La scuola e la lingua, una crisi decisiva
Per alcuni giorni ho pensato davvero che sarebbe stato opportuno mettersi a discutere il nuovo Rapporto della Fondazione Agnelli sulla scuola secondaria di primo grado, tornare a osservare l’impianto della ricerca, il linguaggio in cui è presentata, le prospettive politiche e ideologiche sottese alla parte sia descrittiva che propositiva. Tornare perché nel 2011 – per il cinquantenario della legge istitutiva della media unica – un Rapporto sullo stesso tema e dallo stesso titolo era stato stampato da Laterza e chi si interessava alla scuola della preadolescenza doveva acquistarlo e studiarlo se non altro per la notevole raccolta di dati. Questo ultimo, diffuso a fine settembre, è gratuito, on line e si consulta in una studiata veste infografica che permette, scrollando e cliccando, di attraversalo tutto rapidamente, con commenti ai grafici che risparmiano ogni sforzo di lettura.
Il volume del 2011 era accompagnato da 21 slide, il Rapporto di oggi – oltre alla infografica interattiva animata – ha una versione in 40 slide mentre le pagine sono passate da 167 a solo 87. Se voglio posso riprendere il volume Laterza e nelle sottolineature e appunti ritrovare il lavoro di decostruzione fatto, rintracciando il discorso sul capitale umano e la prefigurazione di assetti sociali che premeva agli autori e committenti. Sulla versione scroll e su quella impaginata on line di oggi diventa meno interessante l’analisi sul linguaggio: le porzioni testuali sono ridotte e meno complesse, concetti e definizioni, su cui si esercitano critica e interpretazione, sono meno complessi. Tutta una parte importante sulla ricerca dedicata all’early tracking è scomparsa senza neanche una citazione, di classi e istituti eterogeni per composizione sociale non si parla più.
Per il resto, come premettono gli estensori, molti fatti restano immutati e indubitabili: nella fotografia scattata dopo dieci anni si riconoscono il vissuto di infelicità da parte di studentesse e studenti; la funzione selettiva e discriminatoria; l’abbassamento scandaloso rispetto ai livelli europei medi di apprendimento in matematica che si verifica tra la primaria e la secondaria di primo grado. Insomma la FGA ci ha dato un Rapporto meno elaborato e studiato, che offre meno spunti di riflessione e di critica ma che vuole riportare l’attenzione del dibattito pubblico sulla scuola della preadolescenza e sulle proposte e richieste di cambiamento elaborate nei think tank confindustriali. Non abbiamo bisogno dei soldi della FGA che pagano dati e infografiche per discutere di un’altra scuola “media”.
Sono decenni che una minoranza di insegnanti e ricercatrici/ricercatori ripete la stessa cosa: la scuola della preadolescenza nasce nel dibattito politico come scuola della cittadinanza. È la scuola che inizia al sapere astratto e alla interpretazione delle regole e delle leggi nella società, pedagogicamente le opere di Montessori e Dolto (da Rousseau) ci indicano la metafora del neonato sociale: la il preadolescente che apre gli occhi sulle differenze sociali e si misura con le dicotomie politiche ed etiche, ricco/povero, giusto/ingiusto, sano/malato, bianco/nero, maschio/femmina.
Gli preme farlo e può farlo (abbiamo anche la conferma neuroscientifica) con gli strumenti cognitivi che lo sviluppo affina: formulazioni ipotetiche, strutture ipotattiche, pensiero formale. Ciò si accompagna a modificazioni corporee importantissime che comportano un bisogno accresciuto di movimento e vere e proprie esplosioni di energia fisica. Ci vorrebbero scuole che siano luoghi di vita, presidiate da più figure professionali dell’educazione e dell’istruzione, con relazioni e scambi con i luoghi del lavoro dell’arte e della politica.
Nella scuola di massa delle democrazie industriali avanzate super popolate dell’antropocene il modello disciplinare della scuola convento della meditazione e del controllo fisico è finito, appartiene a un altro evo, ha un paradigma con cui non abbiamo più interesse al confronto. Anche il correlato di quel modello di ascesi ed elevazione, la scuola operaia della cultura addestrativa degli anni Sessanta e Settanta non ci riguarda più. Non c’è promessa di prosperità e di emancipazione, nemmeno di lavoro e di organizzazione sociali in cui trovare spazio. Il dubbio sulla legittimità e l’utilità di codici e rituali è pervasivo. Le forme del lavoro, della cultura, della politica sono in trasformazione e la rivoluzione tecnologica digitale impone la presenza ingombrante e non ancora elaborata di nuove forme di soggettività mentre l’immaginario di un futuro catastrofico si insinua ogni giorno nelle parole e nei sentimenti. Negli ultimi 10 anni l’accelerazione della trasformazione sociale, messa ancora più in risalto dall’evento pandemico, ci ha trascinato innanzi nel cambio di paradigma su cui stiamo aprendo gli occhi e ciò ci richiede linguaggi, pratiche, tentativi totalmente e radicalmente differenti. Non vale la pena di stare appresso alle infografiche di FGA, così qui di seguito si tenta di mettere avanti, seppure confusamente, tre temi che il vissuto faticoso e quotidiano al fronte delle classi impone.
La crisi istituzionale
Nel discorso pubblico mediatico sulla scuola si insiste sempre sulle minuterie: le mascherine, i banchi, le rotelle, le finestre, la durata delle quarantene. Non possiamo stupircene né sottovalutarlo, la scuola è questa materialità opaca, il suo effetto formativo, reazionario, memorabile, si attesta su questa oggettività contro cui il discorso legislativo perde sempre. Oggi, adesso, nella maggior parte delle aule italiane ci sono banchi, lavagne, muri mezzi bianchi e mezzi verdi, cestini e scassati PC nella stessa atmosfera e apparenza che potrebbe facilmente immaginare chi è uscito da un istituto ormai 40 anni fa. Ci sono poche scuole secondarie di primo grado in cui non siano in uso le stesse organizzazioni orarie e disciplinari, le stesse programmazioni copiate dagli indici dei libri di testo, le stesse valutazioni numeriche su verifiche standard riciclate sulle parti imparate a memoria dell’ultimo capitolo. Ogni trasformazione o evoluzione dettata nei documenti ministeriali o internazionali non perde solo contro queste COSE ma anche contro la LINGUA settoriale dei corridoi e dei consigli di classe, quel costume linguistico che permette di intendersi, allearsi, difendersi, litigare, lavorare in istituzione a una categoria docente che di fatto non sa e non può immaginare un ruolo e un mestiere differenti da quelli che ha sperimentato da studente. Quando invochiamo la formazione o la selezione del personale docente come chiave di volta di un cambiamento abbiamo ragione, tanta ma in parte: queste formazioni e concorsi dovrebbero già parlare quella nuova lingua e avere quella nuova impostazione a cui aspiriamo, senza che esistano gruppi numerosi di docenti, coordinati tra di loro grazie a una visione politica comune, capaci di istituirli e organizzarli secondo prassi teoricamente e sperimentalmente fondate.
Secondo i dati presentati dalla FGA nello studio, il mestiere docente per le scuole secondarie di primo grado non viene scelto, a esso non ci si sente preparati né dal punto di vista didattico né pedagogico, non si investono progettualità e impegno tanto che la continuità sul posto è più bassa che in ogni altro grado. Si tratta di un grado scolastico a cui manca un teoria sull’età cui è dedicato, una missione chiara, un’identità strutturata. Chi può fugge alle superiori appena possibile ma non sempre ci si trovano vie di scampo. In molte scuole non si lavora e non sta bene. Bisogna usare il plurale perché le sezioni A e B della scuola secondaria di primo grado in centro sono diversissime dalle sezioni G e H della periferia; quelle del paesino fuori Modena da quelle dell’hinterland milanese; la scuola del pistoiese da una del catanzarese; le sezioni col potenziamento di matematica o di lingua tedesca da quelle di spagnolo. Le prime reggono meglio, sempre. Nelle altre il livello di insensatezza, frustrazione, inefficacia che producono i vecchi metodi è pesantissimo.
Per fare una scuola della preadolescenza che sia scuola di tutti e della cittadinanza ci vogliono nuove organizzazioni che tocchino i tempi, gli spazi, gli arredi, i corridoi e le ritualità e le procedure che regolano gli scambi tra docenti, tra docenti e studenti, all’interno delle classi. Le richieste sempre più numerose di formazioni e strumenti per “la democrazia in classe”, per altre forme di valutazione, per la diffusione del metodo montessori nella scuola pubblica (alle “medie” sono le sole che hanno scardinato il dispositivo) vanno incontro a questo bisogno di rinnovamento istituzionale e organizzativo.
Il modo in cui gli istituti sono governati, le condizioni degli scambi affettivi e simbolici tra le persone internate non sono cambiati abbastanza e di conseguenza non si condividono e applicano metodologie didattiche teoricamente e sperimentalmente elaborate.
Nelle scuole si scrive molto ma nessuno crede e interpreta e recepisce quelle parole come leggi e norme vincolanti. Si tratta di accountability, di forme di finzione a fine contabile, per una profilazione del merito, gusci vuoti. L’esempio più lampante sono le competenze e le loro certificazioni che ad oggi sono solo burocrazia insensata che non trasforma in nulla didattica e lavoro scolastico.
Ci sono verità che si palesano anche nel più disomogeneo dipartimento di lettere, come il fatto che le competenze andrebbero osservate, registrate, esercitate per essere poi certificate, oppure che i libri sono brutti, costano troppo e sono sostanzialmente incomprensibili per la maggior parte di studentesse e studenti. Tuttavia si è divorati dalla mancanza di tempo, da un dispositivo su cui non si crede di poter intervenire.
Siamo arrivati ai 70 anni del MCE (Movimento Cooperazione Educativa) e l’anno che viene sarà il centenario di Mario Lodi: un’occasione per misurare, descrivere e nominare le differenze da allora e i punti da dove ripartire. Quelle maestre e quei maestri non erano pedagogisti ma persone che lavoravano nelle scuole e volevano che lì accadesse un altro modo di relazionarsi e di apprendere. Erano pronti a farlo a modo loro, nel posto dove si impegnavano. Il materialismo scolastico era questo: portare il complessino tipografico, insegnare matematica con le costruzioni, guardare il cielo, fare lo sciopero del voto, rifiutare libri di testo, partire dalle parole e dalle esperienze e dalle differenze tra i bambini. Era aiutarsi a vicenda, liberarsi dai propri presupposti, paure e pressioni e preconcetti, creando occasioni di studio, lavoro e vita comune. Era una condivisione di fedi illusioni gesti linguaggi: questo suscitò una tensione fortemente istituente, si ridefinivano tempi, relazioni, attività e schemi in singole scuole dove si costruiva una autentica alternativa. Furono attaccati ferocemente ma ebbero anche riconoscimenti e sponde politiche e accademiche che portarono ad esiti in ambito economico e legislativo e amministrativo.
Nell’anno che vedrà la celebrazione del maestro Lodi si dirà quanto per lui abbia contato l’esperienza di partecipazione al governo del comune del suo paese con l’invenzione istituzionale di un’assemblea cittadino che certificasse i bilanci e con calcolasse equamente le contribuzioni? si dirà quanto per lui questo ambito fosse intrecciato con la sperimentazione nella scuola?
Le istituzioni mantengono la loro capacità istituente se esiste un rapporto tra esterno ed esterno, un confronto con le altre istituzioni. Una scuola della democrazia mette i piedi nel quartiere, deve farsi scuola in cui i genitori e lavoratori e gruppi trovano modi di incontro per discutere assieme sulla ripartizione di risorse, spazi e usi del territorio. È qualcosa fuori dai tempi, remoto, impraticabile? E allora cosa è praticabile per il cambiamento urgente?
L’innovazione, si dirà.
Hannah Arendt diceva che nello spazio pubblico noi sediamo attorno a un tavolo che ci riunisce e pure ci impedisce di caderci addosso, che media quindi le nostre relazioni creando un’unione e un limite, una possibilità e una regola. Il tavolo attorno a cui sediamo è il mondo delle cose, gli oggetti hanno relazioni e azioni su di noi. Che oggetti siano le macchine ad algoritmi ancora non si sa e ancora meno cosa faranno di noi, ma intanto non sono i soli.
Dentro la scuola, “innovazione” e “inclusione” sono le due parole ameba, utilizzate per indicare contenuti così confusi d’aver perso qualsiasi identità eppure buone per tutte le operazioni, per giustificare scelte e azioni di segno opposto. “Innovazione” ha a che fare tendenzialmente con il digitale; “inclusione” con differenze diseguaglianze e disabilità. Noi vediamo che per il momento né una nuova scuola né un nuovo attivismo né una nuova organizzazione dei rapporti in istituzione verranno dall’uso del digitale e vediamo che tanto l’inclusività è nominata, tanto resta irrealizzata. C’è stata una stagione in cui il progetto di vivere assieme nelle classi, di imparare assieme in estreme differenze, costituì una leva fondamentale di trasformazione. Quella riflessione e quel cammino sono da riprendere e attualizzare oggi che nella scuola media descritta dai dati del rapporto Agnelli il 60% degli insegnanti di sostegno è precario (cioè cambia ogni anno) e non ha nessuna competenza.
Questione linguistica
Nelle classi di scuola media (di certe scuole medie) succede questo: moltissime persone non imparano definizioni e termini semplicissimi, non riescono a ricordare i settori produttivi, ad esempio, o cosa distingue una democrazia da una dittatura, cosa vuol dire Parlamento. Le conoscenze vengono ridotte a semplificazioni surreali, purché siano ripetute e si possa mettere un voto. La rappresentazione da inscenare è ancora istituzionalmente questa mentre ancora non si è diffusa la convinzione che si parla se c’è qualcuno a cui dire qualcosa, si scrive se c’è qualcuno a cui mandare un messaggio. Il modo migliore per apprendere l’uso della parola è un desiderio, una necessità, un progetto.
Si dice che tutto è stato immiserito, spezzettato, semplificato abbassando le capacità espressive e le competenze culturali di chi passa per la scuola a causa di un malinteso senso dell’inclusione e dell’uguaglianza mentre è esattamente il contrario: poiché non si vuole che la ricchezza e il sapere siano equamente diffusi abbiamo una scuola che funziona così. È difficile parlare di scuola senza parlare di lingua. Sbrogliare la confusione, distinguere, nominare, confrontare sono le armi dell’azione collettiva organizzata e i principi di una educazione popolare. La tradizione pedagogica della liberazione dell’uguaglianza a cui ci riferiamo ha spesso posto il tema dell’ascolto, del dialogo, dell’espressione libera in relazione a esperienze di vita. La pratica del testo libero, dei giornali e dei libri di Lodi ad esempio – di cui si parlerà molto nelle università e nei webinair durante il 2022 – nascevano a queste condizioni: non avere paura, non ci deve essere il voto, ci vogliono il dialogo e l’ascolto e la cura. E anche molto tempo e la possibilità di guardare cosa accade fuori dalla finestra e nelle strade.
I vecchi attrezzi sempre validi della didattica cooperativa come il giornale, l’album di inchiesta, le corrispondenze (e anche le conferenze montessoriane) univano il linguaggio alla ricerca sui contesti di vita e sui problemi di conoscenza alla portata di bambini e bambine. Portavano alla creazione di prodotti pubblici che uscivano dalle classi e raggiungevano altri luoghi di vita e di lavoro, dove quel tempo impegnato e faticoso e vitale sacrificato dai bambini e dalla bambine perla creazione del manufatto venisse riconosciuto. Le radio, i blog, le fanzine sono oggi dei mezzi paragonabili e infatti come quelli hanno bisogno di tempo e materiali.
A raccontarle queste cose sembrano sempre soffuse di un’aura retorica, tengono dell’impossibile perché si nomina soltanto la loro possibilità, le loro profonde ragioni, mentre poi a farle dentro le classi con i gruppi in mezzo a 1000 sfumature di rifiuto di differenza di malessere, richiedono dedizione e pazienza, fatica e messe alla prova, sconfitte, aggiustamenti. Praticare questa didattica è un’impresa difficile da narrare ma che è anche molto importante da condividere con gli altri: la sperimentazione di cui abbiamo bisogno è questa raccolta di tracce, dati, ragioni a partire da esperienze uniche, in modo che sia possibile rifare certe cose che si sono mostrate tanto possibili quanto perfettibili, rifarle in un altro posto e modo, non secondo uno standard ma secondo principi che l’esperienza e la riflessione teorica hanno mostrato efficaci. C’è spazio per questo oggi nella nostra scuola?
L’effetto dell’emergenza pandemica ci porta in direzione contraria: non c’è stato “sconfinamento” della scuola dopo la sua battuta di arresto, anzi si è irrigidita e normata ancora di più. Leggete i regolamenti scolastici di quest’anno: i movimenti all’interno dell’edificio sono ridotti al minimo, al bagno si può andare solo se è necessario, non sono previste né uscite didattiche né ingresso di esperti, a malapena ci si possono scambiare degli oggetti. È necessario si dirà ma le necessità come le disgrazie portano conseguenze a volte sgradevoli e può darsi che ne usciremo, noi della scuola, ulteriormente impigriti, rallentati, irrigiditi verso il mondo esterno e la sperimentazione. O forse no.
Rallenterà forse ancora di più l’altra rivoluzione indispensabile cioè il riconoscimento della presenza del corpo nei suoi bisogni, nei suoi linguaggi e nelle sue espressività. Le esperienze di fruizione ragionata e accompagnata di arti performative sono molto rare dentro le nostre scuole. Ugualmente i laboratori di teatro di musica di canto di pittura tendono a sparire, restano memorie del tempo prolungato, quando non erano riservati a chi pagava, servivano sia per imparare che per stare meglio.
Le scuole secondarie di primo grado appartengono al primo ciclo e secondo le indicazioni nazionali il gioco dovrebbe continuare, tanto sarebbe prezioso in una fase in cui la fine dell’infanzia avviene in un continuo contrappunto di avanzamenti e regressioni. E chi fa giocare sa come dopo si apprenda meglio e più in fretta. Se nelle scuole ben governate dove c’era il tempo pieno le persone stavano così bene era perché il sistema a classi aperte degli atelier consentiva una fluidità di scambi e di sperimentazioni fra le persone e fra i linguaggi del corpo e delle discipline.
Adesso questi spazi nelle scuole non ci sono più, anzi non ci sono più da nessuna parte, nemmeno nei quartieri se non forse negli oratori o in certi spazi liberati o beni comuni. Cosa spetta a chi cresce? quali possibilità di trascorrere un tempo ricco di esperienze di qualità e di salute che non sia dedicato al consumo o agli schermi? la mancanza di progetti e di investimenti e di immaginazione su questo tipo di realtà locali è il segno di una guerra tra le generazioni e prefigura un tempo di penuria e di violenza che solo ora possiamo scongiurare, dandoci la possibilità di coltivare altri desideri, altri bisogni, altri inediti regimi di vita comune.
Radicalità ecologica
Di cosa è fatto dunque il tavolo attorno a cui sediamo? Di una ricchezza distribuita in maniera sempre più diseguale; di un incremento demografico rapidissimo e un ancor più rapido sviluppo tecnologico; di un’economia estrattiva e predatoria che consuma le risorse della terra per spreco e accumulo, destinandoci alla miseria e all’orrore della devastazione ambientale. Se si vuole parlare del mondo, apprendere i valori e il significato della società, questo preme e riguarda tutti.
Come saranno una scuola e una pedagogia dell’ecologia? Immaginarle e praticarle è il nostro compito, a cui dobbiamo mettere mano assieme, incontrandoci, portandoci a disubbidire dentro le scuole.
Scuole che abbiano più ricchezza più tempo più varietà di esperienza e i piedi più piantati nella terra. Chiamiamolo luogo o paesaggio o territorio ma che sia la prima materia di ricerca e di studio, la prima fonte delle parole. Come si governa la città, a chi appartengono le terre le costruzioni le fabbriche le strade, che nomi hanno e come usano il loro potere, che cosa succede se si apre una vertenza ambientale dietro casa mia? Le ultime generazioni vanno coinvolte fin da subito nel governo della città e della terra, non con la raccolta differenziata, non con le letture dal libro di geografia o di antologia ma sperimentando che cosa accade all’acqua che beviamo ogni giorno, al suolo su cui camminiamo, per cui, in cui e secondo cui viviamo.
Oggi a 13 anni non si sa se una banca è un servizio pubblico o privato, non si sa nulla di come si produce e si misura la ricchezza, non si sa se esistono le tasse, da dove vengono le leggi. Deve essere la scuola del primo ciclo a cambiare questa cosa? È questo il suo mandato? l’educazione democratica e popolare di una collettività responsabile e non autodistruttiva? Non lo so, ma secondo quello che è scritto nei suoi statuti nel suo mandato e nelle sue leggi qualcosa la riguarda.
L’indicazione secondo cui l’educazione civica si esplica massimamente nella cura del luogo di vita comune è un grande incentivo: la nostra casa, il nostro cibo, il nostro tempo, i nostri viaggi devono essere i nostri progetti di studio, gli scopi e i mezzi delle nostre conoscenze. Sono porte per la storia, le scienze, la poesia.
Radicarsi nello spazio significa riappropriarsi del tempo, ridursi di misura, fare spazio ad altre ripartizioni, a un’altra economia della nostra individualità e delle nostre rappresentazioni, ridursi a misure che non siano povertà ma regimi variabili e reciproci in cui ci aspettano altre forme di soddisfazione, disperazione, illusione, fiducia, ragione.
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