SIONISMO e COLONIALISMO
“Finiremo tutti nel Sinai!”. È questo l’incubo dei palestinesi dalla Nakba in poi.
Un incubo che torna in tutte le guerre che essi hanno subito nel corso dei decenni e, con forza ancora maggiore, nel conflitto attuale, e che si esprime anche nella cultura e nella letteratura palestinesi, come nel romanzo Il libro della scomparsa, di Ibtisam Azem (tradotto in italiano nel 2021 dall’editore Hopefulmonster), che immaginava l’improvvisa scomparsa di tutti i palestinesi da Israele, dai territori occupati, da Gaza.
Esodo forzato, sfollamento, checkpoint per rendere la mobilità impossibile, frammentazione del territorio, occupazioni di terre, sfoltimento demografico mediante bombardamenti, carestie, costruzione delle condizioni perchè scoppino epidemie e, per chi non muore, ferite capaci di invalidare per l’intera vita.
Ciò che accade oggi a Gaza e in tutta la Palestina ci era stato spiegato e preannunciato negli anni ’60 da ricercatori come Fayez Sayegh. Non abbiamo voluto ascoltare: la particolare versione del colonialismo di insediamento incarnata dal sionismo non è, non è mai stata, un sottoprodotto temperabile del nazionalismo dello stato israeliano, ma lo strumento del suo processo di nation-building. Un processo basato sulla segregazione, inferiorizzazione, spoliazione ed espulsione della “popolazione nativa”.
L’articolo Conoscere l’apartheid di Noura Erakat e John Reynolds tradotto dalla rivista Jewish Currents ricostruisce la lunga battaglia intellettuale, politica e giuridica dei ricercatori e attivisti palestinesi dentro le organizzazioni internazionali per il riconoscimento della storia e dei diritti del popolo palestinese, ma ci mostra anche la ricchezza del pensiero anticoloniale e il valore politico di un internazionalismo terzomondista soffocato, ieri come oggi, da imperialismi e da vecchie e nuove guerre fredde.
La capacità del pensiero anticoloniale di ribaltare i nostri modi di vedere il mondo è leggibile nelle parole di Tahar Lamri in La terra promessa. Pennellate nette, decise, da cui emerge un ritratto impietoso dell’Occidente: la costruzione ideologica, culturale, economica e politica in cui ci siamo immersi, con molta benevolenza verso noi stessi e molto razzismo suprematista verso gli altri. E se, invece, lo stato di Israele non fosse che il compimento del sogno dell’Occidente antisemita? Se dietro la sua costruzione ci fosse la mancata volontà di guardare fino in fondo la Shoah?
Da un altro vertice di osservazione, la studiosa Marcella Emiliani, recentemente scomparsa, riflette sulla classe politica e sulle organizzazioni e i partiti che dovrebbero rappresentare i palestinesi di Gaza. Il contributo che qui ripubblichiamo, tutt’ora attuale, ci aiuta a capire come il (fragile) consenso ad organizzazioni come Hamas, più che frutto di adesioni ideologiche, sia l’esito di tutti gli errori di chi, sul fronte arabo ed israeliano, lo ha lasciato come l’unica opzione in campo.