Sex work is work: rivendicare il lavoro per rivendicare diritti

Il termine “sex work”, in italiano “lavoro sessuale”, affonda le sue radici in un convegno del gruppo Women Against Violence in Pornography and Media, tenutasi a San Francisco nel 1978. In questa sede la sex worker, attivista, artista e regista Carol Leigh (anche conosciuta con il suo nome da performer Scarlot Harlot) propose di iniziare a destigmatizzare la prostituzione e a parlare dei diritti per tutte quelle persone – donne, uomini e persone queer – il cui lavoro veniva trattato come una questione criminale e moralmente squalificato. La definizione include oggi un vasto mondo di figure che lavorano ad esempio nella pornografia, negli strip club, nelle sex lines telefoniche o offrono contenuti sessuali via web-cam. In generale, con il termine “sex worker” ci si riferisce a chi presta servizi sessuali che avvengono tra persone adulte e consenzienti, in diversi tipi di contesti.
Parlare e organizzarsi come sex workers ha permesso la presa di parola di soggettività marginalizzate portatrici non solo di pratiche ma anche di una cultura propria (estetiche, immaginari, linguaggi, codici, saperi della strada, modi di intendere e di praticare la sessualità) con l’obiettivo di un superamento della visione oggettificante che aveva dominato fino a quel momento il discorso pubblico su questo ambito. Analogamente, le forme di organizzazione come sex workers hanno dato vita al farsi di un movimento globale composto da lavoratori e lavoratrici sessuali che in diversi luoghi si battono contro la stigmatizzazione del lavoro sessuale e la garanzia dei diritti. Infatti, come sottolineato dal Network Globale dei progetti del Lavoro Sessuale (in inglese Global Network of Sex Work Projects, NSWP) questa semplice ma potente dichiarazione ha permesso l’inquadramento delle lavoratrici sessuali “non come criminali, vittime, vettori di malattie o peccatrici ma come lavoratrici”.
I movimenti delle sex worker sono per loro natura intersezionali, nel senso che al centro delle loro rivendicazioni c’è il mostrare come la disuguaglianza, le violenze e lo sfruttamento economico che subiscono nell’esercizio del loro lavoro siano costruiti su un complesso intreccio di processi di subalternizzazione e di discriminazione che hanno effetti materiali, politici e culturali sulle loro vite e sui loro corpi. Sono anche movimenti internazionali: le diverse organizzazioni di sex worker sono connesse fra di loro – agiscono infatti come un sindacato ma dentro reti organizzative tipiche dei movimenti internazionalisti – e organizzano una forza lavoro spesso di origine migrante e quindi molta attenzione viene posta non solo al salario ma anche ad altri aspetti della vita di queste lavoratrici.
Questi movimenti portano infatti le loro istanze anche al di fuori del mondo del lavoro sessuale, chiedendo la garanzia di tutti diritti fondamentali, che essi declinano dal di dentro delle loro condizioni materiali. Rivendicando ad esempio il diritto all’abitare parlano anche delle difficoltà ad avere un luogo sicuro dove svolgere la propria attività, ragione che le spinge a lavorare in strada, un luogo che senza le dovute tutele può essere più pericoloso per unə sex worker. Oggi in Italia affittare un appartamento anche a prezzi di mercato a più persone che esercitano il lavoro di sex workers implica il rischio di incorrere nel reato di favoreggiamento della prostituzione. Questo reato, sancito dall’art. 3 della legge Merlin (una delle leggi più datate nel contesto europeo, che vige in Italia dal 1958), scoraggia anche le forme di solidarietà, di scambio di informazioni e l’autorganizzazione cooperativa dellə lavoratricə dell’industria del sesso, favorendo così indirettamente la violenza. Anche il diritto alla salute e alla prevenzione dell’HIV e delle infezioni sessualmente trasmissibili diventa difficile da fruire quando chi si rivolge ai servizi sanitari viene trattatə a priori come unə potenziale portatricə di malattia. Infatti, se da una parte lo stigma sociale che circonda il lavoro sessuale può ostacolare una corretta presa in carico da parte dei servizi sanitari, dall’altra, la forte attenzione alle infezioni sessualmente trasmissibili degli interventi sanitari nel mondo dellə sex worker (spesso agita come forma di controllo), rischia di mettere in ombra tutte le altre problematiche sanitarie che possono incidere sulla salute di una persona che spesso è socialmente marginalizzata.
Inoltre avere una famiglia per unə sex workers non è un diritto inalienabile: lo stigma morale che circonda questo lavoro pesa spesso sulle valutazioni dei servizi sociali nelle situazioni di affido dei e delle figli/e. In questo senso, lə sex workers si battono anche per l’educazione sessuale e la libertà per tuttə di poter vivere una sessualità piena, consapevole e non soggetta a pregiudizi.
Questo significa anche lasciare che le persone scelgano di poter slegare la propria sessualità dall’affettività e dall’intimità e di poterla agire anche su altri piani, riconoscendo il modello costruito, culturale e moralmente connotato di una sessualità rappresentata come qualcosa di degradante in sé, se pensata al di fuori di legami ritenuti socialmente accettabili.
Infine, le organizzazioni di sex worker spesso rivendicano la libertà di spostamento e la decriminalizzazione della migrazione a tutti i livelli e in tutti gli stati. Infatti, come sottolineano molti movimenti di sex worker, il fenomeno della tratta non è tanto correlato al commercio sessuale in sè, ma piuttosto al processo di criminalizzazione della migrazione e alla distribuzione iniqua delle risorse e delle opportunità, che da una parte spinge le persone a migrare dal proprio paese di origine, e dall’altra, non garantendo percorsi di accesso legali, impone loro di affidarsi a trafficanti che approfittano della condizione di marginalizzazione come migranti, ingannandole e sfruttandole per il loro guadagno.
Questa rivendicazione è stata portata in modo molto chiaro anche a Bologna tra il 2 e il 3 giugno di quest’anno, momento in cui si è tenuto il primo congresso nazionale dellə sex workers dopo quasi 20 anni dai più recenti eventi simili. Il congresso ha radunato sex worker e alleatə che, sebbene lavorino in Italia, vengono da diverse parti del mondo (come il Brasile e la Colombia) ma anche esponenti di collettivi di altri luoghi. Fra queste la Brigada Callejera de Apoyo a la Mujer, organizzazione no-profit della società civile che da 30 anni lavora in Messico tentando di sradicare le cause strutturali che generano il commercio sessuale, facendo in modo che questa attività non sia l’unica strategia di sopravvivenza e che le donne e le altre persone più suscettibili di discriminazione possano lottare per i propri diritti.
Ad oggi, i diversi movimenti dellə lavoratricə sessuali in Italia e nel mondo svolgono molteplici attività, che spaziano dalle lotte politiche allo sviluppo di diverse pratiche di supporto e mutuo-aiuto, come gruppi di scambio di informazioni e supporto, micro-politiche di mutualismo economico o attività culturali o di educazione sessuale, volte al contrasto dello stigma del lavoro sessuale. Infatti, oltre alla natura strutturale e legislativa di alcuni tipi di violenza a cui sono esposte (vedi l’art. 3 della Legge Merlin, n.75 del 1985 che, come visto precedentemente, stabilendo il reato di favoreggiamento, rende anche le pratiche di mutuo aiuto tra sex worker un crimine, contribuendo direttamente alla loro marginalizzazione), molte delle violenze sono generate dallo stigma che è presente nei confronti di persone (specialmente donne) che decidono di svolgere servizi sessuali.
Questo stigma si manifesta nella necessità di nascondere la propria professione alle persone care, nell’impossibilità di denunciare le violenze sessuali subite durante il lavoro poiché la risposta delle forze di polizia è spesso di tipo vessatorio, sminuente e umiliante nei loro confronti – quando non direttamente violenta –, nella difficoltà poi di poter generare un movimento politico in cui le persone “possano metterci la faccia”. Il tema delle forze di polizia in Italia ma anche in altri paesi è tornato diverse volte nei discorsi delle attiviste riunite a Bologna: in generale le istituzioni, più che difendere la sicurezza delle sex workers, esposte alla violenza della strada e alla convinzione di molti clienti che il lavoro sessuale sia stupro a pagamento, sono state accusate di agire per reprimere quell’attività che garantisce loro sopravvivenza, un tetto, un reddito. Questo si esprime anche nelle numerose multe e allontanamenti che vengono giustificati tramite la misura del DASPO urbano o ordinanze specifiche che, volte a tutelare il “decoro” di particolari luoghi, finisce per esporre le persone più marginalizzate a ulteriori violenze e oppressioni.
Insieme alle narrazioni criminalizzanti dellə sex work lə attivistə rifiutano anche le narrazioni vittimizzanti che si basano sulla retorica del “non aver altra scelta”, visione che perpetua secondo loro il mantra stigmatizzante e oggettificante che impedisce sia di pensare l’autodeterminazione dellə sex workers che l’uscita dallo stigma. Questo non significa che le persone coinvolte in queste attività non abbiano coscienza delle dinamiche di sfruttamento e di potere che agiscono sui loro corpi: ad esempio nelle fantasie di sottomissione dei corpi femminili e trans da parte di uomini che agiscono in società dove la cultura maschile è segnata dalla norma del patriarcato. Non a caso fra le associazioni chiamate ad allearsi con le lotte dellə sex workers ci sono associazioni femministe, transfemministe e queer che rimettono in questione anche i modelli culturali di costruzione della mascolinità.
Tuttavia gli approcci proibizionisti e abolizionisti si sono rivelati sempre incapaci sia di difendere i diritti dellə sex workers, che di contrastare le reti criminali che sfruttano la prostituzione forzata e la tratta. Similmente, questi approcci si sono rivelati miopi nel riconoscere che il tema della scelta e dello sfruttamento non riguarda solo il lavoro sessuale, ma tutti quei lavori occupati da persone che, a causa della loro identità sociale, sono costrette a lavorare spesso in condizioni di alto sfruttamento. Chi al giorno d’oggi ha il privilegio di poter non lavorare? Allo stesso modo, moltə sex worker sottolineano come prima di entrare nell’industria sessuale erano costrettə a lavorare in ambiti nei quali vi era molto più sfruttamento, come il volantinaggio, il settore dell’abbigliamento o della ristorazione.
Fra le organizzazioni promotrici che si sono ritrovate a Bologna figurano il Mit (Movimento Identità Trans), Associazione Swipe (Sex Worker Intersectional Peer Education), lo storico Comitato per i diritti civili delle prostitute, Kinky Girls, Ombre Rosse (Collettivo Transfemminista di Sex Worker e Alleate), Padova Hardcore Swir (S3x Workers informali e ribellx), Colazione da Tiffany, ma hanno preso parola anche realtà come Amnesty International, Cgil Nuovi Diritti, Gruppo Esperte/i contro lo Sfruttamento e la Tratta, European Sex Workers’ Alliance, Progetto Oltre La Strada Emilia Romagna.
Queste associazioni e realtà contestano in Italia la proposta di legge della senatrice Maiorino, che si muove nella direzione di quello che viene definito il modello nordico (affermatosi prima in Svezia, poi in molti paesi del Nord Europa ma anche in paesi come Canada, Francia e Israele): si tratta di una legislazione che mira a mettere in atto politiche di criminalizzazione centrate sulla domanda, punire il cliente, quindi, con l’obiettivo di combattere il lavoro sessuale, considerato sempre e comunque una violenza sulle donne. Il punto è che all’interno di questo modello le donne – e tutte le soggettività coinvolte – sono riconosciute come vittime, ma non vengono interpellate nella formazione delle politiche a loro rivolte, mentre l’accento viene messo sulla connotazione fortemente negativa della compravendita di prestazioni sessuali. È dubbio inoltre che tale modello repressivo possa essere efficace nel contrasto della tratta e della prostituzione forzata: piuttosto sembra spingere lə sex workers a lavorare in situazioni di maggiore insicurezza perchè obbligatə a lavorare in luoghi più appartati, e scoraggia ancora di più il loro ricorso alle istituzioni in caso di violenza o per bisogni di salute. La pratica delle retate ricorrenti, il fingersi clienti da parte della polizia nello svolgimento delle indagini, le espulsioni dellə sex worker migranti e un modello di fatto centrato sull’ordine pubblico e non sul sostegno alle lavoratrici sono all’origine della critica dellə attivistə della proposta di legge attualmente in discussione.
Più positivamente è considerato il modello assunto dalla Nuova Zelanda, dove si può aprire regolarmente un esercizio che vende lavoro sessuale dietro richiesta alle autorità, dove nessuna autorizzazione è richiesta se le operatrici sono al massimo in quattro e operano in un rapporto paritario e le associazioni di attiviste sono coinvolte nel monitoraggio della salute e della sicurezza delle lavoratrici. Ciò che viene tuttavia contestato anche a questo modello è il fatto che lə sex worker migranti siano esclusə da questo sistema e quindi di nuovo criminalizzate e a rischio di espulsione. Similmente, indipendentemente dal quadro normativo, risulta necessario agire a livello sociale e nelle nostre relazioni, contrastando lo stigma che ruota intorno al lavoro sessuale e riconoscendo che “Sex work is work”.
Fra lə tantə sex worker che hanno preso parola durante il congresso molto forti sono quelle inviate per lettera dal carcere da una attivista ex-sex workers trans: “Sarei felicissima se questa mia testimonianza diventasse un contributo utile alla riflessione sulla nostra condizione. Ho parlato di fragilità perché la fragilità è la chiave di lettura di tutte le nostre storie e fragilità è una delle parole che mi caratterizzano di più. Sono fragile dalla nascita poiché fin dal momento in cui ho iniziato a conoscere il mio corpo beh, non mi è piaciuto. Ho provato ogni sfumatura di disagio nello stare nel mondo e nel cercare di modificare il mio corpo con risultati altalenanti. Un giorno provavo in tutti i modi ad inserirmi e a farmi accettare dalla società, l’altro non vedevo l’ora di fuggire dal mondo. Così è venuta una vita tutta su e giù, sotto il sole e sommersa. Da subito ho avuto un approccio col sex working per scelta sì, ma dettata dalle circostanze, affrettata sì, e istintiva e anche prematura. Un soffio di vento è quello che basta per sconvolgere una esistenza così evanescente, un soffio di vento perché io andassi alla deriva smarrita nel nero profondo di una notte, un soffio di vento per sbattere contro lo scoglio della certezza delle leggi, dell’inflessibilità del giudizio, del diniego della società, un soffio di vento per incagliarmi in una camera di ferro e cemento e una realtà forse più dura di quella che io posso sopportare.
(…) E qui altre fragilità. Il mio benessere è legato alla chimica delle mie cure ormonali e la mia stessa esistenza è legata alla salvaguardia dei miei diritti. Entrare in carcere significa mettere in discussione tutto questo perché è come fare un salto indietro nel tempo di 30 anni. Nessuna certezza sulle terapie ormonali, nessun supporto psicologico e medico adeguato, nessun riconoscimento. E quindi scontri con gli altri detenuti: il mio corpo diventa oggetto di desiderio sessuale da prendere con forza oppure oggetto di scherno da insultare, sminuire e umiliare con violenza. Oppure ancora generatore di odio e gelosie. Il mio corpo è il motivo per cui ho poche opportunità, perché ho poco, poche garanzie e il motivo per cui non è certa la mia riabilitazione. Sono solitudine. Mantenuta in solitudine, isolata fra gli isolati: sex worker fra i sex offender. (…) Guardo il futuro di cui non c’è certezza e chiedo il permesso di tornare nel mondo e riprendere a decidere e vivere con le mie forze”.