Roma di Cuarón, un falso bel film

traduzione di Giovanni Esposito

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 61 de “Gli asini”: acquistalo, abbonati o fai una donazione per sostenere la rivista.
Posso dirvi il momento in cui Roma si è rivelato essere un libero abbandono alle inclinazione dell’autore, la posa liberal adottata da un regista la cui produzione incostante ha contribuito a creare l’indifendibile mito del suo genio. La scena racconta una gita al cinema, la scorciatoia preferita da ogni regista per evocare il magico e coinvolgente potere del mezzo cinematografico, risparmiandosi la fatica di dover mettere in scena da sé quello stesso potere.
Roma è l’ultimo film di Alfonso Cuarón, il cui lavoro precedente comprende Y tu mamá también (2001), I figli degli uomini (2006) e l’elefantiaco ma vacuo Gravity (2013). È apparentemente incentrato sulla domestica che tirò su Cuarón e i suoi fratelli, ma questo film lungo 2 ore e 15 minuti non è davvero su di lei, per niente. È un film su Toño, Paco e Pepe, i tre ragazzini a cui lei deve badare. In secondo luogo è un film su Cleo, la mamma dei ragazzi Sofía e la loro sorella Sofi, create dal nulla per controbilanciare il carattere profondamente maschile del film.
Il film mostra la propria natura – e il suo vero oggetto – verso la metà, quando Cleo va a vedere Abbandonati nello spazio (1969), il film fantascientifico girato da John Sturges con grande attenzione per i dettagli tenici del viaggio spaziale, in un monumentale cinema del centro di Città del Messico. Uno dei ragazzi scorge suo padre con la sua amante e non la prende bene. Cleo raggruppa i ragazzi, dopo di che vediamo qualche secondo di Abbandonati nello spazio. Il film occupa l’intera inquadratura. Non vediamo Cleo durante la proiezione, e neanche i ragazzi a dirla tutta. Sono solo pochi secondi di un altro film, nell’originale a colori, reso in bianco e nero dall’obiettivo di Cuarón. Queste immagini tratte da Abbandonati nello spazio servono a spiegarci la liaison di Cuarón con i film ad alto budget, la slitta Rosebud che ci dice che sì, questo giovane ragazzo una volta diventato uomo dirigerà Gravity per fare i conti con la sua infanzia difficile. Cuarón crede nel suo stesso mito.
Roma è un errore colossale, una serie di calcoli errati frutto di una hybris fuori controllo e di un orribile classismo, il tipo di film che trascina giù con sé il resto dell’opera del regista. Questo è un film che fai quando i tuoi amici non si sentono più a proprio agio a porti domande. È un film fatto per tranquillizzare le classi dominanti: scodinzolante nel suo elogio del potere, trova la propria conclusione in un vicolo cieco che raffigura una vera e propria divinizzazione della servitù, mostrandoci la santa domestica salire verso il cielo, inevitabilmente legata al proprio lavoro, con le braccia completamente cariche di vestiti sporchi. Ogni cosa è secondaria rispetto all’imbellettatura delle dinamiche tra ricchi e poveri. Su questo punto il film è spesso e fin dal principio eloquente, iniziando con l’immagine di Cleo che lava i piatti lasciati dalla famiglia sul pavimento del soggiorno, per poi fermarsi a riposare le ginocchia su un cuscino a guardare la tv con Sofía e i ragazzi. Uno dei ragazzi (non sviluppano mai una personalità; che uno di loro da grande diventerà un artista famoso è una motivazione sufficiente per farci preoccupare per tutti loro) mette il suo braccio attorno a lei. In questo modo, il film cela la natura fondamentalmente economica del rapporto con Cleo sotto il velo dei legami familiari. Che Cleo faccia “parte della famiglia” è un messaggio che ci viene rifilato con la stessa spontaneità con cui si rifila una mancia del 9% a un fattorino. La famiglia le vuole bene e la rispetta, fino a quando non la rispetta più – come quando Sofía trova la causa del suo imminente divorzio nel rifiuto di Cleo di pulire il pavimento dai resti lasciati dal cane. Cuaròn fa scorrere il carrello lungo un’interminabile serie di escrementi per mostrare quanto sia umiliante il compito – ma necessario, ovviamente. Chi altri lo svolgerebbe?
Cleo e Adela, l’altra componente della servitù domestica, sono mixtecos, appartenenti a una popolazione indigena messicana che conta meno di un milione di persone. I fidanzati di Cleo e Adela sono poveri e vivono in quartieri periferici sporchi e degradati, dove, il film sembra fortemente presupporre, vivrebbero anche Cleo e Adela, non fosse per i loro ricchi datori di lavoro. Il fidanzato di Cleo, Fermín, la mette incinta per poi abbandonarla ed entrare in una milizia sostenuta dal governo, finalizzata a contrastare le proteste che sono seguite al massacro di Tlatelolco del 1968 – nel quale centinaia di studenti furono uccisi, mentre partecipavano a una manifestazione contro le Olimpiadi e le azioni portate avanti dai militari per danneggiare i sindacati. Fermín rappresenta la crudeltà e la facile arrendevolezza dei mixtecos più poveri, dalle quali Cleo si salva pulendo cessi per i più ricchi. Le capita di assistere a un allenamento di Fermín, durante il quale un muscoloso ciarlatano esegue una prova di forza per gli allievi. L’unica in una folla di uomini, Cleo riesce a replicare correttamente i suoi movimenti. Lei è speciale, vedete, è diversa dal resto di quei miserabili morti di fame e per questo sembra meritare di essere salvata dalla povertà.
Per questo film Cuarón ha fatto anche da direttore della fotografia, utilizzando principalmente due tecniche: fa scorrere il carrello lateralmente per mostrare la dinamicità e l’imprevedibilità della vita di Cleo quando si muove per le strade o pulisce la casa, mentre fa girare la telecamera su sé stessa per esibire l’opulenza delle case che Cleo pulisce o visita. Non utilizza la seconda tecnica nell’angusta stanza che Cleo condivide con Adela, non trovandoci qui alcuna allegra confusione. Non prova curiosità per la sua stretta stanza, come non la prova per il resto della sua vita, che inizia e finisce come un mistero. È molto più interessato ai rituali delle persone fatue e abbienti. In modo appropriato, la composizione delle sue inquadrature è caratterizzata dallo spreco, muri bianchi che occupano metà dell’inquadratura, la profondità di campo mai fissa ma sempre troppo scarsa, che rende indistinto quello che è stato probabilmente un lavoro di scenografia e produzione molto accurato, il bianco e nero feticistico suggerisce deboli ma facili paragoni con l’opera di Fellini. Ma non non fatevi convincere dai continui accenni a Fellini. Il suo Roma del 1972 è un album di fotografie dell’infanzia che offre una critica del machismo fuori controllo visto come un segnale del sorgere del fascismo. Il film di Cuarón non può trattenersi dal compiacersi della sua idea di ricchi cinici e insensibili. Se critica il libertinaggio del padre è per come l’affare extra-matrimoniale lo fece sentire da bambino – non come fece sentire sua madre e certamente non come fece sentire Cleo, con la quale il patriarca a malapena interagisce.
Il film raggiunge il climax quando Fermín e gli altri controrivoluzionari attaccano un gruppo di studenti il giorno in cui Cleo e la madre di Sofía sono uscite per acquistare una culla. Fermín punta una pistola a Cleo, provocando la rottura delle acque, a cui seguirà un aborto spontaneo. Più tardi, tra le lacrime, Cleo confessa a Sofía che in ogni caso non voleva il bambino. Certo che no: avrebbe potuto distogliere la sua attenzione dai suoi datori di lavoro. Cuarón evidentemente crede di aver mostrato al suo pubblico un contro-mito, spiegando quanto fosse importante la sua povera tata per il suo complicato nucleo familiare. Quello che ha fatto in realtà è stato rimettere in scena la vita di lei come una vita di felice servitù. In questo modo, Roma perpetua una perfida fantasia che dura da secoli, secondo la quale alcune persone sono fatte per servire proprio come altre per essere servite.
Cuarón non è mai stato propriamente un regista impegnato (nè in I figli degli uomini nè in La piccola principessa (1995), due film “white savior” (il cliché dell’eroe redentore immancabilmente bianco), mentre il suo adattamento di Paradiso perduto (1998) è pura pornografia della ricchezza priva di alcun sotto-testo), ma ha dissimulato la propria ignoranza attraverso una sorta di empatia generalizzata. I figli degli uomini è, sulla carta, una storia pro-immigrazione sul salvataggio dei bambini più sfortunati dalla rete di un governo male amministrato, ma la trama ruota intorno al sacrificio apolitico di una giovane madre che preferirebbe morire, portando con sé il bambino che ancora tiene in pancia, piuttosto che prendere pubblicamente una posizione politica. Y tu mamá también si lascia dietro la povertà e gli abusi della polizia partendo per un road trip borghese per mostrare da che cosa il privilegio di classe ti renda libero di preoccuparti.
Alla resa dei conti, Roma è un tradimento del candore di quel film, se non del suo messaggio politico.
Cuarón attraverso i suoi film suggerisce senza troppo entusiasmo che ognuno merita di ricevere un giusto trattamento dalla vita, senza aver deciso che cosa secondo lui sia giusto. Cuarón si preoccupa delle persone solo se dimostrano di essere di più di quello che le circostanze in cui si trovano farebbero pensare, come quando si scopre che l’eroe della sua prima commedia, Sólo con tu pareja (1991), non ha veramente l’Aids e perciò nel momento più drammatico film rinuncia al suicidio. E se avesse contratto davvero la malattia che uccide tuttora ogni anno migliaia di messicani impoveriti? Be’, è una buona cosa che non sia il suo caso. Roma non riesce nemmeno a estendere la sua falsa empatia ad Adela, l’altra domestica della casa, che non ottiene nessuna allegorica ascesa al cielo per le sue fatiche, nessun abbraccio conciliatorio, nessun accesso alla confidenza di qualcuno, nessun invito a un pomeriggio di shopping, nessuna prova della propria unicità. È soltanto una povera donna che pulisce la casa, un elemento del set, non del cast. Non fa “parte della famiglia” e nessun genio dagli occhi luccicanti e malato di nostalgia farebbe mai un film su di lei.