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Educazione e intervento sociale

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Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto e il pathos del luogo

Illustrazione di Frédéric Coché
30 Novembre 2021
Paolo Lanaro

È stato Andrea Zanzotto, in uno scritto dedicato alla Storia di Tönle, a parlare di oscurità per ciò che riguardava i suoi versi e di limpidezza a proposito di Rigoni Stern. Prendo per buona questa opposizione, accogliendo l’idea che i versi di Zanzotto siano complicati e difficili e che le prose di Rigoni Stern siano invece semplici e luminose. È un’antinomia rassicurante, avvalorata dalla quasi totalità dei lettori, che attribuisce normalmente la chiarezza agli scrittori e una viziata incomprensibilità ai poeti. Questa è una convinzione così radicata che nessuno, credo, sarebbe disposto a cambiare il proprio punto di vista nemmeno se gli venissero mostrate contemporaneamente una pagina del Finnegans Wake di Joyce e una poesia di Angiolo Silvio Novaro. Comunque è abbastanza vero: i racconti di Rigoni Stern possiedono una innegabile trasparenza dietro cui si intravede una vicenda umana e collettiva che ha una sua comprensibilità, anche se questa comprensibilità deve fare i conti con le giravolte e le scosse violente della Storia. Diverso il caso di Zanzotto, in cui ci sono immagini, emblemi, ricami concettuali a volte abbastanza riconoscibili, ma dove il potere del linguaggio è così forte e imperioso da costringere colui che se ne serve ad accettarne la radice oscura, enigmatica, spesso indecifrabile.

Se il “trasumanar” è l’intenzione segreta della poesia, il “significar per verba” non può non essere un’impresa che corre sul filo del rasoio, condannata spesso a una difficile intelligibilità, che non è affatto una provocazione per chi legge, ma la conseguenza di un desiderio inesausto e dello strano glittering eye (lo sguardo scintillante) di chi si esprime in versi.
In un certo senso sia la narrativa di Rigoni Stern sia la poesia di Zanzotto (di cui ricorrono per entrambi i 100 anni dalla nascita) sono state un tentativo di disalienare il linguaggio. Il linguaggio “alienato” fu un tema rilevante della cultura letteraria e filosofica degli anni ’60. Sembrò allora, un po’ a ragione in verità, che fossero all’opera meccanismi di mistificazione/espropriazione a cui bisognava reagire con vigore.

Pasolini, secondo alcuni, proponeva niente più che una retromarcia, un ritorno a ciò che c’era prima della svolta industrialista e consumista che aveva investito parole, comportamenti, valori. Sanguineti vedeva invece il linguaggio come un deposito museale che occorreva mettere a soqquadro. L’alternativa di Rigoni Stern, che non partecipava a quei dibattiti, è disarmante: uno scrivere chiaro, semplice, perfino scolastico, privo di superfetazioni intellettuali. La risposta di Zanzotto appare invece più complessa. Zanzotto accettava infatti la crisi, ma si può dire che la volesse amplificare, introducendo nel linguaggio dei booster, portando la materia lirica quasi a collassare così da riscoprire, al di là dello schermo delle parole, la nuda, primaria autenticità del parlare. Non ci vuol molto a capire che erano strade divergenti. Rigoni Stern cercava di rendere il linguaggio fresco come un’acqua di ruscello, Zanzotto lo concepiva come uno sprofondamento in ciò che nemmeno le scienze antropologiche sono mai riuscite bene a chiarire. A ogni buon conto i due scrittori, alle prese con progetti molto diversi, per alcuni aspetti si corrispondono. E non solo per età, ma per un lavoro comune sulle radici, sull’ancoraggio della scrittura a presupposti non letterari, sugli spessori materiali della lingua. Questo lo si vede abbastanza chiaramente in Rigoni Stern, mentre in Zanzotto lo si percepisce, al di là del muro di parole che occludono lo sguardo verso le ragioni più nascoste dello scrivere.

Rigoni Stern si era presentato (letterariamente) con il diario di un sopravvissuto, Il sergente nella neve, che era la sua storia di giovane soldato mandato a combattere in Russia. Da lì in avanti racconterà la sua vicenda di uomo dei boschi e delle montagne, confinato in una dimensione austera e pacifica del vivere, in lotta per difendere un lembo di natura e di storia dagli assalti di un’urbanizzazione sfrenata e di un appiattimento culturale devastante. Più complesso il background di Zanzotto: la poesia ermetica, la grande lirica europea, la cultura psicanalitica, una non troppo celata propensione a teorizzazioni sofisticate, il tutto frullato in un composto metabolico insieme a ingredienti inusuali come il dialetto della sua terra, un bambinesco ciarlare che si fa veicolo di un pensiero oscillante tra astrazione e ingenuità. Dice Zanzotto: “La mia prima parola è stata… un vagito… Ed è esattamente da qui – dall’albuminosa atmosfera fatta di voci, di nenie cantilenanti di madri e balie, di ipnotiche alternanze, di armonie – che ha preso forma in me la più remota e certo rarefatta e inconsapevole idea di poesia di cui conservi ricordo…”. Quell’idea di poesia (lallazione, farfuglio, ruttino, grido) accompagna tutto il cursus di Zanzotto, nel senso che le cadenze della sua poesia reinterpretano, se vogliamo, il primo parlare del bambino, fatto di pause, interruzioni, conati, folli articolazioni, che poi l’educazione provvederà via via a sistemare in una struttura composita e organizzata.

Rigoni Stern è lontanissimo da tutto questo. La sua scrittura imita il passo tenace e regolare del montanaro, raccoglie il terriccio e le foglie che si attaccano agli scarponi, si inerpica lungo mulattiere letterarie poco frequentate, coniugando fatica e risultato in una danza lirica e popolare in cui le mosse sono precise, scandite, ricorrenti. Ma non è tutto qui. È stato proprio Zanzotto ad affermare che nel raccontare fervido e rettilineo di Rigoni Stern si sente un brusìo di sottofondo in cui si mescolano voci umane e non-umane, il sibilo del vento e “il rombo della valanga”, lo scricchiolio di un ramo ed echi di lontane lingue perdute.

Boschi, montagne, acque, silenzi, stridori, schianti, memorie, nevi, pleniluni. Il repertorio di uno scrittore che vive in e di montagna non si discosta molto da questa sequenza, peraltro approssimativa. C’è una natura feconda che costruisce, nonostante le ferite inferte da uno sviluppo acefalo e degenerativo, forme di esistenza non banali, creatrici di valore e di storia. La narrativa di Rigoni Stern è implicata fondamentalmente nel grande cantiere della natura, di cui non siamo i committenti, di cui non conosciamo che qualche aspetto marginale, di cui ignoriamo lo scopo, se mai ne esiste uno. È stato lui stesso a ribadire più volte che la terra dell’Altipiano se l’è sempre sentita dentro, come se la sentono dentro tutti gli emigranti costretti a vivere lontano dai luoghi d’origine. E la terra si infiltra nelle sue pagine suscitando un’intensa emozione, un pathos per dirla in una parola, costruito sulle contingenze (una passeggiata, uno sguardo al cielo, una notte di veglia) e nello stesso tempo sui legami resistenti con un mondo-cosmo contrassegnato da ritmi antichissimi. William Carlos Williams in un libro singolare e possente come i suoi poemi lirici (Nelle vene dell’America) scrisse di aver voluto cercare nei documenti e nei resoconti che lo compongono, lo “strano fosforo della vita”. Forse per Rigoni Stern è la stessa cosa: si fruga nella memoria privata e collettiva per scoprire i semi e i segni di una micro-civiltà, la sostanza storica di un luogo che nasconde la sua piccola eternità dietro il mutare dei tempi e dei linguaggi da cui la vita trae i suoi diritti e le sue occasioni. Non si può costruire su Rigoni Stern un edificio critico come accade per altri scrittori la cui opera presenta densità e problemi che continuano a generare analisi, puntualizzazioni, sondaggi, utili a mettere meglio a fuoco profili che tendono a sfilacciarsi e a sfuggire. La narrativa di Rigoni Stern non ha segreti, pur avendo i suoi stratagemmi. Semmai, come i funghi, ha un corpo vegetativo che affonda in un sottosuolo pieno di elementi preziosi che forniscono alle sue pagine coloriture e sembianze di forte originalità. Prendo queste righe da Stagioni, un’opera che considero il capolavoro di Rigoni Stern:

L’estate in montagna è sempre
breve; anche la notte estiva è breve
a rinfrescare l’aria; la luna
calante e il crepuscolo dell’alba, con le due
diverse tonalità, creano
una luce sparsa sulle cime e nell’alta valle, ma
dentro il bosco la notte
ancora non si dissolve.

La tavolozza è ridotta, le parole poche, ma il loro potere suggestivo è così accentuato da farci credere che se fossimo capaci di economizzare di più, quando scriviamo, ne guadagneremmo parecchio in fatto di comprensibilità e di incisività artistica. La lingua di Rigoni Stern non è “dopata”, per usare un termine caro a Filippo La Porta, ipervitaminizzata, ridondante, oppure parruccona, pidocchiosa, beatamente amorfa. È una lingua impastata di storia ed esperienza, un italiano “vero” ed etico che parte dal basso per arrivare in alto. Lo stile di Rigoni Stern si gioca sulla possibilità della sua scrittura di stare al di sopra dell’intenzione comunicativa senza tuttavia ignorarla o assorbirla dentro schemi complessi o sfacciatamente letterari. In questo ha un ruolo non secondario l’abitare, la dimora, lo hüttendasein per usare (con ben altre intenzioni) un’espressione heideggeriana, lo stare in un luogo senza farne una prigione, bensì un elemento di forza e di solidità della propria poetica.

Qui ritroviamo il legame con Zanzotto. Nella poesia italiana del dopoguerra Zanzotto è quello che più di ogni altro ha reso il paesaggio nativo un dato permanente, il castigo e anche la ricompensa della sua scrittura terremotata. Qualcuno, pensando ai paesaggi, potrebbe richiamare la Liguria arida e devitalizzata di Montale, gli endoscheletri di seppia come reliquie di un mondo agonizzante, ma i teatri montaliani sono forse più mentali e ideologici di quanto non si voglia ammettere. Oppure si potrebbe citare la campagna monotona e atemporale del Friuli che per Pasolini divenne nel tempo un punto di riferimento mitologico. Ma è Zanzotto il vero poeta del paesaggio, non solo veneto, ma del paesaggio post-capitalistico, dove tenui tracce geologiche e storiche cercano di farsi luce e tramandare un lampo, una scheggia di passato che possa sopravvivere all’assalto di una modernità cancerosa e intrusiva. Dietro il paesaggio fu non a caso il titolo del suo primo libro nel 1951, a ricordarci che ciò che vediamo è la radiazione o l’irradiazione di qualcosa che sta dietro e dentro, qualcosa che ci avvolge come un sudario o una vestaglia (“Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio/qui volgere le spalle”). Quel “dietro” già allora indicava una zona semi-sconosciuta alla poesia, un mistero psichico che fungeva da barriera, ma anche da generatore di visioni, di immagini, di suoni. C’è un’analogia tra il modo di abitare le parole e il modo di abitare i luoghi? Forse sì.

Il forsennato movimento linguistico di Zanzotto, lo spossante andirivieni della parola dal quasi-silenzio all’esplosione inaudita, la loquacità, lo sberleffo, la carezza fugace ecc., sono una maniera di giudicare il tempo e il luogo da parte di un poeta terrorizzato da come va il mondo, sempre più ridotto a una discarica di oggetti-segni-sentimenti che hanno un’emivita brevissima come i nostri messaggi telefonici o come i sonniferi che si prendono per dormire. Io credo che Zanzotto, tra le varie dimensioni che concede alla sua poesia, sia un acutissimo interprete del nostro oikos di veneti pieni di sintomi, ma a corto di soluzioni che non siano quelle dell’accumulo di quattrini e della moltiplicazione di strade che in fondo non portano da nessuna parte. Dovrebbe essere chiaro che quanto più divoriamo spazio e quanto più “abitiamo” dovunque sia possibile abitare, tanto più il nostro Io è disabitato, deserto, costretto a mille finzioni, piroette, querimonie, per testimoniare di esserci. In Zanzotto ci sono il passato e il presente, mentre per quanto riguarda il futuro: scire nefas. “Dimmi che cosa ho perduto/ dimmi in che cosa mi sono perduto… Dimmi in che lingua ho perduto ho collassato…”.

L’invocazione (in Fosfeni) è genuina, estrema, rabbrividente. Non c’è nessun male nel guardare al passato, con un inevitabile pizzico di nostalgia di borghi, piccole selve, fiumiciattoli verde-azzurri, cieli oro-turchese-grafite, soprattutto se si vogliono prendere le misure all’oggi. Gli scrittori, i poeti soprattutto, rimbalzano come palline da ping-pong tra presente, passato e proiezioni angosciate del futuro. Ed è proprio questo scorrimento continuo tra le diverse “località” del tempo che dà un certo tipo di configurazione alla scrittura, le fornisce uno spirito che può svariare dall’armonia alla disarmonia più acuta, dal ricordo struggente fino all’orrore della nientificazione. Zanzotto, a differenza di Rigoni Stern che ammetteva volentieri come l’Altipiano fosse la sua “heimatland”, un posto dove voleva e gli piaceva vivere, percorre poeticamente i luoghi come se si trattasse dell’ultimo viaggio che si può compiere prima che l’inferno ci sovrasti con la sua sovrana perfidia. L’Arcadia spezzata di Zanzotto ha a che fare non solo con il suo pensiero ecologico, ma anche con una memoria incessantemente percorsa da fibrillazioni che si alternano a dolcezze, appelli, luci rievocative. In un volume intitolato Luoghi e paesaggi, che raccoglie con la cura di Matteo Giancotti interventi dedicati al tema, Zanzotto racconta alcune tappe dell’introiezione nella sua poesia del paesaggio, che passa certamente attraverso l’osservazione, ma anche per i ricordi di famiglia, per lo studio appassionato della storia dell’arte. Scopriamo così che l’idillio infranto di cui i suoi versi sono la tenera/violenta esplicitazione viene sì dalla sua collusione con colli prealpini, con speroni dolomitici, con boschi e fratte, ma anche con la pittura d’aprés nature dei francesi e di veneti grandi e meno grandi, come se dai quadri fosse gocciolata giù nei suoi versi una linfa intrisa di meraviglia, di commozione, di dolore.

Ciò che continua a sorprendere e ad affascinare è però che sempre, in mezzo ai cataclismi, alla furia incontrollabile delle trasformazioni, in un angolo, da qualche parte, c’è qualcuno che da solo, con le proprie forze, fa qualcosa che resiste alle tempeste che scuotono il mondo.

Noi oggi (scrittori, poeti, filosofi, critici) tendiamo a rappresentare preferibilmente la Dissoluzione, sia quella interiore sia quella di ciò che ci circonda. È una strana caratteristica del ‘900, il secolo che più ha costruito e nello stesso tempo quello che più ha distrutto: vite, economie, ambiente. Un’epoca, la nostra, di “pericolo estremo”, del nichilismo trionfante, della barbarie attuata con zelanti tecniche amministrative, come sostenevano Horkheimer e Adorno. È difficile pensare a un tempo più contraddittorio, che pone ovviamente problemi nuovi e brutali alla letteratura, privata dei suoi statuti tradizionali e del suo potere consolatorio. Ciò che continua a sorprendere e ad affascinare è però che sempre, in mezzo ai cataclismi, alla furia incontrollabile delle trasformazioni, in un angolo, da qualche parte, c’è qualcuno che da solo, con le proprie forze, con i propri modesti strumenti (un po’ come il pianista di Polanski che suona in mezzo alle rovine del ghetto di Varsavia), fa qualcosa che resiste alle tempeste che scuotono il mondo. Leopardi riuscì a dare scacco a un secolo altero come il Settecento; Proust rivelò come il rombo del presente non potesse nulla contro il brusìo della memoria; Kafka ha mostrato come la vita abbia un’infinità di porte che si aprono su segreti indicibili. Non voglio fare paragoni tra Rigoni Stern e Zanzotto e questi giganti. Ma voglio sottolineare come una testimonianza letteraria, quando i suoi presupposti possiedano uno spessore morale, sia in grado di contrastare il decadimento sociale, la disaffezione civile, il consumo idiota di beni e speranze. L’andare per boschi e per valli di Rigoni Stern, l’attaccamento a una terra avara com’è quella della montagna, l’eco nelle sue pagine di una storia lunga e tribolata, sono una scelta letteraria ma anche una rivolta silenziosa e composta contro la nequizia dei tempi. Così come il rifugiarsi di Zanzotto nel proprio minacciato pomerio, specie di “centro-favo che lo protegge col suo ronzio di presenze famigliari”, come scrisse Bandini, rappresenta un rifiuto del falso cosmopolitismo della nostra epoca in cui in realtà si cerca di privatizzare tutto: acqua, terra, aria, fuoco, cioè l’intera cosmogonia antica, riallocata dai nuovi manager in un famigerato schema costi-benefici.

C’era il Veneto di Palladio e di Tiziano che non esiste più. Secoli di ostilità e violenza contro il paesaggio hanno prodotto quello che oggi vediamo allibiti quasi dovunque, dalle Dolomiti al Po (una regione, ha scritto Fofi, votata alla distruzione e all’autodistruzione). Quando parlo di “pathos del luogo”, è per indicare un sentimento che mi pare decisivo in questi due autori, un sentimento che unisce amore e tragedia. Zanzotto proclamava la necessità politica di un’amorosa razionalità, una razionalità delicata che a me sembra trapelare anche dalle pagine di Rigoni Stern, una sorta di tendenza neo-umanistica di cui per il momento abbiamo piccoli, minimi segnali: una casa agreste rimessa in piedi, una darsena recuperata, un antico sentiero boschivo ridisegnato. Poca cosa ovviamente; come se agli apparati di distruzione che proliferano dall’Asia alle Americhe opponessimo un’orchestrina di zufolatori o un corteo di fanciulle danzanti. La lotta della poesia contro il degrado del mondo, pur avendo una storia lunga alle spalle, ha un avvenire incerto. Niente di nuovo. Le parole possono poco contro la potenza dei consigli di amministrazione e contro gli inavvicinabili gabinetti della politica. Vortice consumista, delirio del mercato, mormorava sbigottito l’ultimo Zanzotto e Rigoni Stern di rincalzo: affari, solo affari, si campa ormai di artefizi. Sappiamo di vivere in un sistema economico che per sopravvivere deve espandersi sempre di più. Oggi l’Altipiano del “vecchio sergente” si sporge su una pianura che potrebbe essere quella di Shenzen o la California. A qualche chilometro, sulle acque semivive del Soligo calano offensivi gli “acidi spray del tramonto”.

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