà di parola e ad una repubblica semipresidenziale. Le istituzioni, pur nella continuità delle persone e dell’amministrazione, sono state profondamente rinnovate nella loro forma e nei loro meccanismi.
Lo stesso non può dirsi per il cambiamento sociale che molti, pur senza formalizzarlo in un pensiero cristallino o in un’ideologia, si aspettavano. Oggi, sette anni dopo la rivoluzione, è stato rivisto il metodo di selezione dei vertici della piramide. La classe dirigente non è più la famiglia del presidente ma viene scelta attraverso delle elezioni. La piramide è però rimasta in piedi e la vita quotidiana di coloro che ne sono alla base è addirittura peggiorata. Ogni individuo ha oggi molte più responsabilità rispetto alla propria vita, senza che gli siano stati concessi i mezzi per affrontarle. Il risultato è, qui come altrove nel mondo, un’opprimente incertezza. Nessuna significativa forma di redistribuzione della ricchezza alla sua fonte, la proprietà, o al suo risultato, i profitti, è stata messa in atto, così come al di là di elezioni quinquennali nessun potere è stato ridistribuito agli individui perché possano essere davvero responsabili e padroni della propria vita.
E lo stesso accade, in democrazia e in dittatura, ovunque nel mondo, all’apparire, ad ogni nuova stagione, di un nuovo movimento che, periodicamente, promette rinnovamento, cambiamento e speranza, per poi lasciare tutti quelli che ci avevano creduto con un pugno di mosche in mano.