Sul morire

Mi è capitato varie volte, su questa rivista e su “Lo Straniero”, di scrivere di morte. Sempre in modo indiretto, per lo più attraverso recensioni di romanzi, con la fiducia che nutro nella parola. Proprio la parola si rivela spesso inefficace, inadeguata, quando dal romanzo si passa alla realtà. Solo nel tempo, nella rinnovata capacita di farsi pensiero e discorso, riprende a svolgere il suo ruolo elaborativo, dando senso e forma a ciò che si è vissuto. E allora accade di voler scrivere anche per gratitudine. A mia madre, Grazia Honegger Fresco, su questa rivista ricordata con parole giuste da Luigi Monti, devo moltissimo. Fra le tante cose che ho imparato da lei ne ricordo qui due: la prima riguarda l’inizio della vita, la nascita, e un’idea/pratica di educazione assolutamente libertaria e ribelle ad ogni steccato; la seconda riguarda la fine, il morire, ben diverso dalla morte, della quale non sappiamo né sapremo mai alcunché.
Fra le carte che Grazia ha lasciato – fra le prime che io e mio fratello abbiamo iniziato a guardare – abbiamo trovato due “testamenti biologici” ante litteram che lei ed Emilio, nostro padre, scrissero non appena sposati. Siamo nell’estate del 1960, stanno per partire per un viaggio di nozze nel nord Europa a bordo di una Fiat 1100 con i sedili di stoffa carta da zucchero. Forse pensano a un incidente, forse a quella solenne promessa che si fa anche davanti al sindaco: finché morte non vi separi. Sta di fatto che scrivono dichiarando, in caso di morte, di voler lasciare il proprio corpo alla scienza perché ne faccia utile uso. A scanso di equivoci, entrano nei dettagli: trapianti di cornea, tavolo anatomico per studenti di medicina…. Son cose che si scrivono con relativa facilità quando si hanno trenta, massimo quarant’anni, in zona pre-linea d’ombra, per così dire. So, tuttavia, che ne erano convinti, e profondamente: il loro essere laici, agnostici o, come dicevano quando ero piccola, liberi religiosi, era uno degli elementi che aveva cementato l’unione.
In quella definizione, liberi religiosi, sta molto di come Grazia ha vissuto: libera di cercare, nel tempo che le è stato dato, i legami che annodano l’una all’altra tutte le cose. Montessoriana, certamente, ma infastidita dai tanti farisei del metodo, che ha rivissuto intessendolo di molte esperienze per lei altrettanto capitali, fino a delineare una pedagogia dell’attenzione e del rispetto al cui centro sta la continua (tras)formazione degli adulti.
Poi gli anni sono passati, velocemente come sempre passano, e il corpo di cui non s’è mai occupata la imprigiona infine su una sedia a rotelle. Emilio muore (2013) e inizia l’ultima fase della sua vita: una vita in certo senso da reclusa, probabilmente difficilissima per lei che era stata in movimento perenne (non s’è lamentata una sola volta), per altri versi ancora al centro del dibattito pedagogico: centinaia le persone che vengono a trovarla, a parlare con lei, a cercare il suo insegnamento.
Così, mentre il corpo la chiude, la mente e gli incontri continuano ad aprirla, e la curiosità, insaziabile, la sostiene e nutre chi le sta vicino – le dicevamo spesso che, a dispetto dei tanti anni che aveva raggiunto, la sua età interiore era e sarebbe sempre stata quella di una bambina fra i due e i tre anni, in piena scoperta e fascinazione del mondo.
È questa la situazione in cui inizia a farsi più chiara dentro di lei la parabola della vita, prima immaginata, ora vissuta: l’ultima vecchiaia come ritorno all’infanzia, non solo per i ricordi, che si fanno più massicci, prepotenti, ma per i bisogni. Non è più il momento di pensare a ciò che sarà del nostro corpo. È il momento di pensare al prima: al morire, appunto.
Nel gennaio del 2018 entra in vigore la legge n. 219 del 22.12.2017, che
tratta le “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni
anticipate di trattamento” (DAT). Si tratta di una legge importante, di cui si
parla troppo poco, e che permette alla persona, finché in grado di
esprimere chiaramente la propria volontà, di decidere anticipatamente quali trattamenti medico-sanitari vorrà o non vorrà subire qualora, vicina la morte, non fosse più in grado di esprimerla. Da sempre molto attenta alla
crescente occupazione da parte della medicina di aspetti/fasi naturali della
vita (a partire dalla nascita, sulla quale ha scritto molto), Grazia decide
subito di redigere il suo testamento biologico (è la prima nel Comune in cui
risiede).
La cosa non è semplice come sembra. Mettere nero su bianco ciò che si
vuole o non si vuole, significa comprendere esattamente la portata di ogni
scelta. Che cosa significa scrivere di non volere l’alimentazione o
l’idratazione forzata? Che cosa comporta non accettare un’eventuale
intubazione? Il rifiuto del ricovero può essere totale o debbono essere
specificati casi in cui può avvenire? E se totale, che cosa la Regione, a cui
spetta la competenza sanitaria, mette in campo per alleviare le eventuali
sofferenze di chi sceglie di morire a casa?
Si tratta, insomma, di una scrittura complessa, difficile da svolgere in piena
coscienza se non si ha una competenza di tipo medico. Anzi, più che di una
scrittura, si tratta di un percorso che riguarda tanto la persona che decide
quanto i parenti più stretti, o comunque colui, colei o coloro che le saranno
accanto nel momento della fine. Nel nostro caso, ci aiuta Nicola, un infermiere di comprovata esperienza (fa parte di un’unità di medicina palliativa) che Grazia ha conosciuto fin da quando frequentava la nostra
casa occupandosi di nostro padre e col quale ha stretto un’amicizia da cui
sono nate riflessioni sulle similitudini fra l’inizio e la fine della vita.
È come se, mentre la vive, Grazia osservasse la propria vecchiaia
dall’esterno: i piccoli cambiamenti, giorno dopo giorno, i bisogni che sente
via via più chiari: ad esempio il bisogno di lentezza, ovvero sia di persone i
cui gesti siano lenti, calmi (non è così anche per il neonato?); oppure l’importanza che le cose non cambino di posto: il ritrovare, sul tavolo, gli oggetti e le carte come le ha lasciati, foss’anche in apparente disordine; il
bisogno di essere trattati, sempre, con rispetto (come persone). E, soprattutto, le necessità di elaborare strade e stratagemmi per essere
autonoma il più possibile, dando un nuovo significato a quell’aiutami a fare
da solo su cui si è tanto battuta per i primi anni di vita. La quotidianità
diventa per lei una lotta, a volte molto dolorosa; ma è la sua e, finché
possibile vuole condurla a modo suo.
Mettere nero su bianco ciò che si vuole o non si vuole, significa comprendere esattamente la portata di ogni scelta.
Nella fase di redazione del documento, né io né mio fratello ci siamo resi
conto fino in fondo di quello che il documento avrebbe significato. E anche
se più volte lo abbiamo letto e fatto tradurre – prima in arabo, poi in russo,
affinché le badanti che si sono avvicendate ne comprendessero il senso e il
valore legale – era infine solo un foglio di carta, seppur firmato da noi e
dall’addetto del Comune. Ma Grazia aveva chiesto che fosse appeso nella
sua stanza da letto, a monito costante di ciò a cui avremmo dovuto
attenerci nel momento del bisogno.
Il suo significato, cioè il suo essere un patto, l’abbiamo compreso quando il
momento di attenerci alla sua volontà è arrivato, quando si è trattato di non
andare in ospedale, di non sottoporla ad esami e a interventi, di accettare
che quell’equilibrio precarissimo che l’aveva tenuta in vita negli ultimi anni si era rotto, e che questa rottura portava nostra madre lungo una strada dove non potevamo seguirla.
Pare facile, e invece non lo è. Stare, solo stare. Quante volte le ho sentito
dire questo a proposito di bambini piccoli? Non intervenire, aspettare,
lasciare che provino, che seguano il loro percorso, sostenerli nel loro
tentare, per prove ed errori. Stare in modo affettivo, col semplice tocco di
una mano, abitando la medesima la stanza; stare senza fare, senza agitarsi,
senza interferire.
Il momento più difficile è stato quello in cui il medico palliatore ci ha detto di che cosa parlasse davvero quel documento, vale a dire di ciò che puoi o
non puoi fare. D’un tratto sentiamo l’oscurità del tunnel: comprendiamo
definitivamente che la morte si è messa in cammino e si affaccia qua e là il
desiderio di imbracciare la vana battaglia. Ciò che dice il medico – ad
esempio che non dovremo darle da bere, a meno che lei lo chieda
esplicitamente – ti pare orribile. E sì, sarà anche vero che l’ospedale va bene
solo quando c’è una possibilità di cura, ma come essere davvero certi che
non si possa fare nulla? L’idea che se ne stia andando è intollerabile.
Ecco, quello è stato il momento in cui abbiamo saputo ciò che credevamo di sapere. I verdetti, quando vengono pronunciati, hanno un valore diverso
da quelli che ci diciamo nel silenzio della mente. E all’inizio è sgomento.
A sostenerci, tuttavia, non c’era solo quel documento; c’era anche il ricordo
delle tante volte in cui ne avevamo parlato, dell’assoluta chiarezza mentale
con cui lei guardava alla sua scomparsa, al divenire di tutte le cose, alla
cenere che è cosa pulita. E l’averne parlato aiuta, anche ad ascoltare quel
che ti viene spiegato: come il corpo si prepari a questo momento mettendo
in atto nuovi equilibri biochimici, quanto sia importante non interferire in un processo che è naturale quanto lo è il nascere. La mente inizia ad accettare, ad aprirsi a quel morire che fa sempre tanta paura, finché vedi con chiarezza che l’unica cosa sensata, l’unica cosa che lei avrebbe voluto,
l’unica cosa che ci avrebbe lasciato custodi di qualcosa di prezioso e
irripetibile, era starle accanto.
Che sia con noi Nicola, la stessa persona con cui abbiamo scritto il
documento, con cui abbiamo tante volte chiacchierato, è una differenza
sostanziale. Ci vorrebbe l’ostetrica della morte, diceva lei. E nel dirlo
segnalava l’importanza di una presenza sensibile, attenta, capace di non
decidere al posto di, come una brava ostetrica non toglie alla donna il
processo del nascere; una presenza costante, a riprova di un altro aspetto
che rende il fine vita così vicino agli inizi: il bisogno di continuità. E Nicola è
così. Fa ciò che è indispensabile; e rimane con noi il tempo necessario
perché, a nostra volta, si trovi il coraggio di stare. L’unico intervento attivo è
eliminare il dolore causato dall’emorragia cerebrale.
Siamo stati con lei due giorni e due notti. Si è svegliata poche volte,
importantissime per noi che avevamo ancora così tanto desiderio di
incontrare i suoi occhi. Tutto quello che dovevamo dirci ce l’eravamo già
detto. Restavano gli sguardi e la sua capacità di ascolto, di sentire quel che
avveniva attorno a lei, di riconoscere la voce della sua ultima nipote che
entrava in casa, arrivando a pronunciare il suo nome. A turno accanto a lei,
una mano sulla spalla o intrecciata alla sua, ogni tanto delle chiacchiere
intorno al letto dove sembrava solo dormire. Perfino qualche risata.
Infine, poco dopo la mezzanotte (30 settembre 2020) se ne è andata. E ci
siamo trovati con quel corpo che tanti anni prima aveva pensato di donare
alla scienza. Invece niente tavolo anatomico, niente trapianto di cornee.
Nessuna mano estranea.
Prima di accudirla insieme a me, Nina, la badante degli ultimi anni, ha
voluto coprire tutti gli specchi della stanza: altrimenti, mi ha spiegato,
l’anima rimane prigioniera. E quindi su e giù dalla scala a pioli ad attaccare
lenzuola preparando il libero andare. Solo alle sette del mattino abbiamo
chiamato il medico, le pompe funebri, abbiamo pensato a come salutarla
insieme ad altri.
Poi, per vari giorni, siamo rimasti tutti assieme: figli, nipoti, fratelli, nonni. E mai, come in quelle ore, abbiamo capito che niente di ciò che ci sembrava perduto era perduto davvero. Il distacco era stato dolce, così come dolce può essere l’incontro: nei mesi di lutto, il suo modo di morire, il nostro di
stare con lei, ci avrebbe aiutato, ognuno a suo modo.
Una sua giovane collega, venuta a trovarci una settimana dopo, mi ha
chiesto, mentre passeggiavamo per il giardino con la mascherina addosso,
quanti anni avesse mia nipote. Ha compiuto tre anni ad agosto, le ho
risposto. Lei ha sorriso e ha detto: Quindi ha aspettato… Da 0 a 3 è sempre
stato il suo periodo preferito.
Proprio questa nipote, che ha vissuto con noi tutto il passaggio iniziando a
interrogarsi a sua volta sul prima e sul dopo, qualche giorno dopo, tornando a casa dai giardinetti, mi ha chiesto cosa facevo quando ero giovane. Le ho raccontato di sua madre e di suo zio da piccoli, di mio padre e della nonna bis (Grazia) che piantava fiori in giardino… E io c’ero? No, tu non ceri. C’era la tua mamma, ma era piccola come te. E dov’ero io?, mi chiede lei. Mi fermo: Secondo te dov’eri? Nella pancia della mamma, risponde sicura. Mi sembra un bel posto, le dico io. Mi guarda, penso che voglia dire ancora qualcosa. Invece mi afferra un dito e riprendiamo a camminare.
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