Scuola e università: perché preferire il software libero

Il tramonto del sogno degli anni Settanta
Nella seconda metà degli anni Settanta, in una serie di studi approfonditi sulla realtà mondiale, personaggi molto noti della cultura, della politica e dell’industria intravidero nell’avvento delle tecnologie dell’informazione un’opportunità di progresso per i paesi in via di sviluppo. Ricordiamo, ad esempio, il rapporto Brandt, titolato Nord-Sud: un programma per la sopravvivenza, promosso da McNamara, allora presidente della Banca Mondiale; il memoriale Mitsubishi, frutto di un lavoro congiunto di alcune decine di studiosi occidentali e giapponesi; due rapporti al Club di Parigi e al Club di Roma di Peccei; il famoso volume La sfida mondiale di Jean Jacques Servan-Schreiber. Quei rapporti furono tutti caratterizzati da un grande ottimismo, ispirato dalla constatazione che le tecnologie dell’informazione hanno un contenuto intrinseco di materie prime ed energia praticamente trascurabile. Essendo il contenuto di quelle tecnologie puramente intellettuale ed essendo l’intelligenza umana distribuita nella stessa misura su tutti i popoli della terra, come aveva affermato Cartesio, le stesse opportunità di sviluppo tecnologico ed economico avrebbero dovuto aprirsi al paese ricco e a quello povero.
Sfortunatamente quel sogno non si è avverato. Già nei primi anni del nuovo millennio, i rapporti Ocse non soltanto rilevavano che il divario tecnologico, industriale ed economico fra Paesi ricchi e Paesi poveri non era diminuito, e anzi era cresciuto, ma anche osservavano che era molto aumentata la differenza del reddito dei cittadini ricchi e dei cittadini poveri in tutti i paesi, compresi quelli ricchi. Negli ultimi venti anni quel divario tecnologico, industriale ed economico si è ulteriormente aggravato e, sfortunatamente, riguarda non soltanto i così detti “paesi poveri” ma anche il nostro Paese, che pertanto potrebbe essere definito come “paese in via di sottosviluppo”. Ad esempio, secondo l’indice Desi (“Digital Economic and Society Index”) relativo alla classifica dei livelli di digitalizzazione dei 28 paesi europei l’Italia occupa la 25esima posizione.
Quel declino ha complesse motivazioni economiche, nel caso dell’Italia anche motivazioni culturali che meritano una difficile analisi futura. Quelle motivazioni contengono anche la spiegazione delle ragioni per le quali l’oggetto di questo articolo, il software libero, potrebbe divenire la fonte di una nuova fondamentale rivoluzione mondiale di natura culturale ed economica.
Motivazioni economiche del software libero
Nei primi decenni della storia dell’industria informatica era attivo un grande mercato dello hardware, ma non esisteva un mercato del software. I programmi venivano scritti su commessa e venivano regalati insieme allo hardware che era stato venduto. Poi nacque il mercato del software, i cui diritti furono formalizzati nel “Computer Software Copyright Act” del 12 dicembre del 1980. Sostanzialmente questo atto era una revisione legislativa del “Copyright Act” del 1876 che rappresentava la nascita del cosidetto “diritto d’autore”.
Il software libero nasce tre anni più tardi, nel 1983. Padrino del suo battesimo fu Richard Matthew Stallman, un ricercatore del leggendario laboratorio di Intelligenza Artificiale del Mit. In quell’anno Richard Stallman svolgeva le funzioni di sistemista del calcolatore del laboratorio e Xerox forniva i servizi di una grossa stampante (9700 Dover) a tutti i gruppi di ricerca del laboratorio. Stallman prese consapevolezza dei disservizi di quella stampante; ad esempio spesso si manifestavano congestioni nelle code di stampa per cui egli pensò che quei problemi avrebbero potuto essere risolti con piccole modifiche del codice della stampante. Pertanto Stallman chiese alla Xerox il codice sorgente per integrarlo con alcune nuove linee di codice, ma l’azienda rifiutò in forza dello “US Software Copyright Act”. Quel rifiuto indusse Stallman a comprendere che la posizione dei venditori di software proprietario di vietare ogni modifica di un prodotto era contrario agli interessi dei cittadini, alla collaborazione e all’apprendimento. Pertanto egli propose il concetto di software libero come manifestazione della conoscenza libera, patrimonio collettivo dell’umanità.
Nel settembre di quello stesso 1983 Stallman annunciò l’avvio di un progetto di ricerca finalizzato allo sviluppo di un sistema operativo libero, concorrente con il noto sistema operativo proprietario “Unix” della A.T.&T. Il nuovo sistema operativo fu chiamato Gnu sulla base della seguente definizione ricorsiva (in linea con una tradizione “hacker”): “Gnu is Not Unix”. Ossia: “Gnu non è lo Unix della A.T.&T., ma è compatibile con questo”. Poco dopo Stallman fondò una organizzazione “no profit” chiamata “Free Software Foundation”, con l’obiettivo di dare una infrastruttura legale al movimento del software libero. Nell’ambito di questa organizzazione Stallman pose le basi teoriche per il perseguimento degli obiettivi del movimento. Al centro dell’ideologia di Stallman stanno quattro libertà fondamentali: 1) la libertà di eseguire il programma in qualunque contesto, per qualsiasi scopo; 2) la libertà di studiare come funziona il programma e di modificarlo in modo da adattarlo alle proprie esigenze; 3) la libertà di ridistribuire copie del programma al fine di aiutare altri programmatori; 4) la libertà di migliorare il programma e di distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo che tutti ne traggano beneficio.
Ovviamente, l’esercizio della seconda e della quarta proprietà impone che il codice sorgente di qualunque programma sia sempre disponibile. Pertanto un programma di software libero può essere venduto e/o sviluppato su commessa a pagamento. Stallman sintetizza questo concetto con la seguente affermazione: Free as in “free speech” (fondamento della costituzione americana), not as in “free beer”, ossia “free come in ‘parola libera’, non come in ‘birra gratis’”.
La storia del software libero in Italia inizia nel 2003. In quell’anno il ministro Lucio Stanca del secondo governo Berlusconi costituì una commissione col compito di indagare sulle opportunità, per la pubblica amministrazione centrale e periferica e in particolare per la scuola, rappresentate dall’avvento del software libero. Il Ministro affidò all’autore di questo articolo il compito di presiedere quella commissione, probabilmente come premio per il libro che aveva scritto con Mariella Berra sul tema “Informatica solidale”, libro che simpaticamente il ministro chiamava “Libretto rosso di Meo”, visto come seguito del più noto Libretto rosso di Mao.
Proprio la questione della sicurezza fu al centro di una riflessione favorevole al software libero e contraria al software proprietario. Infatti pochi giorni prima del dibattito era stato segnalato che il codice di un noto prodotto proprietario conteneva una “backdoor” (o “porta di servizio”) attraverso la quale l’autore del prodotto poteva segretamente accedere all’informazione relativa alla pubblica amministrazione. Per evitare questo tipo di pericolo la commissione richiese che l’offerta di qualunque prodotto proprietario contenesse anche il codice sorgente del prodotto stesso in modo tale da consentire il controllo dell’assenza di “backdoor”.
La proposta centrale che la commissione suggerì al ministro riguardava la valutazione comparativa fra software libero e software proprietario dal duplice punto di vista tecnico ed economico. Inoltre la commissione propose che un prodotto finalizzato a uno specifico ambito applicativo di una pubblica amministrazione fosse pagato una volta sola e quindi potesse essere ridistribuito, in tutto o in parte, ad altre amministrazioni interessate. Infine si suggerì che gli standard dei documenti e dei dati relativi alle interazioni fra le pubbliche amministrazioni centrali e periferiche fossero aperti. Questi oggetti, la documentazione relativa e soprattutto i codici sorgente dei programmi liberi si propose dovessero costituire un nuovo grande archivio liberamente consultabile dalle pubbliche amministrazioni.
Dal lavoro della commissione derivarono gli articoli 68 e 69 della legge 82/05 nota come Cad o “codice dell’amministrazione digitale”, che si riportano qui sinteticamente:
Art. 68 – Analisi comparativa delle soluzioni
- Le pubbliche amministrazioni: acquisiscono, secondo le procedure previste dall’ordinamento, programmi informatici a seguito di una valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico tra le seguenti soluzioni disponibili sul mercato:
a) sviluppo di programmi informatici per conto e a spese dell’amministrazione;
b) riuso di programmi informatici sviluppati per conto e a spese della medesima o di altre amministrazioni;
c) acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso;
d) acquisizione di programmi informatici a codice sorgente aperto;
e) acquisizione mediante combinazione delle modalità di cui alle lettere da a) a d) - Le pubbliche amministrazioni, nella predisposizione o nell’acquisizione dei programmi informatici, adottano soluzioni informatiche che assicurino l’interoperabilità e la cooperazione cooperativa secondo quanto previsto dal decreto legislativo…, e che consentano la rappresentazione dei dati e documenti in più formati, di cui almeno uno di tipo aperto, salvo che ricorrono peculiari ed eccezionali esigenze.
Art. 69 – Riuso dei programmi informatici
- Le pubbliche amministrazioni che siano titolari di programmi applicativi realizzati su specifiche indicazioni del committente pubblico hanno obbligo di darli in formato sorgente, completi della documentazione disponibile, in uso gratuito ad altre pubbliche amministrazione che li richiedano e che intendano adattarli alle proprie esigenze, salvo motivate ragioni.
La motivazione principale dei due articoli è di natura economica, essendo rappresentata dalla finalità del legislatore di risparmiare una spesa della pubblica amministrazione e di migliorare la bilancia commerciale del Paese. Un secondo obiettivo è il controllo della qualità, messa a rischio dalle possibili presenze di “backdoor”. Un terzo obiettivo è la qualità della didattica, sopratutto nell’area dell’informatica, non essendo sufficiente, ad esempio, imparare l’uso di un programma, come suggerito dalle multinazionali del software, ma essendo assolutamente necessario studiare il codice sorgente per apportare eventuali modifiche e sopratutto per imparare la programmazione. È vero che talvolta l’uso di un programma è concesso gratuitamente, ma generalmente quel programma richiede ampliamenti futuri molto costosi. Ad esempio, alcuni programmi per la didattica a distanza sono gratuiti per classi con pochi allievi, ma diventano costosissimi per classi numerose.
La legge 82/05 non produsse i risultati sperati. Ad esempio, nel 2006 il sistema economico italiano registrò importazioni di prodotti software proprietari per un valore dell’ordine di un miliardo di dollari ed esportazioni di un valore trascurabile. Per questa ragione il governo costituì una seconda commissione con il compito di identificare strumenti e procedure di carattere pratico per promuovere lo sviluppo del software libero. Gli obiettivi di una nuova commissione furono definiti dalla senatrice Magnolfi nei termini seguenti: 1) Sostenere la diffusione del software libero all’interno delle pubbliche amministrazioni centrali e periferiche; 2) Elaborare linee guida normative, supporti tecnici, gruppi di eccellenza; 3) Tutelare i responsabili dei sistemi informativi che scegliessero software libero; 4) Potenziare le community di software libero; 5) Creare sinergie con i ministri dell’industria e della scuola; 6) Aggiornare eventualmente la legge 82/05, ossia il codice dell’amministrazione digitale.
La commissione produsse un rapporto di 300 pagine, ma a questo punto scattò la maledizione di Bill Tutankhamon secondo la quale qualunque uomo pubblico si occupi favorevolmente di software libero è destinato a una immediata scomparsa dalla scena politica. Il governo cadde e fu nominato un nuovo ministro che dichiarò che l’argomento non era di alcun interesse per lui, si rifiutò di ricevere i membri della commissione e buttò il loro rapporto nel cestino.
Il codice dell’amministrazione digitale fu ritoccato varie volte nell’arco della storia. La leggina più favorevole al software libero, opera di un paio di peones che avevano approfittato della sonnolenza prodotta dall’elevata temperatura nell’aula, fu la legge 134/2012 che recitava:
L’acquisto di software in licenza proprietaria sarà possibile soltanto quando la valutazione comparativa abbia dimostrato l’impossibilità di accedere a soluzioni in software libero o già sviluppate dalla pubblica amministrazione ad un prezzo inferiore.
La legge 82/05 è tuttora vigente ma, come altri decreti o leggi, è volutamente ignorata dalle pubbliche amministrazioni e dalla scuole italiane. Ciò è possibile in virtù del fatto che non sono previste sanzioni per le violazioni di quella legge. Comunque, secondo alcuni giuristi della parrocchia del software libero, è teoricamente possibile che il dirigente scolastico di una scuola o il rettore di una università siano chiamati a rispondere delle sue scelte dalla Corte dei Conti del nostro Paese.
La didattica a distanza
Attualmente lo scenario mondiale del software per la pubblica amministrazione e la scuola ha un dominatore assoluto. Il suo nome, Gafam, specifica le iniziali dei nomi di cinque grandi aziende mondiali (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft). La capitalizzazione, ossia il valore sul mercato, delle Gafam è più del triplo del Pil italiano, che è la somma dei valori di tutti i prodotti e servizi venduti in un anno nel nostro Paese e che vale poco più di 1.650 miliardi di euro. Questo valore dei Gafam, assolutamente incredibile pochi anni fa, deriva dal dominio di quelle imprese su un mercato nuovissimo, il mercato dei dati.
Per l’attuazione della didattica a distanza e, più in generale, per l’insegnamento dell’informatica, la grande maggioranza delle scuole italiane ha adottato i prodotti Gafam. Ora il demonio si sta adoperando per aggiungere una “z” alla sigla Gafam, che pertanto diventerà Gafamz. Infatti, negli ultimi due anni è esplosa l’importanza economica di Zoom, l’azienda americana che offre al mercato la seconda, dopo Google in ordine di importanza economica, delle piattaforme per le videoconferenze e le videolezioni. In virtù di 300 milioni di utenti al giorno e un fatturato dell’ordine di 700 milioni di dollari al trimestre, il valore in borsa di Zoom ha raggiunto 150 miliardi di dollari, pari alla somma dei valori delle sette più importanti aziende aeronautiche del mondo.
Parallelamente è esploso il terribile fenomeno chiamato zoombombing. Un malintenzionato, oppure, più spesso, un gruppo di malintenzionati, si infiltra in una videoconferenza o videolezione al fine di arricchirla di insulti ignobili, di immagini o filmati pornografici, di messaggi politici impresentabili. Negli ultimi mesi sono stati oggetto di zoombombing, secondo i quotidiani, una conferenza femminista, una manifestazione in ricordo dell’Olocausto, un dibattito sul ruolo della Cina nella società moderna. Lo zoombombing ha colpito anche moltissime lezioni scolastiche e sono stati introdotti filmati o immagini pedopornografiche durante lezioni per bambini della scuola primaria. Inoltre, secondo “New York Times”, Zoom contiene gli strumenti per l’acquisizione e il trasferimento ad altri soggetti di dati personali degli utenti. In considerazione dei problemi rappresentati dallo zoombombing e dai pericoli della violazione dei dati personali, il Senato degli Usa, i governi di Australia, Germania, India, Taiwan, il noto Federal Bureau of Investigation e molte imprese internazionali vietano ai loro cittadini o dipendenti l’uso di Zoom. In Italia quasi un terzo delle scuole adotta Zoom per la didattica a distanza.
Comunque, l’adozione di tutti i prodotti che dominano attualmente il mercato della Dad (in particolare, prodotti statunitensi) è severamente vietata dalle norme nazionali e comunitarie per la protezione dei dati personali. Un esempio significativo e molto importante è rappresentato dalla nota sentenza chiamata “Schrem II” della Corte di Giustizia Europea. Come è noto, il ricercatore Edward Snowden aveva rivelato che Facebook e altri operatori sulla Rete partecipavano al programma Prism, attivato dal governo degli Stati Uniti per la sorveglianza di massa. Sulla base di quelle informazioni, nell’anno 2013 Maximilian Schrem, un attivista austriaco, presentò una denuncia al garante della protezione dei dati personali. Si aprì una prima fase di dibattito che si chiuse nel 2016 con la firma di un accordo chiamato “Privacy Shield” che consentiva alle autorità statunitensi l’uso di dati personali provenienti dall’Unione Europea a condizioni relativamente severe. Schrem non si rassegnò e continuò la sua battaglia legale sino alla vittoria completa, ottenuta nel luglio 2020, quando la Corte di Giustizia Europea produsse la nota sentenza Schrem II che dichiarava “non valido” l’accordo Privacy Shield. Per il momento, questa sentenza, particolarmente grave per i prodotti statunitensi più importanti della Dad come Google, Zoom, Microsoft, è generalmente ignorata, forse anche per la promessa, di controllo forse impossibile, di non trasferire negli Usa i dati raccolti.
Un’unica eccezione alla regola della impunibilità dei prodotti dominanti è la recente decisione del Gpdp (Garante per la protezione dei dati personali) italiano, che ha inflitto all’Università Bocconi una ammenda da 200mila euro per aver utilizzato un prodotto proprietario americano per effettuare esami in remoto. Quel prodotto chiamato, chiamato Respondus Monitor, consentiva, nel contesto dell’emergenza epidemiologica da Covid, lo svolgimento degli esami universitari a distanza con “l’obiettivo di assicurare garanzie il più possibile equivalenti a quelle previste per gli esami in presenza”.
Conclusione
Molti studiosi ritengono che oggi l’informatica libera rappresenti l’unico strumento disponibile per il progresso tecnologico ed economico dei Paesi poveri e anche di un Paese come il nostro. Per questa ragione alcune norme di legge italiane e/o comunitarie impongono l’adozione di software libero in sostituzione del software proprietario. Sfortunatamente, quelle norme sono spesso disattese e, nell’area della scuola, sono volutamente e dichiaratamente ignorate (rimando al bellissimo articolo di Stefano Zoia La scuola italiana al mercato dei dati. Così il controllo sulla didattica rafforza lo strapotere delle multinazionali, “Altreconomia”).
Temo che la grande maggioranza dei dirigenti scolastici che hanno adottato software proprietario non sappia dove trovare una adeguata relazione comparativa che giustifichi la scelta e non disponga di dati importanti in un formato aperto. Di conseguenza quei dirigenti scolastici non potrebbero difendersi dalle accuse di “danno erariale” provenienti da un magistrato della Corte dei Conti. Quasi tutti i dirigenti scolastici e molti rettori di università potrebbero essere colpiti da pesantissime sanzioni del Garante della protezione dei dati personali.
L’analisi della realtà induce a pensare che le accuse di danno erariale e le sanzioni del Gpdp siano attualmente molto improbabili. Tuttavia, per scelte politiche diverse la realtà potrebbe cambiare nell’arco di pochi giorni. A quel punto la giustificazione “così fanno tutti” non potrebbe essere giustificata perché i testi delle leggi vigenti sono molto chiari.
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