SERVIRE AL POPOLO
Siamo sommerse e sommersi da una marea nera.
Le ricorrenti vittorie elettorali di formazioni politiche che riattualizzano l’eredità del fascismo europeo sono solo la punta dell’iceberg. Sotto il pelo dell’acqua c’è un complesso e più ambiguo processo politico e culturale che articola il suo progetto reazionario in nome del popolo, ponendosi come suo difensore dall’assalto dei suoi nemici, che ne minerebbero l’integrità tanto materiale che morale, ormai apertamente declinata in termini di purezza etnica, normalità sessuale, omogeneità culturale, fedeltà alla tradizione religiosa, con forti tratti paranoici e millenaristi.
Di fronte a questo scenario, occorre cominciare a fare i conti prima di tutto con noi stessi. Diciamocelo con onestà: la gran parte dei gruppi politici e culturali che si oppongono a questa marea tendono a essere composti da persone che non hanno rapporti con gli strati poveri e popolari, se non in forme mediate da istituzioni che riproducono continui rapporti di inferiorità e dipendenza: i subalterni sono quasi sempre i nostri studenti e alunni, i nostri pazienti, i destinatari dei nostri progetti di reinserimento sociale, dei nostri interventi culturali o educativi. Ma siamo spesso ciechi e sordi nei loro confronti, incapaci di sentire prima ancora che di capire. Privi di curiosità verso quello che ascoltano e vedono, dell’uso che ne fanno, di come ne ricavano piacere e potenza.
Non capiamo il rapporto dei ceti subalterni con i prodotti dello spettacolo e del mercato, facciamo fatica a leggere il confine tra alienazione e contro-uso, ci sfuggono i processi di identificazione esterni alle bolle socio-culturali in cui viviamo, siamo estranei ai loro spazi di socializzazione e affermazione di sé.
Occorre allora uscire dalla bolla, tornare ad interrogarci su cosa questo popolo sia, quali i suoi bisogni e desideri, e a porci questa domanda all’incrocio fra egemonico e subalterno. Diamo per ora, a questo incrocio, scivolosissimo, il nome di popolare, senza nessuna nostalgia per un passato perduto o puro che tale non è mai stato, per cercare di capire come riannodare i fili del legame fra cultura delle classi subordinate e forme politiche dell’emancipazione e della trasformazione.
Afferrando al volo un secchio di plastica, Fulvia Antonelli ci accompagna nel districare i modi in cui i ceti intellettuali, accademici e militanti europei hanno guardato alla cultura popolare, almeno a partire dal secondo dopoguerra, e hanno dato un senso politico alle sue manifestazioni, per poter analizzare il rapporto decisivo e critico fra cultura dei ceti popolari e prodotti delle classi dominanti.
Raccontiamo poi due diverse esperienze di costruzione di saperi popolari esplicitamente orientati alla trasformazione sociale. La prima, attraverso l’incontro con una sezione di “vecchi” comunisti italiani, ci permette di tornare su quella particolare esperienza di costruzione di cultura popolare di massa che è stato il PCI. In questa sede non ci interessa ragionare sulla funzione storico-politica di quel partito, ma capire cosa abbia significato per persone provenienti da ceti popolari e proletari la lunga militanza al suo interno nel costruire il loro rapporto con il mondo. La seconda ci porta a una palestra popolare, realtà che, assieme probabilmente alle scuole di italiano, è stata la forma attraverso la quale le realtà militanti del dopo Genova e del ciclo dei centri sociali hanno tentato di costruire un legame con soggetti provenienti dalle classi marginali, soprattutto giovani e migranti. Questo ci consente anche di ragionare, attraverso la lente della pratica sportiva, sul rapporto fra neoliberismo, competizione e governo dei corpi, con la consapevolezza che proprio i corpi sono un decisivo terreno di lotta fra subalterni e dominanti.
Per concludere, Monica Dati ripercorre la storia della scuola delle 150 ore e della sua messa in discussione dei dispositivi materiali (libri di testo, programmi, metodi) e relazionali (rapporto fra studenti-lavoratori e insegnanti-militanti) della scuola di quel tempo e ancora di oggi. Questa storia ci ricorda che i saperi e le pratiche scolastiche sono culturalmente e politicamente orientate e che la cultura popolare è anche una forma di intervento strategico per la loro riappropriazione.