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Sembrare va quasi bene come essere, a volte

Ancora su John Ashbery il poeta che abbiamo così amato è scomparso il 3 settembre 2017. Aveva compiuto 90 anni il 28 luglio.

23 Ottobre 2019
John Ashbery

Ancora su John Ashbery il poeta che abbiamo così amato è scomparso il 3 settembre 2017. Aveva compiuto 90 anni il 28 luglio.

Del suo ultimo libro, Commotion of the Birds (Ecco, 2016), Ben Lerner ha detto: “La scrittura di John Ashbery ha sempre trattato in modo profondo del tempo (quale poesia non ne tratta?), ma le poesie più recenti affrontano il tema della tarda età/era – ‘la vita è una storia breve breve’; ‘i saldi pantagruelici sono finiti’; ‘ne abbiamo avuto tutti / a sufficienza, in gioventù’ – in modi alquanto variati. La magnifica Strepito degli uccelli guarda all’indietro dalla ‘luce vivida dell’oggi’ a secoli di innovazione e tradizione artistica, risultando allo stesso tempo una parodia dei periodi accademici e artistici ma anche uno stupendo distillato degli stessi. Penso che la si possa classificare tra le sue poesie migliori, ma cosa importano le classifiche: se, a quasi novant’anni, Ashbery guarda all’indietro, lo fa perché si trova più avanti di noi”.

Abbiamo scelto un verso del “title-poem” della sua più recente raccolta come titolo a questa minima silloge. In questa riga, leggerezza e pesantezza sono perfettamente bilanciate in purissimo stile ashberiano. John ci consente di sorridere, godendoci la beffarda ironia di “quasi” e “a  volte”, e allo stesso tempo ci incupisce facendoci pensare alla nostra era narcisistica di fakeness e gratificazione istantanea insinuando in noi l’idea che forse, forse forse, ci stia dicendo che la “Civiltà” Occidentale è condannata. E qualsiasi interpretazione scegliamo, avremo allo stesso tempo ragione e torto, come succede quando si cade nella magnifica ragnatela di Ashbery.

STREPITO DEGLI UCCELLI

Scorriamo rapidi attraverso il diciassettesimo secolo.

L’ultima parte è ok, molto più moderna

della prima. Adesso c’è la Commedia della Restaurazione.

Webster e Shakespeare e Corneille erano ok

per il loro tempo ma non moderni abbastanza,

per quanto un passo avanti rispetto al sedicesimo secolo

di Enrico VIII, Lasso e Petrus Christus, che, paradossalmente

sembrano più moderni dei loro immediati successori,

Tyndale, Moroni e Luca Marenzio tra gli altri.

Spesso è questione di sembrare piuttosto che essere moderni.

Sembrare va quasi bene come essere, a volte,

e ogni tanto va altrettanto bene. Che possa essere anche meglio

è questione che sarebbe opportuno lasciare ai filosofi

e ad altri della loro schiatta, che sanno le cose

in un modo che per gli altri è impossibile, anche se le cose

sono quasi le stesse cose che sappiamo noi.

Sappiamo, ad esempio, che Carissimi ha influenzato Charpentier,

ha misurato le proposizioni attaccandogli in coda un loop

che riporta le cose all’inizio, solo un po’

più in alto. Il loop è italiano,

importato alla corte di Francia e dapprima disprezzato,

poi accettato senza alcuna menzione della sua

origine, come i francesi sono avvezzi a fare.

Può essere che alcuni lo riconoscano

nella sua nuova veste – che può essere rimandata

a un altro secolo, quando gli storici sosterranno

che tutto è accaduto normalmente, come risultato della storia.

(Il barocco ha un modo tutto suo di rovinarci addosso,

quando pensavamo di averlo chiuso per bene nell’armadio.

Il classico lo ignora, o lo tollera blandamente.

Ha altro per la testa, di minor rilevanza,

si viene a sapere). Nondimeno, facciamo bene a crescerci insieme,

pregustando impazienti il modernismo, quando

tutto andrà per il meglio, chissà come e perché.

Fino ad allora è meglio abbandonare i nostri gusti

a qualsiasi cosa ci sembri adatta a loro: questa scarpa,

quella cinghia, un giorno giungeranno a sembrarci utili

quando la presenza pensosa del modernismo si sarà installata

dappertutto, come le planimetrie scartate di un progetto architettonico.

È bello essere moderni se si riesce a sopportarlo.

È come essere lasciati fuori sotto la pioggia, e arrivare

a capire che si è sempre stati così: moderni, fradici,

abbandonati, per quanto con quell’intuizione fuori dal comune

che ti dà coscienza di non essere mai stato destinato a essere

qualcun altro, per cui gli artefici

del modernismo verranno passati in rassegna

proprio mentre appassiscono e svaniscono nella luce vivida dell’oggi.

IL LAMENTO SULLE ACQUE

Per il discepolo non era cambiato niente. L’umore era ancora

grigia tolleranza, mentre la strada marciava con lui

cantando il suo motivetto disperato. Una volta, un grido

s’alzò improvviso uscendo dalle colline. Quell’antico, sconcertante convincimento

un’altra volta. Il sesso ne faceva parte,

come anche lo shock del giorno che si fa notte.

Per quanto trovavamo sempre qualcosa di delicato (troppo delicato

per certi gusti, forse) da toccare, da desiderare.

E tenevamo in gran conto questo genere di materialità

che congestionava il peso della luce di stella, la faceva apparire

fibrosa, eppure in ciò si trovava una chance

di vedere il presente come se non fosse mai esistito,

limpido e informe, in un’atmosfera come cristallo intagliato.

A Latour-Maubourg hai detto che era cosa buona, e sulle scale

di Métro Jasmin i corrieri ci hanno fatto cenno correttamente e il

patto è stato stretto in cielo. Ma adesso gli attimi ci circondano

come una folla, volti inquisitori, alcuni ostili,

altri enigmatici o volti altrove verso una forma anteriore del tempo

data una volta per tutte. La scia del jet incide uno svolazzo finale

che si scioglie mentre resta. Il problema non è come procedere

ma ha a che fare con l’essere: se ciò sia mai stato, e di chi

sarà. Essere al principio, solo un passo

giù dal marciapiedi, e così riattratti nella scintillante

tempesta di neve di tentacoli urticanti del come si sarebbe risolto il tutto

se mai l’avessimo risolto. E la voce gli è tornata

dall’altra riva del lago, accarezzandolo contropelo: “Tu

altro far non puoi che disfare il male che facesti”. Le sambuche

lo ingentiliscono, e noi non siamo mai un po’ più vicini alla collisione

delle acque, alla pace della luce che affoga luce,

afferrandola, sostenendola nel fluire. Tutto è uno. Sta

ovunque, il suo nuovo messaggio, colpa, l’ammissione

della colpa, il tuo nuovo modo di essere. Il tempo compra

il ricevitore, l’astante del sistema precedente, ma non può

ricomprare il resto. È la notte che è caduta

sul bordo dei tuoi passi mentre la musica finiva.

E abbiamo sentito per la prima volta le campane. La scena è tutta tua, ho detto.

AMICI

Mi piace parlare in rima

perché io stesso sono rima.

Nijinsky

Ho visto un cottage in cielo.

Ho visto una mongolfiera di piombo.

Non riesco a trattenere le lacrime, e mi scendono

sulla mano sinistra e sulla cravatta di seta

ma non posso e non voglio fermarle.

Un giorno i vicini si lamentano di uno sgradevole odore

proveniente dalla sua stanza. Sono uscito a passeggio

ma non ho incontrato neanche un amico. Un’altra volta esco

nel mondo. Trema, trema di continuo.

Tremava prima che lo vedessi

e presumibilmente lo fa ancora.

Il banchiere appoggia la mano sulla mia.

Ha la faccia linda come un fazzoletto bianco.

Parliamo di sciocchezze come al solito.

Io traccio piccoli cerchi sulla luce che entra

dalla finestra su zampe da cavalletto per segare la legna.

Poi vedo che siamo tre.

Qualcuno è entrato nella stanza mentre parlavo dei miei problemi di soldi.

Vorrei che Dio mettesse fine a tutto ciò. Io

mi giro e vedo la luna nuova oltre il vetro. Vengo strappato via

così bruscamente che mi si ferma il respiro, sensazione non sgradevole.

Mi sento come se avessi portato il messaggio per anni

sulle spalle, come Atlante, senza mai rendermene conto

dato che non ho mai conosciuto altro. In un altro senso

io ho a che fare con il messaggio. Voglio metterlo giù

(nei due sensi di “metterlo giù”) in modo che tu

possa comprendere il gradevole destino che ci attende.

Sospiri. I tuoi sospiri non lasciano adito ad alcuna impazienza,

solo un vasto lago vulcanico, vasto quanto il mare,

in cui il cielo, più piccolo di così, si riflette.

Prendo il cappello

e sono tenuto a ripetere con tatto

il saluto formale di cui sono incaricato.

Nessuno fa errori. Nessuno fugge

ormai. Mi mordo il labbro e

mi volto verso di te. Forse adesso capisci.

Il sentimento è un gioiello come una perla.

SONATA AZZURRA

Tanto tempo fa l’allora ha cominciato a somigliare all’ora

dato che l’ora non è altro che intraprendere una nuova ma purtuttavia

indefinita strada. Quell’ora, quella una volta

vista da molto lontano, è il nostro destino

a dispetto di cos’altro possa mai succederci. È

il passato prossimo di cui i nostri tratti,

le nostre opinioni, sono fatti. Noi ne siamo la metà e

non ci importa niente del resto. Noi

riusciamo a vedere avanti quanto basta perché il resto di noi sia

implicito nei dintorni che il crepuscolo è.

Sappiamo che questa parte del giorno arriva ogni giorno

e sentiamo che, dato che ha i suoi diritti, così

noi abbiamo il diritto di essere noi stessi nella misura

in cui noi siamo in esso e non in qualche altro giorno, né in

qualche altro posto. Il tempo ci va bene

proprio nel modo in cui esso pensa se stesso, ma solo fino al punto

in cui noi non cediamo nemmeno di un centimetro, respiro

del divenire prima che il divenire possa esser visto,

o che arrivi a sembrare ciò che sembra significare ora.

Le cose che stavano giungendo perché se ne parlasse

sono giunte e ripartite e vengono ancora ricordate

come recenti. C’è un granello di curiosità

alla base di qualche cosa nuova, che dispiega

il suo punto di domanda come una nuova onda sulla riva.

Nel giungere a dare, a rinunciare a ciò che avevamo,

abbiamo, così ci pare, guadagnato o siamo stati guadagnati

da ciò che stava passando, lucente della patina

di cose recentemente dimenticate e rinfocolate.

Ogni immagine trova il posto giusto, con la calma

di non averne troppe, di averne proprio quanto basta.

Viviamo nel gemito del nostro presente.

Se ciò era tutto ciò che c’era da avere

allora potevamo ri-immaginare l’altra metà, deducendola

dalla forma di ciò che si vede, che così

viene inclusa nella propria idea di come noi

avremmo dovuto procedere. Sarebbe tragico calzare a pennello

nello spazio creato dal nostro non essere ancora arrivati,

proferire il discorso che appartiene a quel luogo,

perché il progresso ha luogo attraverso la reinvenzione

di queste parole da un fioco ricordo che se ne ha,

violando quello spazio in modo tale da

lasciarlo intatto. Eppure dopo tutto

qui ci stiamo bene, e abbiamo coperto una considerevole

distanza; il nostro passare è una facciata.

Ma la nostra comprensione di esso è giustificata.

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