Sembrare va quasi bene come essere, a volte
Ancora su John Ashbery il poeta che abbiamo così amato è scomparso il 3 settembre 2017. Aveva compiuto 90 anni il 28 luglio.
Del suo ultimo libro, Commotion of the Birds (Ecco, 2016), Ben Lerner ha detto: “La scrittura di John Ashbery ha sempre trattato in modo profondo del tempo (quale poesia non ne tratta?), ma le poesie più recenti affrontano il tema della tarda età/era – ‘la vita è una storia breve breve’; ‘i saldi pantagruelici sono finiti’; ‘ne abbiamo avuto tutti / a sufficienza, in gioventù’ – in modi alquanto variati. La magnifica Strepito degli uccelli guarda all’indietro dalla ‘luce vivida dell’oggi’ a secoli di innovazione e tradizione artistica, risultando allo stesso tempo una parodia dei periodi accademici e artistici ma anche uno stupendo distillato degli stessi. Penso che la si possa classificare tra le sue poesie migliori, ma cosa importano le classifiche: se, a quasi novant’anni, Ashbery guarda all’indietro, lo fa perché si trova più avanti di noi”.
Abbiamo scelto un verso del “title-poem” della sua più recente raccolta come titolo a questa minima silloge. In questa riga, leggerezza e pesantezza sono perfettamente bilanciate in purissimo stile ashberiano. John ci consente di sorridere, godendoci la beffarda ironia di “quasi” e “a volte”, e allo stesso tempo ci incupisce facendoci pensare alla nostra era narcisistica di fakeness e gratificazione istantanea insinuando in noi l’idea che forse, forse forse, ci stia dicendo che la “Civiltà” Occidentale è condannata. E qualsiasi interpretazione scegliamo, avremo allo stesso tempo ragione e torto, come succede quando si cade nella magnifica ragnatela di Ashbery.
STREPITO DEGLI UCCELLI
Scorriamo rapidi attraverso il diciassettesimo secolo.
L’ultima parte è ok, molto più moderna
della prima. Adesso c’è la Commedia della Restaurazione.
Webster e Shakespeare e Corneille erano ok
per il loro tempo ma non moderni abbastanza,
per quanto un passo avanti rispetto al sedicesimo secolo
di Enrico VIII, Lasso e Petrus Christus, che, paradossalmente
sembrano più moderni dei loro immediati successori,
Tyndale, Moroni e Luca Marenzio tra gli altri.
Spesso è questione di sembrare piuttosto che essere moderni.
Sembrare va quasi bene come essere, a volte,
e ogni tanto va altrettanto bene. Che possa essere anche meglio
è questione che sarebbe opportuno lasciare ai filosofi
e ad altri della loro schiatta, che sanno le cose
in un modo che per gli altri è impossibile, anche se le cose
sono quasi le stesse cose che sappiamo noi.
Sappiamo, ad esempio, che Carissimi ha influenzato Charpentier,
ha misurato le proposizioni attaccandogli in coda un loop
che riporta le cose all’inizio, solo un po’
più in alto. Il loop è italiano,
importato alla corte di Francia e dapprima disprezzato,
poi accettato senza alcuna menzione della sua
origine, come i francesi sono avvezzi a fare.
Può essere che alcuni lo riconoscano
nella sua nuova veste – che può essere rimandata
a un altro secolo, quando gli storici sosterranno
che tutto è accaduto normalmente, come risultato della storia.
(Il barocco ha un modo tutto suo di rovinarci addosso,
quando pensavamo di averlo chiuso per bene nell’armadio.
Il classico lo ignora, o lo tollera blandamente.
Ha altro per la testa, di minor rilevanza,
si viene a sapere). Nondimeno, facciamo bene a crescerci insieme,
pregustando impazienti il modernismo, quando
tutto andrà per il meglio, chissà come e perché.
Fino ad allora è meglio abbandonare i nostri gusti
a qualsiasi cosa ci sembri adatta a loro: questa scarpa,
quella cinghia, un giorno giungeranno a sembrarci utili
quando la presenza pensosa del modernismo si sarà installata
dappertutto, come le planimetrie scartate di un progetto architettonico.
È bello essere moderni se si riesce a sopportarlo.
È come essere lasciati fuori sotto la pioggia, e arrivare
a capire che si è sempre stati così: moderni, fradici,
abbandonati, per quanto con quell’intuizione fuori dal comune
che ti dà coscienza di non essere mai stato destinato a essere
qualcun altro, per cui gli artefici
del modernismo verranno passati in rassegna
proprio mentre appassiscono e svaniscono nella luce vivida dell’oggi.
IL LAMENTO SULLE ACQUE
Per il discepolo non era cambiato niente. L’umore era ancora
grigia tolleranza, mentre la strada marciava con lui
cantando il suo motivetto disperato. Una volta, un grido
s’alzò improvviso uscendo dalle colline. Quell’antico, sconcertante convincimento
un’altra volta. Il sesso ne faceva parte,
come anche lo shock del giorno che si fa notte.
Per quanto trovavamo sempre qualcosa di delicato (troppo delicato
per certi gusti, forse) da toccare, da desiderare.
E tenevamo in gran conto questo genere di materialità
che congestionava il peso della luce di stella, la faceva apparire
fibrosa, eppure in ciò si trovava una chance
di vedere il presente come se non fosse mai esistito,
limpido e informe, in un’atmosfera come cristallo intagliato.
A Latour-Maubourg hai detto che era cosa buona, e sulle scale
di Métro Jasmin i corrieri ci hanno fatto cenno correttamente e il
patto è stato stretto in cielo. Ma adesso gli attimi ci circondano
come una folla, volti inquisitori, alcuni ostili,
altri enigmatici o volti altrove verso una forma anteriore del tempo
data una volta per tutte. La scia del jet incide uno svolazzo finale
che si scioglie mentre resta. Il problema non è come procedere
ma ha a che fare con l’essere: se ciò sia mai stato, e di chi
sarà. Essere al principio, solo un passo
giù dal marciapiedi, e così riattratti nella scintillante
tempesta di neve di tentacoli urticanti del come si sarebbe risolto il tutto
se mai l’avessimo risolto. E la voce gli è tornata
dall’altra riva del lago, accarezzandolo contropelo: “Tu
altro far non puoi che disfare il male che facesti”. Le sambuche
lo ingentiliscono, e noi non siamo mai un po’ più vicini alla collisione
delle acque, alla pace della luce che affoga luce,
afferrandola, sostenendola nel fluire. Tutto è uno. Sta
ovunque, il suo nuovo messaggio, colpa, l’ammissione
della colpa, il tuo nuovo modo di essere. Il tempo compra
il ricevitore, l’astante del sistema precedente, ma non può
ricomprare il resto. È la notte che è caduta
sul bordo dei tuoi passi mentre la musica finiva.
E abbiamo sentito per la prima volta le campane. La scena è tutta tua, ho detto.
AMICI
Mi piace parlare in rima
perché io stesso sono rima.
Nijinsky
Ho visto un cottage in cielo.
Ho visto una mongolfiera di piombo.
Non riesco a trattenere le lacrime, e mi scendono
sulla mano sinistra e sulla cravatta di seta
ma non posso e non voglio fermarle.
Un giorno i vicini si lamentano di uno sgradevole odore
proveniente dalla sua stanza. Sono uscito a passeggio
ma non ho incontrato neanche un amico. Un’altra volta esco
nel mondo. Trema, trema di continuo.
Tremava prima che lo vedessi
e presumibilmente lo fa ancora.
Il banchiere appoggia la mano sulla mia.
Ha la faccia linda come un fazzoletto bianco.
Parliamo di sciocchezze come al solito.
Io traccio piccoli cerchi sulla luce che entra
dalla finestra su zampe da cavalletto per segare la legna.
Poi vedo che siamo tre.
Qualcuno è entrato nella stanza mentre parlavo dei miei problemi di soldi.
Vorrei che Dio mettesse fine a tutto ciò. Io
mi giro e vedo la luna nuova oltre il vetro. Vengo strappato via
così bruscamente che mi si ferma il respiro, sensazione non sgradevole.
Mi sento come se avessi portato il messaggio per anni
sulle spalle, come Atlante, senza mai rendermene conto
dato che non ho mai conosciuto altro. In un altro senso
io ho a che fare con il messaggio. Voglio metterlo giù
(nei due sensi di “metterlo giù”) in modo che tu
possa comprendere il gradevole destino che ci attende.
Sospiri. I tuoi sospiri non lasciano adito ad alcuna impazienza,
solo un vasto lago vulcanico, vasto quanto il mare,
in cui il cielo, più piccolo di così, si riflette.
Prendo il cappello
e sono tenuto a ripetere con tatto
il saluto formale di cui sono incaricato.
Nessuno fa errori. Nessuno fugge
ormai. Mi mordo il labbro e
mi volto verso di te. Forse adesso capisci.
Il sentimento è un gioiello come una perla.
SONATA AZZURRA
Tanto tempo fa l’allora ha cominciato a somigliare all’ora
dato che l’ora non è altro che intraprendere una nuova ma purtuttavia
indefinita strada. Quell’ora, quella una volta
vista da molto lontano, è il nostro destino
a dispetto di cos’altro possa mai succederci. È
il passato prossimo di cui i nostri tratti,
le nostre opinioni, sono fatti. Noi ne siamo la metà e
non ci importa niente del resto. Noi
riusciamo a vedere avanti quanto basta perché il resto di noi sia
implicito nei dintorni che il crepuscolo è.
Sappiamo che questa parte del giorno arriva ogni giorno
e sentiamo che, dato che ha i suoi diritti, così
noi abbiamo il diritto di essere noi stessi nella misura
in cui noi siamo in esso e non in qualche altro giorno, né in
qualche altro posto. Il tempo ci va bene
proprio nel modo in cui esso pensa se stesso, ma solo fino al punto
in cui noi non cediamo nemmeno di un centimetro, respiro
del divenire prima che il divenire possa esser visto,
o che arrivi a sembrare ciò che sembra significare ora.
Le cose che stavano giungendo perché se ne parlasse
sono giunte e ripartite e vengono ancora ricordate
come recenti. C’è un granello di curiosità
alla base di qualche cosa nuova, che dispiega
il suo punto di domanda come una nuova onda sulla riva.
Nel giungere a dare, a rinunciare a ciò che avevamo,
abbiamo, così ci pare, guadagnato o siamo stati guadagnati
da ciò che stava passando, lucente della patina
di cose recentemente dimenticate e rinfocolate.
Ogni immagine trova il posto giusto, con la calma
di non averne troppe, di averne proprio quanto basta.
Viviamo nel gemito del nostro presente.
Se ciò era tutto ciò che c’era da avere
allora potevamo ri-immaginare l’altra metà, deducendola
dalla forma di ciò che si vede, che così
viene inclusa nella propria idea di come noi
avremmo dovuto procedere. Sarebbe tragico calzare a pennello
nello spazio creato dal nostro non essere ancora arrivati,
proferire il discorso che appartiene a quel luogo,
perché il progresso ha luogo attraverso la reinvenzione
di queste parole da un fioco ricordo che se ne ha,
violando quello spazio in modo tale da
lasciarlo intatto. Eppure dopo tutto
qui ci stiamo bene, e abbiamo coperto una considerevole
distanza; il nostro passare è una facciata.
Ma la nostra comprensione di esso è giustificata.