Tra i bambini
Che serve per lavorare con l’infanzia nel sociale?
Do per scontato che attraverso gli altri articoli di questo manuale il lettore si sia fatta un’idea sulle parole “infanzia” e “sociale” più precisa di quanto non ci sia riuscito io
in questi anni di lavoro con i bambini.
Sono molte le strade che possono portare a scegliere questa fascia d’età per la propria attività prevalente, e probabilmente la via universitaria resta tra le peggiori. Io mi ci sono trovato senza accorgermene più di tanto, e soprattutto senza sospettare che potesse diventare un lavoro (inteso anche come fonte di sostentamento economico). Alla fine delle superiori l’anarchismo, il pensiero libertario e gli echi della critica radicale degli anni ’60 si intrecciarono al forte sentimento di insopportazione verso il mondo che mi circondava. E nei bambini trovai rifugio. Mi sembrarono gli unici con cui poter trascorrere del tempo senza stare male. Gli unici con cui ripartire alla scoperta di un essenziale da spogliare da oggetti e parole superflue. Furono autori come Dewey, Rogers, Freinet, Word, piuttosto che i pensatori di grido del momento, a darmi strumenti e approcci utili per cercare il bandolo della matassa.
E mi apparve quasi immediatamente con chiarezza quanto negli asili, nelle scuole elementari ma anche nelle ludoteche e negli altri “luoghi sociali” si giocasse in realtà una battaglia, la vera battaglia, quella molto più antica e profonda della lotta tra proletari e borghesi, tra bianchi e neri, ricchi e poveri: la guerra tra adulti e bambini. Il lavoro con i bambini impone, a un certo punto, di prendere una posizione rispetto a questa lotta.
E la scelta non è affatto semplice. Almeno per me non lo è stata. Provai istintivo schierarmi dalla parte dei bambini, sentirmene paladino e difensore estremo contro i maestri e gli educatori “cattivi”. Per poi scoprire che questa scelta è tra quelle che più potrebbero nuocere ai bambini stessi (oltre che agli adulti).
Eppure il problema resta. Non parlo ovviamente di quelle lotte che non dovrebbero creare troppi problemi a nessuno nella scelta della parte per cui tifare (quella del marketing iper aggressivo che cerca di catturare ogni minuto un nuovo consumatore in fasce; o a del “sociale” che smania per handicappizzare quanti più bambini possibili in modo da farsene salvatore remunerato). La lotta a cui mi
riferisco è più sotterranea, ma se si aguzzano bene le orecchie la si può facilmente percepire in un qualsiasi gruppo dove ci sono adulti e bambini. L’aria pesante, quella di una vera e propria guerra, risulterà ancora più tangibile in una delle tante classi dove una maestra è lasciata ad addomesticare da sola fino a 26 bambini di 3 anni in uno dei tanti asili pubblici della nostra nazione.
Anche se non riuscirei mai a spiegare posta in gioco e motivi di questa antica guerra, qualche idea più chiara me la sono fatto sulle modalità in cui avviene. Ad esempio in molte delle classi scolastiche o di altri tipi gruppi di lavoro con l’infanzia, le armi sono diventate sofisticate, in altri ancora piuttosto rozze. Quasi mai è la violenza fisica esplicita l’elemento dirimente (almeno in Italia, e anche se proprio qualche giorno fa degli alunni rom di Napoli ci dicevano che loro rispettavano solo
le maestre femmine. Perché? Perché se no li “vattevano”. So che non è vero, ci giurerei che quelle maestre non hanno mai alzato un dito su quei bambini né lo
avrebbero mai fatto. Ma so anche che i bambini rom, come gli altri loro coetanei, temevano che questo potesse davvero accadere).
Il fattore superioritàfisica (naturalmente associato al sentimento di dipendenza da un grande per il soddisfacimento dei bisogni primari: un neonato, come un bambino di 10 anni, sanno che difficilmente riuscirebbero a procurarsi cibo e riparo sicuro senza l’aiuto di un grande) costituisce insomma una costante di sottofondo nella relazione adulto bambino, almeno fino alla scuola media. Ma c’è forse un altro fattore altrettanto importante: la radice autoritaria del rapporto di dominio che
viene a instaurarsi tra Ministro e Provveditore, tra Preside e insegnante, tra insegnante e genitore. L’ultimo anello di questa catena è il bambino.
Ed è forse proprio la volontà di dominare un altro essere umano a costituire una delle molle principali di questa interminabile guerra. Possibilità di dominio cento
volte maggiore con un bambino (meglio ancora se “povero”) che con un grande. E’ un tipo di dominio che fonda probabilmente le sue radici etiche nelle teorizzazioni (tra gli ultimi Freud e discepoli) che contemplano la necessità di sacrificare una parte della propria libertà alla sicurezza, sacrificio che impone una delega allo Stato
quale unico super partes capace di stabilire modalità e misura di queste limitazioni. Per fortuna ci sono dei punti in cui questo sistema oggi più di ieri non regge proprio più, uno di questi è la scuola media. I dati sulla dispersione scolastica parlano chiaro: alle medie c’è un crollo verticale e per alcuni (per i rom ad esempio) più che per altri. Chi è arrivato in prima media ha un’età in cui, tra l’altro, viene a cadere la superiorità fisica del docente rispetto al discente (e al sentimento di dipendenza biologica viene a contrapporsi il prevalente bisogno di autonomia e esplorazione).
Mi vengono in mente i racconti angosciati della maestra bolzanina che avrebbe dovuto accogliere in classe sua un bimbo sinti (piuttosto corpulento) che di scuola non voleva proprio più sentire parlare: la maestra la notte sognava spesso che questo bambino l’aggredisse fisicamente facendole molto male. La maestra aveva paura del suo alunno di undici anni. Quali che siano i fattori determinanti, è a questo punto che la scuola sale (o scende) più rapidamente il gradino verso il “sociale”. Chi va alle medie smette spesso di stare nel fisiologico e comincia il suo decorso “patologico”, vedendosi attribuire le cause del proprio disagio ai fattori più variegati (ormoni, droga, marginalità sociale, disturbi psicologici, mancanza di valori, internet). Ma quasi mai tra questi fattori viene presa in considerazione l’inadeguatezza della scuola. Dopo aver passato circa 12 anni della tua esistenza in un luogo dove i tuoi genitori ti lasciavano per riconquistare qualche ora di libertà, dove tu eri l’ultimo tassello di un sistema di potere molto più somigliante a terribili regimi dittatoriali che a quella democrazia basata su legalità e rispetto, di cui pure hanno cercato in tutti i modi di infarcirti il cervello… beh proprio ora che finalmente con un pugno ti senti di poter stendere l’antico dominatore, gli altri, i grandi, si
accaniscano a guardare dall’altra parte e ti dichiarano matto (direbbe Bennato). E’ a questo punto che agli operatori del sociale viene chiesto di dare una mano alla scuola. Di intervenire cioè per salvare i deviati, esercitando il ruolo di censori e/o semplicemente di simpatici fricchettoni con il compito di prelevare i più discoli dalla classe. Perché i più bravi possano studiare in pace, mentre i dispersi risultino
presenti grazie a qualche ora di creta, giocoleria, sport o di alfabetizzazione di bassissima lega. Questo semplicemente non va fatto.
Del resto la tendenza a costruire percorsi speciali (se non vere e proprie classi speciali) come antidoto all’ancora troppo alto tasso di abbandono scolastico in molte città (come Napoli) è un dato di fatto.
Nei libri di Danilo Dolci, di Don Milani, in molti quaderni della MCE, in diari di maestro come quelli di Freinet e Montessori, e soprattutto nelle giornate passate a Napoli con i bambini al Damm e dell’ex Mensa dei bambini proletari a Montesanto, del Cerrigilio a Sedile di Porto, della scuola Pisacane di Roma, della scuoletta di Grub in provincia di Bolzano e infine tra Scampia e il resto d’Italia con il Compare prima e il Mammut poi, ho continuato a toccare con mano quanto possa essere possibile far diventare autentico centro di benessere per grandi e piccoli un luogo di tortura come la scuola,.
Non esiste nessun metodo e nessuna ricetta che potrà salvare la scuola, far crescere i bambini sani e la società bella. Esiste solo chi non ha smesso di essere in cerca e di volersi modificare, continuando a seguire la propria passione che chiede sempre il prezzo di affidarsi all’imprevedibile.
Nel mio caso io ho trovato che la maggior parte dei bambini e dei rom sono in genere le persone più capaci di rimettere in moto questo cambiamento, a partire dal piacere di trascorrere del tempo in loro compagnia. Tutti gli studi e le teorizzazioni più valide possono aiutare a fare pulizia e ad aggiungere lenti di conoscenza rispetto a una relazione educativa. Ma non sono mai la relazione educativa. Anzi, uno degli ostacoli più grandi per chi fa un lavoro con i bambini è proprio la delega al grande pensatore. Sia che questa avvenga in buona fede, come per i tanti educatori iper esigenti con se stessi; o in casi più insopportabili come con tirocinanti e maestrine/i che per far carriera si sono iscritti alle università, infarcendosi tramite manuali dei principali concetti della pedagogia attiva e diventandone così i più odiosi delatori. E’ questo anche il caso dell’esperto esterno che va a fare le sue performance a scuola: qualche ora di progetto con un inviato
dall’università o altro ente più o meno accreditato e via, maestre e maestri possono tornare allo squallore del proprio quotidiano, convinti che le abilità di quel grande educatore non potranno mai averle. Tanto vale godersi qualche minuto d’aria che quel grand’uomo avrà donato facendo lezione al proprio posto.
La questione di base rimane insomma la scelta tra addomesticare, guadagnare alla società degli adulti e al loro potere dominante, conformemente all’ordine autoritario prevalente nella società. Oppure spendere la propria vita professionale perché un bambino abbia la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità e scelga consapevolmente le vie per essere quel che è. Condurre, attraverso l’autonomia,
ad unità le parti (tanto che le si voglia chiamare intelligenze multiple con Gardner; o es, io e super io; oppure maschile e femminile; o luce e ombra; o con Berne parte bambina, genitore e adulta) di cui ciascuno di noi si compone.
In questo senso è bello riscoprire il valore di parole come “potere”, come capacità
di essere e fare qualcosa, diversamente dal potere inteso come dominio su qualcun altro. In questo senso “potere” è anche quello di esercitare un ruolo perché se ne
hai l’età, l’esperienza e la conoscenza. Mentre chi è ancora piccolo questi poteri
non li ha, avendone però altri, che l’adulto non ha più e che non sono certamente meno importanti. E’ questo forse l’unico senso che la parola “comunità educante” può avere ancora: quella in cui, pur esercitando il proprio ruolo e assumendosi le proprie possibilità, ciascuno sta sullo stesso piano, riconoscendosi pari importanza e possibilità di apprendere/ insegnarsi reciprocamente.
Se non si sceglie di “addomesticare” ma di “coltivare” la strada è spianata, ci si libera di enormi responsabilità (quella di dover essere Dio che sa tutto e che tutti deve salvare), accettandone solo una: esercitare il proprio potere nel senso in cui l’abbiamo inteso sopra e alimentare prima di tutto la propriae l’altrui integrità. Infine un promemoria con punti estremamente sintetici, ma che potrebbe tornare utile tenere in considerazione quando ci si trova a condividere pezzi di strada con i bambini:
– il lavoro con questa fasce d’età di questa età può essere un buon cavallo di troia per avviare un cambiamento in contesti più ampi (un campo rom, il quartiere di una città…). A patto che non si dimentichi mai che si ha prima di tutto a che fare con le persone in carne ed ossa che sono appunto i bambini, e che è prima di tutto a loro che si deve rispetto e attenzione.
– alcuni temi fanno la differenza, ad esempio quello dello spazio pubblico che
rimane un vero spartiacque. Non il “bene comune” (concetto troppo astratto e abusato da molta sinistra ipocrita) ma il tangibilissimo spazio urbano o verde pubblico. Se il focus viene messo su strade e piazze verranno presto a galla i principali nodi di un percorso educativo, prima di tutto la volontà censoria e handicappizante dell’adulto. Fare scuola a partire dal recupero di strade e piazze può permettere di innovare didattica e città, portando chi se ne occupa ad affidarsi a modalità pedagogiche non autoritarie e a rinunciare al proprio ruolo di educatore- controllore, o di urbanista manipolatore di falsa partecipazione. Il filone “bambini e città” è quantomai ricco, potendo contare su autori come l’architetto Giovanni Michelucci, Colin Ward e lo stesso Feinet.
– il teatro, la pittura e l’arte in genere sono strumenti potenti e utilissimi. Peccato
che molte volte anziché liberare creatività castrino ogni spinta espressiva, divenendo del tutto funzionali a soddisfare smanie narcisitiche di bambini,
genitori e insegnanti/aspiranti artisti (frustrati). Ne sono prova i tanti squallidissimi lavoretti e le temibili recite scolastiche ancora tanto in voga. In classici come “Disegnare con la parte destra del cervello” (di Betty Edwards, Ed Longanesi &
C, 2002, Milano), viene bene argomentato (anche grazie a esercizi pratici) come un adulto debba prima di tutto disimparare quanto gli hanno insegnato con l’educazione artistica. Se adoperati come ci hanno mostrato tanti maestri (da Arno Stern a Jerzi Grotowski), ponendosi sempre mete alte, senza mai creare climi a prevalenza prestazionale, la pittura come il teatro possono essere invece impareggiabili strumenti di liberazione, oltre che momenti interni ai percorsi di apprendimento della materica, dell’italiano, della geografia e delle altre materie scolastiche.
– Una delle principali sfide è proprio quella di riportare a unità apprendimento
curriculare, arte e gioco. In esperienze come le sette edizioni del Mito del Mammut tra Scampia e in altre regioni italiane dal 2007 al 2014, ho sperimentato direttamente quanto gioco, comunicazione pittorica e teatrale possano diventare un rito collettivo capace di creare trasformazione individuale e di quartiere anche in contesti molto difficili.
– nessuna azione educativa è priva di impianto ideologico. Non esiste oggettività
assoluta, nemmeno nelle scienze naturali (come per Kundt e Foyeraben) figuriamoci in educazione. Esiste però la possibilità di adottare, almeno per un paio di volte al giorno, modalità di conoscenza che procedono dal basso (dall’esperienza sensoriale contingente) verso l’alto (la sistemazione o risistemazione in schemi cognitivi preordinati). E l’arte di costruire ponti (come direbbe Dewey) parte proprio da questa possibilità di conoscere e si serve di molte scienze.
– Compresa la coscienza politica, essendo nostro dovere sapere quando nel
nostro lavoro educativo stiamo solo collaborando passivamente ai dettami della società del mercato e dello spettacolo.
– narrazione autobiografica e miti sono uno strumento molto utile, tanto nella
didattica quanto nello sblocco di questioni psicologiche individuali e di gruppo. E’ bene proporle nella versione più pura che si riesce a rintracciare, ovvero quella meno falsata da edulcorazione, sdolcinature, censure e tutte quelle misure che i grandi adottano pensando di tutelare i bambini dall’eccessiva crudezza di queste storie. In realtà così facendo si impedisce di far agire il mito nella sua possibilità
di parlare direttamente e in maniera profonda a livelli di coscienza difficilmente raggiungibili con altri modi (la psicologa Adalinda Gasparina è una delle studiose che maggiormente ha attualizzato questo tema, raccogliendo molte materiali utili nel sito: http://www.alaaddin.it)
– A proposito di coscienza politica è importante tentare di tenere presente quali
sono le cose di questo mondo che meno ci piacciono, quelle su cui vorremmo produrre cambiamento a partire da noi e dai bambini o ragazzi con cui lavoriamo. Serve insomma prima di tutto effettuare un’ analisi lucida (e in perenne evoluzione) dei campi, come li chiamerebbe Lewin. Campi che potremmo ridurre a tre principali: cosmico, sociale (mondo, continente, nazione, città, quartiere, palazzo, famiglia, classe) e individuale (il proprio e quello del singolo bambino
con cui si interagisce). E’ importante tenere presente che si lavora sempre su questi tre piani, perché sono intercomunicanti, e ogni mutamento in uno di questi campi avrà buone probabilità di provocare ripercussione su tutti gli altri.
– E’ piuttosto facile riconoscere il clima di un contesto educativo autoritario da
quello non autoritario (anche se quasi mai esiste un contesto pur, ma quasi sempre le situazioni reali si compongono di entrambi i climi). In un contesto autoritario domina la paura, il timore di sbagliare e di contraddire i superiori (anche in molte esperienze di falsa parità, dove sembra che i capi non ci siano), l’educatore esercita un compito prevalentemente persecutorio, facendo leva su
sensi di colpa, mancanze e competitività tribali. Il gruppo sottomesso (di adulti e bambini) è pieno di sommovimenti clandestini, che mai oseranno sfidare davvero il potere, ma che si scaricano con il lamento e la commiserazione, essendo tutta l’attenzione posta sull’ostacolo piuttosto che sul suo superamento. Solitamente c’è costrizione fisica (che spesso si esprime anche nei blocchi muscolari dipinti
da Alexander Lowen), c’è hanidcappizzazione perpetua, con continui sotto messaggi di inadeguatezza che consolidano la dipendenza dai superiori. L’errore è considerato come male assoluto, punito e corretto dai superiori. E soprattutto l’errore non deve avvenire. In un contesto educativo non autoritario c’è invece aria e luce, schiettezza, franchezza ma anche definitezza dei ruoli e dei compiti, c’è rispetto per le guide e la loro autorevolezza; c’è invito a sentire e ad
esprimere i sentimenti autentici; c’è lucidità di analisi, libertà di movimento e di espressione; c’è critica funzionale al miglioramento e al superamento dell’ostacolo. C’è spinta verso l’autonomia ma mai abbandono, c’è possibilità di valutare ciò che si fa, i propri errori per imparare da quelli. E’ anzi una scuola che parte dall’errore e che su questo si basa, consentendo prima di tutto la
possibilità di farne.
– la valutazione costituisce forse la questione centrale del processo educativo. Se è improntato a uno stile autoritario (voti, prove Invalsi e la più generale tensione prestazionale di ogni momento dell’esperienza educativa) crea danni a volte irreparabili, ed è sufficiente da sola a generare abbandono e insuccesso scolastico. Tuttavia se un processo di valutazione manca del tutto può essere altrettanto dannoso. Resta dunque la ricerca dell’equilibrio, tenendo conto che il senso di inadeguatezza è uno dei principali alleati nella costruzione del falso sé (in merita si veda tra gli altri “Debellare il senso di colpa”, di Lucio Della Seta, Marsilio Editori, Venezia, 2010), nutrimento per le tendenze narcisistiche oggi prevalenti (e sulle quali vale sempre la pena consultare tre classici: Il narcisismo. Di Alexander Lowen. Ed. Feltrinelli. Milano 2009; La cultura del narcisismo di Cristopher Lasch; La societàdello spettacolo, di Guy Debord, Bolsena (VT), Massari Editore, 2002 versione on line).
– Torna utile in questo senso quanto detto sull’uso dell’arte in educazione, teatro e video inclusi, come per l’uso smodato della rete e delle tecnologie. L’utilizzo di
un impianto di valutazione malsano, come quello dell’arte e di tecnologie funzionali alla costruzione di un falso se, costituiscono oggi forse i principali nemici di una buona relazione educativa.
– sociale e personale. Probabilmente non esiste più il lavoro di educatore (al di
fuori delle tradizionali professioni ancora garantite dal pubblico, come quella di insegnante). Forse questa possibilità non è mai davvero esistita, ma dopo gli anni di crisi e di tagli è cosa molto rara trovare enti pubblici o privati che
permettano di svolgere questo tipo di lavoro, di camparci e di formarsi in maniera appropriata. Bisogna saperlo fin da principio e tenerlo sempre presente, per non finire col mischiare rivendicazioni sindacali (spesso sacrosante, come quella di chi non prende lo stipendio da più di un anno) con il lavoro sociale. Nel lavoro
sociale tutta l’attenzione va messa sui bisogni “dell’altro”, presupponendo che chi ha scelto di farlo sia riuscito a sbrogliare le questioni che gli permetteranno di
soddisfare i propri bisogni primari. Oggi purtroppo si fa sempre più fatica a distinguere un operatore dal destinatario del servizio, e questo in genere non è un bene. Anche perché la tendenza ad identificarsi con la vittima non giova a nessuno, come nel triangolo drammatico di Karpman accade tra vittima, persecutore, salvatore (uno dei tanti giochi relazionali rilevati da Eric Berne in testi come “A che gioco giochiamo”, Bompiani, 1964). Questo livellamento dello stato di bisogni potrebbe portare ad una nuova coscienza rivoluzionaria, se si esce però dall’autocommiserazione reciproca e dall’ipocrisia di una relazione d’aiuto fasulla.
I 3 testi:
– Guarire con una fiaba . Di Paola Santagostino. Ed Feltrinelli, Milano 2008
– Resurrezione. Lev Tolstoi
– P. Le Bohec, B. Campolmi Leggere e scrivere con il metodo naturale Quaderni di
Cooperazione Educativa – Edizioni Junior – Bergamo – 2001
le leggi:
– DECRETO-LEGGE 12 settembre 2013, n. 104. In particolare art. 6 per le positive aperture alla possibilità di adottare possibilità diverse dal “libro di testo”
– la costituzione italiana
i siti:
– http://www.mce-fimem.it/home.html
– http://www.arnostern.com
– www.mammutnapoli.org