Soggetto nomade: donne che guardano le donne

Cosa succede quando lo sguardo femminile si posa sul corpo delle donne, analizzando le loro sofferenze, le battaglie che ogni giorno silenziosamente mettono in campo, il loro mondo di bambine già adulte oppure la fluidità di un genere che sembra sfuggire a una definizione rigorosa?
Sulla pellicola compaiono immagini che scrutano lo spettatore e sembrano parlare prima di tutto del nostro modo di guardare e di pensare. Le bambine dei quartieri degradati di Palermo fotografate da Letizia Battaglia, i travestiti del centro storico di Genova di Lisetta Carmi, le donne dello spettacolo di Elisabetta Catalano, gli anni delle manifestazioni femministe nelle immagini di Paola Agosti e gli uomini abbigliati come donne per il Carnevale immortalati da Marialba Russo ne sono la prova.
Immagini e storie differenti che racchiudono l’idea di fotografia di cinque donne diverse e testimoniano perfettamente quanto il pensiero sulla femminilità sia, ogni giorno sempre di più, in continuo mutamento. Dopo la mostra Soggetto nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane. 1965-1985, presentata per la prima volta al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci da dicembre 2018 a marzo 2019, oggi queste fotografie escono in libreria raccolte in un volume edito da Produzioni Nero che, come già nel titolo omonimo della mostra, fa riferimento all’importante raccolta di saggi di Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità (Donzelli, 1995). Quella nomade è una condizione esistenziale ma anche una categoria di riflessione e un’opzione teorica per Rosi Braidotti che, a partire da quelle pagine, ha provato a raccontare in maniera diversa la sua visione di femminismo. Riassumendo le tesi del libro, la filosofa scrive: “in esso si susseguono una serie di traduzioni, spostamenti, adattamenti a condizioni in continuo mutamento. Per dirla in altri termini, quel nomadismo che sostengo come opzione teorica si rivela essere anche una condizione esistenziale”. Ogni soggetto femminile è dunque un soggetto nomade, si definisce all’insegna della complessità e del molteplice, muta nel tempo in un ventaglio di infinite variazioni possibili, rigetta ogni definizione univoca e semplicistica.
Ed eccoli incarnati questi soggetti nomadi nei volti e negli sguardi, nei gesti delle donne ritratte dalle cinque fotografe che sembrano in qualche modo aver anticipato e dato forma ai temi della filosofa. Per Braidotti soggetto nomade è un’identità femminile che sfugge e che all’unicità universale e astratta del soggetto, alla sua falsa neutralità oppone una soggettività sessuata e molteplice, multiculturale e stratificata.
La serie I travestiti di Lisetta Carmi (Genova, 1924) si inserisce perfettamente in questa ridefinizione nomadica, ovvero non identitaria e non lineare, della soggettività. La fotografa inizia a frequentare i travestiti del ghetto di Genova a partire dal 1965. L’occasione nasce durante una festa di Capodanno ma Lisetta Carmi continuerà a fotografarli, vivendoci insieme e condividendo con loro un pezzo di vita, fino al 1971. “Fotografando i travestiti ho capito che non esistono gli uomini e le donne, esistono gli esseri umani”, dirà. Conoscerli la aiuterà a capire molto di se stessa, ad attuare una vera e propria autoriflessione. Attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, molte di queste fotografe riescono infatti a guardare loro se stesse, indagare il loro inconscio, trovare una via di espressione.
Sarà così per Letizia Battaglia (Palermo, 1935), celebre per essere stata la “fotografa della mafia” e per aver raccolto durante la sua carriera un numero vastissimo di immagini di donne eterogenee.
Quelle della fotografa palermitana sono donne che vivono sulla loro pelle l’orrore della mafia, distrutte dagli eventi tragici di quegli anni, donne che lottano ogni giorno con la povertà e con i soprusi, che devono costruire la loro femminilità in un mondo dominato da ideali di forza bruta. E poi ci sono le bambine, con gli occhi che guardano dritti in camera, gli sguardi spesso contrariati da ciò che vedono e vivono ogni giorno. “Amo fotografare le donne perché sono solidale: devono ancora superare tanti ostacoli verso la felicità, in questa società maschilista che le vuole eternamente giovani, belle, con una concezione dell’amore che spesso, in realtà, è solo possesso. E cerco gli occhi profondi e sognanti delle bambine: mi ricordano me stessa a dieci anni, quando mi resi conto, di colpo, che il mondo non era poi così bello. Ecco perché le bimbe che ritraggo non ridono mai: le voglio serie nei confronti del mondo, come lo sono stata io”, ha detto Letizia Battaglia. Nei volti di quelle bambine la fotografa cerca qualcosa che si è spezzato in lei a quell’età, quando è stata costretta a trasferirsi con la famiglia da Trieste a Palermo e poi a sposarsi giovanissima a soli sedici anni per fuggire a un padre padrone e ritrovarsi tra le mani di un marito altrettanto retrivo. Tra i vicoli di Palermo, Letizia Battaglia scatta alcune delle immagini che diventeranno più celebri nel corpus del suo lavoro tra cui quella della bambina con il pallone. “Una bambina felice, che giocava con altri amichetti. Ma io le dissi: non ridere”, racconta. È così che la fotografa riesce a raccogliere quello sguardo denso e profondo, magnetico e adulto. Uno sguardo nomade, in cerca di una patria, stretto tra la speranza nel futuro e la rassegnazione di chi ha già imparato a sopportare. Ancora oggi, a 85 anni, Letizia Battaglia cerca il corpo femminile, fotografandolo nella sua nudità. Scattando le donne, con le loro fragilità e la loro semplicità non costruita, si sente a casa.
Il femminile è invece mostrato nella sua piena forza vitale e nella sua carica sensuale nell’opera di Elisabetta Catalano (Roma, 1941-2015). Quando inizia la sua attività di fotografa durante le riprese del film 8 1/2, in cui interpreta anche la cognata del protagonista Marcello Mastroianni, Fellini la ribattezza “Bellissima principessa”. Alla carriera cinematografica Catalano preferirà molto presto il lavoro dietro la macchina fotografica con cui immortalerà molti dei protagonisti della sua epoca. Nei suoi scatti modelle, attrici, personaggi della cultura, scrittrici posano in ritratti improvvisati e spontanei, spogliate dei loro simboli e colte per la prima volta nella loro intimità. La fotografia diventa così un mezzo per raccontare lucidamente la società dell’epoca, per svelare il volto inedito di alcuni dei personaggi che la animano. Natalia Ginzburg nella sua casa romana o Giosetta Fioroni nel suo studio si mostrano in momenti di pausa dal lavoro, assorte e quasi dimentiche dell’occhio che le guarda. La fotografia diventa il linguaggio più diretto per esplorare il nomadismo degli spazi in cui si muovono le donne che immortala. Prima di scattare, Elisabetta Catalano aspetta il momento preciso in cui il suo soggetto si rivela per quello che è, lasciando libero l’accesso alla propria interiorità e al proprio carattere personale. Le pose catturano la spontaneità del momento e dei movimenti. Sole e avulse dal loro contesto di riferimento le donne ritratte dalla fotografa riescono a raccontare una personale attraverso il corpo.
Sarà Paola Agosti invece a documentare lo spazio condiviso e agito delle lotte femministe e delle grandi manifestazioni degli anni Settanta. Nel suo famoso libro Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne del 1976 raccoglierà gli scatti delle rivendicazioni portate avanti dalle donne, riportandole con gli occhi di una giovane cresciuta in quegli anni a Torino, in un clima culturale e familiare stimolante. Il padre Giorgio era stato uno dei fondatori del Partito d’azione, un monumento della Torino antifascista. Questore di Torino all’indomani della liberazione, poi dirigente d’azienda. La madre, Ninì Castellani Agosti, di origine milanese, era la storica traduttrice di Jane Austen in Italia. Dopo gli studi all’Accademia, Paola Agosti decide di diventare fotoreporter, confrontandosi da subito con un mestiere, soprattutto all’epoca, prettamente maschile. Di quei giorni ricorda ancora la prepotenza dei colleghi uomini, la competitività al limite della scorrettezza, i calci e le spinte per aggiudicarsi la prima linea e la visione migliore. “La lotta non è finita, riprendiamoci la vita” si legge sugli striscioni delle manifestazioni femministe. Oggi quella lotta prosegue su altri binari ma ugualmente necessaria.
Anche Marialba Russo, come già Lisetta Carmi, rappresenta un femminile “altro”, incarnato negli uomini di Avellino, Benevento, Napoli e Salerno che si travestono da donne durante le tipiche feste del Carnevale. Gli uomini abbandonano il loro ruolo sociale per un giorno, assumendo un’identità opposta alla propria, spogliandosi e liberandosi dalle regole abituali e quotidiane. Nei primi piani ravvicinati i travestimenti quasi grotteschi e caricaturali diventano una nuova, quasi irreale epifania. Maschile e femminile si fondono a tal punto da divenire una cosa unica, non più identificabile con precisione.
Dalla femminilità come volontà e aspirazione, spesso perseguita con sforzi e sofferenza o per mero divertimento e passatempo, alla femminilità vissuta come condizione o battaglia da portare avanti, gli occhi di queste cinque fotografe attraversano un ventennio di scoperte e lotte.
La macchina fotografica diventa di volta in volta uno strumento per riappropriarsi della propria libertà, per sostenere quella delle compagne, per indagare il proprio inconscio e il proprio essere o sentirsi donna. Pur nella loro diversità di intenti e di poetica, le fotografe di Soggetti nomadi condividono la rappresentazione di un vasto e inusuale universo femminile, dove il corpo non è solo oggetto dell’indagine ma diviene vero e proprio soggetto agente e partecipante e la femminilità presa in esame un costante processo di mutazione e trasformazione radicale.
Fotografare una sola donna tipizzata, un solo modo di intendere il genere femminile, significherebbe automaticamente negare infatti l’esistenza delle altre e la possibilità, per le donne di ieri di oggi, di poter essere finalmente ciò che desiderano, senza dover corrispondere a un’idea precostituita.