Ridestare gli spettri esclusi dal regno. La pedagogia della rivoluzione di Asja Lācis
Descrivere l’attività di Asja Lācis (1891-1979) elencando tutti i fronti del suo impegno non può che generare una sensazione d’insoddisfazione. Rivoluzionaria, regista, drammaturga, attrice, teorica del teatro e della rivoluzione, pedagogista e maestra, femminista: Lācis è stata tutte queste figure contemporaneamente e una simile lista di etichette rischia di frantumare un’esperienza di lotta potente e unitaria. L’opera dell’agitatrice lettone rappresenta senz’altro uno dei massimi esempi, all’interno della storia del Novecento, di completa fusione di teoria e prassi. Il termine che, però, meglio raccoglie tutti gli altri è sicuramente il primo: rivoluzionaria. Del resto, è proprio quello che Lācis sceglie come titolo della raccolta dei propri scritti: Professione: rivoluzionaria – titolo che, nell’edizione originale tedesca del 1971, suona ancora più incisivo: Revolutionär im Beruf (Rivoluzionaria nella professione).
La traduzione italiana vede la luce nel 1976 e genera un vivace interesse per il lavoro di Lācis, destinato però a esaurirsi, anche perché a lungo il libro non viene più pubblicato. In tempi recenti è finalmente comparsa una nuova edizione, curata da Andris Brinkmanis, che permette di restituire la giusta attenzione all’opera della rivoluzionaria lettone. Nell’introduzione al volume Brinkmanis lamenta giustamente il fatto che l’opera pedagogica di Lācis sia oggetto di rimozione da parte della discussione pubblica e accademica, quando invece essa contiene un potenziale emancipatorio di straordinaria attualità. Questa marginalizzazione, prosegue il curatore, reca anche un’impronta patriarcale, poiché paradossalmente il nome di Lācis compare spesso, ma solo come figura di contorno rispetto all’opera e alla biografia degli intellettuali (Benjamin, Brecht, Adorno, per citarne solo alcuni) con cui ha lavorato e lottato. Oggi leggere Lācis significa prendere una boccata d’ossigeno per chiunque guardi con crescente preoccupazione alla penetrazione della logica del mercato nelle teorie e nelle pratiche educative e, più in generale, per chiunque ritenga che nel quadro contemporaneo, segnato dalla crescita delle disuguaglianze generata dalle politiche neoliberiste, non possano esistere – per citare l’efficace formula di Ulrich Beck – soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche (La società, p. 197).
È assai significativo notare che l’esperienza che orienterà in maniera irreversibile i principi dell’opera di Lācis sia la sua esperienza di allieva a scuola. Ancor più indicativo è rilevare che la prima esperienza scolastica coincida per Lācis con la prima percezione diretta e dolorosa della differenza di classe. Il padre è un operaio dalle posizioni progressiste, che si batte affinché la figlia possa ricevere un’istruzione che la renda libera e indipendente. Una possibilità non scontata per una donna di origini operaie nell’Impero zarista a inizio secolo. Lācis ricorda in questo modo la sua esperienza: «al ginnasio potei sperimentare il peso della diseguaglianza e dell’ingiustizia sociale: ero l’unica figlia di operai fra figlie di industriali, alti funzionari e “baroni grigi” (come erano chiamati i latifondisti). Le loro uniformi scolastiche erano di tessuti costosi, il mio grembiulino fatto della stoffa più a buon mercato. Ridevano di me e mi insultavano» (L’agitatrice, p. 56).
Scuola, dunque, come primo luogo dove si sperimenta la divisione in classi, ma anche come spazio di avvio per un riscatto. Gli insegnanti, infatti, notando la straordinaria passione della giovane Lācis per la letteratura, la difendono dai compagni e la incoraggiano. Lācis s’immerge quindi nei libri, dove incontra una serie di eroine che disattendono i ruoli che la società borghese si aspetta dalla donna, come Hedda Gabler e Hilde Wangel, nei drammi di Ibsen, e l’Anfissa di Andrèev. Concluso il ginnasio, Lācis parte per Pietroburgo, decisa ad accedere ai primi corsi universitari aperti alle donne. Frequenta quindi l’istituto Bestùzĕv, in cui insegnano docenti d’orientamento progressista e marxista allontanati dalle università di Stato, i quali incoraggiano il dibattito fra gli studenti. È in questo stimolante contesto che Lācis s’immedesima nel dolore di Dostoevskij per gli umiliati e gli offesi, si lascia contagiare dal concetto nietzschiano di “dionisiaco”, ma soprattutto si appassiona al teatro. Nella capitale imperiale, infatti, sebbene regnino i canoni tradizionali, comincia a insinuarsi il fermento dell’avanguardia, specialmente ad opera dell’attività registica di Mejerchol’d e Majakovskij, che Lācis segue con grande attenzione.
Nel 1914 scoppia la guerra e a pagarne le conseguenze più dure è ancora una volta il popolo. Proprio mentre il vecchio ordine è in procinto di sgretolarsi Lācis si trasferisce a Mosca per studiare scienze teatrali. Di giorno lavora come maestra nelle scuole per i bambini profughi, che tenta di risollevare tramite l’attività teatrale, e la sera frequenta i corsi di teatro nello studio di Fëdor Kommissarževskij. Lācis rimarrà molto colpita dall’innovativa impostazione adottata da questo regista e ne trasporrà i principi in ambito pedagogico. Egli concepiva, infatti, il regista non come un dittatore, ma come un primus inter pares, capace di trascinare il collettivo degli attori.
Mentre Lācis sta concludendo i suoi studi arriva l’onda della Rivoluzione, che parte da Pietrogrado per poi raggiungere rapidamente Mosca. Subito Lācis si schiera dalla parte dei soviet. La rivoluzione travolge ogni aspetto della vita sociale, compreso il teatro. Inizia la stagione dell’Ottobre teatrale, in cui – come Lācis scrive nelle sue memorie – «il teatro irrompeva nella strada e la strada nel teatro» (L’agitatrice, p. 66). È soprattutto Mejerchol’d a farsi interprete, in questa fase, della necessità di realizzare una fusione completa di arte e politica. Il grande regista prende contatto con gli operai delle fabbriche. Lo scopo è quello di realizzare non un teatro per il popolo, ma del popolo. Un teatro in cui, cioè, il popolo non sia trattato come spettatore passivo, ma spinto a farsi attore consapevole della propria forza. Vengono allestiti spettacoli di massa, in cui il popolo prende possesso dello spazio urbano e rievoca momenti collettivi fondamentali della Rivoluzione, come accade con la messa in scena della presa del Palazzo d’Inverno a cui Lācis assiste estasiata.
È in questo clima di eccezionale fermento politico e culturale che Lācis ottiene l’opportunità di lavorare come regista al teatro di Orël. Giunta in questa città, la prima cosa che nota è la presenza di numerosi gruppi di bambini, i cosiddetti besprisorniki, rimasti orfani o abbandonati durante gli anni della Prima guerra mondiale, della Rivoluzione e della guerra civile, che vivono per strada in condizioni di estrema povertà, trovando riparo in depositi abbandonati, sotterranei, edifici in rovina. Raggruppati in bande guidate da un capo, sopravvivono in condizioni spaventose, spesso ricorrendo al furto, alla violenza e non di rado anche all’assunzione di droghe e alcol e alla prostituzione. Lācis non riesce a rimanere indifferente a questo spettacolo. Si reca anche a visitare gli orfani di guerra all’interno dell’ospizio municipale. Qui le condizioni sono migliori – vestiti puliti, cibo caldo e riparo sono assicurati – ma questi bambini sembrano non provare più interesse per nulla e i loro occhi sono colmi di tristezza: è stata loro sottratta l’infanzia. Lācis decide quindi di tentare, tramite il gioco teatrale, di svegliarli dallo stato di apatia in cui sono sprofondati e di aiutarli a superare i traumi subiti. Riesce così a ottenere dal responsabile dell’Istruzione popolare della città il permesso di realizzare un teatro di bambini.
Lācis avvia quindi a Orël un esperimento pedagogico innovativo e radicale in cui confluiscono le proprie esperienze di vita, i principi della pedagogia marxista e la teoria e l’esperienza del teatro rivoluzionario. La sua pedagogia si caratterizza così anzitutto per la nitida consapevolezza che sempre ideali e pratiche educative, ben lungi dal possedere un carattere neutrale, veicolano interessi ideologici di classe. Lācis contrappone pertanto all’educazione borghese un’educazione proletaria e comunista. Della prima denuncia il ruolo di longa manus di un sistema economico che si alimenta delle diseguaglianze e che, nelle sue istituzioni educative, produce e riproduce soggetti ad esso funzionali e docili. Nella seconda individua la possibilità di una sovversione radicale del primo modello – una possibilità che risiede nelle «forze latenti» contenute nell’infanzia, che l’educatore ha il compito di sprigionare.
Nell’educazione borghese, nota Lācis, le attività dei bambini vengono sempre orientate al risultato, per il conseguimento del quale l’educatore tormenta gli allievi. Anche quando si propone ai bambini l’attività teatrale essa viene sempre diretta alla realizzazione dello spettacolo finale. «La società borghese» – scrive Lācis – «pretende dai suoi membri che producano merci il più rapidamente possibile, e questo principio si palesa nell’educazione dei bambini in tutti i suoi aspetti». Essa, prosegue Lācis, vuole «‘commercializzare’ l’individuo e le sue facoltà» (L’agitatrice, p. 69). A un simile modello pedagogico orientato alla performance, Lācis contrappone un’educazione il cui fulcro risultano essere il processo e le molteplici spinte creative che sorgono in itinere nel gioco teatrale. Queste «forze latenti» vengono fatte emergere tramite esercizi di improvvisazione (L’agitatrice, p. 68). Lācis propone ai bambini una serie di laboratori dedicati alla musica, alla costruzione di materiale scenografico, alla danza, alla ginnastica, alla dizione. La rivoluzionaria lettone descrive così il suo scopo: «io volevo che il loro occhio vedesse meglio, che il loro orecchio udisse più finemente, che le loro mani formassero dal materiale informe oggetti utili» (L’agitatrice, p. 68). L’educazione borghese – scrive – «tende a sviluppare una facoltà particolare, un particolare talento», e così «stimola gli individui unilateralmente» (L’agitatrice, p. 69). L’«educazione estetico-proletaria», per contro, mira allo sviluppo onnilaterale del bambino. L’educazione borghese mira a fare emergere le eccellenze e a separare gli individui, quella proletaria si propone, invece, di espandere le «facoltà artistiche e morali» dei bambini, «siano o non siano presenti attitudini particolari» (L’agitatrice, pp. 68-69).
Impossibile non sentire risuonare in queste righe l’eco dei Manoscritti economico-filosofici e del programma radicale di emancipazione in essi contenuto. Qui, infatti, Marx mostra come la società capitalista prosciughi la fondamentale dimensione poliedrica e sociale dell’individuo, la ricchezza delle interazioni che egli tesse con l’ambiente che lo circonda, con la natura e con gli altri esseri umani, riducendo la varietà di questi rapporti alla categoria unilaterale del possesso. Il programma marxiano mira, quindi, a restaurare la relazione complessa, articolata, creativa, che l’individuo intrattiene con la realtà circostante e con gli altri esseri umani tramite una pluralità di modalità: i cinque sensi, il pensiero, l’intuizione, la sensibilità, il volere, l’attività pratica, l’amore (Manoscritti, p. 113). La pedagogia di Lācis, coerentemente con questo programma, propone pertanto il recupero dell’onnilateralità dell’individuo – processo che vede come contesto imprescindibile il collettivo, inteso come gruppo in cui gli individui, invece di trovare una pseudo-soluzione privata alla propria sofferenza, unendosi si rafforzano e riescono a trasformare la realtà circostante.
L’attività teatrale coi bambini degli ospizi municipali ottiene effetti positivi. Più arduo risulta per Lācis coinvolgere i besprisorniki. Quando cerca di comunicare con loro le prime volte, essi la prendono in giro e la minacciano. Lācis, però, non demorde e continua a invitare i besprisorniki a unirsi al teatro proletario. Un giorno, mentre i bambini sono impegnati in un esercizio di improvvisazione sull’Alinur di Mejerchol’d, in cui recitano la parte di un gruppo di briganti che si ritrovano intorno al fuoco per vantarsi delle proprie scorrerie, si presenta all’improvviso la banda dei besprisorniki. I bambini dell’ospizio sono spaventati, ma Lācis li esorta a proseguire con l’improvvisazione. Così i besprisorniki, guidati dal loro capo, si inseriscono nella scena e prendono parte alla recita, vantandosi delle loro malefatte. Lācis è consapevole d’aver rischiato contravvenendo alle regole pedagogiche tradizionali, secondo le quali avrebbe dovuto «interrompere i loro discorsi selvaggi e impudenti», ma azzarda una diversa strategia e riesce così a coinvolgere i besprisorniki, che dopo questo episodio si uniscono al teatro proletario (L’agitatrice, p. 70).
Lācis precisa che solo quando l’attività del collettivo raggiunge per esigenze interne un certo grado di sviluppo viene presa in considerazione la possibilità di realizzare una rappresentazione pubblica. A un certo punto, infatti, i bambini sentono il bisogno di mostrare il lavoro svolto agli altri bambini della città. Lo spettacolo si traduce quindi in una sfilata lungo le strade che assume l’aspetto di una festa, di un corteo carnevalesco. Ed è proprio in questo momento che si manifesta pienamente la radicalità del programma di Lācis, che sfocia nella sfida a realizzare un ribaltamento del tradizionale modo di concepire e impostare il rapporto pedagogico fra educatori ed educandi. Di fronte al corteo dei bambini – scrive Lācis – «avevamo avuto la prova che era giusto far rimanere completamente in disparte gli adulti» (L’agitatrice, p. 71). Quello di Lācis non è infatti un teatro per bambini, ma un teatro di bambini, in cui il ruolo degli educatori consiste nell’osservare e tuttalpiù nell’agevolare il processo in cui vengono liberate le «tensioni sorprendenti» dei bambini (L’agitatrice, p. 71).
Il tema del rovesciamento del rapporto pedagogico, che costituisce l’aspetto più innovativo del lavoro di Lācis, sarà poi approfondito nel Programma per un teatro proletario di bambini di Walter Benjamin. Questo testo, sebbene raramente venga ricordato, fu redatto in collaborazione con Lācis affinché l’esperienza di Orël potesse essere replicata anche in Germania. Qui Benjamin ribadisce che agli educatori spetta la possibilità di esercitare un’influenza solo indiretta, perché sono le tensioni sprigionate dal lavoro collettivo dei bambini a diventare «esse stesse gli educatori» (L’agitatrice, p. 75). Nel teatro proletario di bambini – scrive Benjamin – «durante la rappresentazione i bambini stanno in scena e istruiscono ed educano gli attenti educatori» (L’agitatrice, p. 78). Benjamin evoca con compiaciuta ironia il terrore che la pedagogia e la società borghesi nutrono nei confronti della «grande forza del futuro» che risiede nei bambini, mettendo in luce la ricaduta dirompente che la sovversione dei modelli pedagogici può avere sul piano politico (L’agitatrice, p. 78). In conclusione, per Lācis e Benjamin non è il bambino che apprende dall’educatore; viceversa è l’educatore che apprende assistendo al «selvaggio scatenamento della fantasia» dei bambini (L’agitatrice, pp. 78-79). Il gioco infantile diventa così modello della rivoluzione da cui gli adulti possono solo imparare.
Nei Manoscritti Marx scriveva che l’economia politica s’interessa soltanto del lavoratore occupato: «il furfante, lo scroccone, il mendicante, l’uomo da lavoro non occupato, affamato, miserabile e delinquente, sono figure che non esistono per essa, ma soltanto per altri occhi, quelli del medico, del giudice, del becchino, dello sbirro che sorveglia l’accattonaggio, ecc. spettri fuori del suo regno» (Manoscritti, p. 90). La pedagogia di Lācis si propone di restituire visibilità a questi spettri, ridestarli e sprigionare la loro forza rivoluzionaria. Nell’introduzione alla versione italiana di Revolutionär im Beruf Eugenia Casini-Ropa ha messo in evidenza come Lācis abbia rinunciato al tradizionale esercizio della professione di regista (L’agitatrice, p.46). Questo rifiuto può essere esteso anche alla sua attività di educatrice e rappresenta oggi più che mai un prezioso e urgente invito all’esercizio rivoluzionario di questa professione.
Testi citati
A. Lācis, L’agitatrice rossa. Teatro, femminismo, arte e rivoluzione, a cura di A. Brinkmanis, Meltemi, Milano 2021.
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di E. Donaggio e P. Kammerer, Feltrinelli, Milano 2018.
U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000.