Ricordo di Giulio Angioni
“Negli ultimi anni Giulio Angioni aveva pensato e scritto di una “scuola antropologica sarda” nata da un nucleo cagliaritano formato da maestri non sardi, Ernesto De Martino e Alberto Cirese, chiamati da Giovanni Lilliu, il grande archeologo scopritore della reggia nuragica di Barumini, a insegnare a Cagliari dentro un progetto di apertura della cultura sarda. A partire dai primi anni settanta del Novecento, questa scuola è stata costruita, nel tempo di sessant’anni, dagli allievi sardi di entrambi quei grandi antropologi non sardi, tra i quali Giulio, ma anche da Clara Gallini e da alcuni allievi più giovani poi emigrati, andati a insegnare fuori dell’isola”. È l’incipit del ricordo del maestro scritto dall’allievo più vicino, Pietro Clemente, formatosi a Cagliari e poi “emigrato” a Roma, a Siena e infine a Firenze; ricordo affidato alla testata web Sardinia Post nel giorno della morte di Angioni, il 12 gennaio scorso. Continua Clemente. “Pensandoci mi viene in mente Giulio nei primi anni settanta, quando facevamo insieme gli esami, lui già professore e io volontario, mentre la Facoltà di Lettere di Cagliari viveva ancora la stagione delle ribellioni. Fummo separati dal Sessantotto: Giulio, che era come un fratello maggiore per me, più grande solo di tre anni, era già laureato, insegnava, e poi fece il consigliere comunale del Pci a Guasila, il suo paese natale, mentre io partecipavo al movimento studentesco e ai gruppi extraparlamentari. Forse Giulio ci guardava come dei figli di papà, allora. Lui che, membro di una grande famiglia contadina, aveva studiato in collegio in Piemonte, trattenendone duri ricordi di uno stigma escludente, e aveva lavorato a Milano da migrante per finire gli studi. Fummo sempre così nel tempo: vicini nella distanza. Quando ho saputo della sua malattia e ho raccolto la sua testimonianza di consapevolezza serena del passaggio, ci siamo detti con riserbo la nostra amicizia. Ho ripassato la sua presenza nella mia vita. Fu lui che volle che andassi al suo posto a insegnare a Roma e raccogliere l’eredità di Cirese. Fu lui che riannodò spesso le fila richiamando noi emigrati universitari a collaborare con studi e convegni sardi. Fu lui a regalarci lo stupore dell’amico che si fa scrittore, che apre quel suo grande laboratorio di storie, di vissuti, insieme segreto e gestito come in una doppia vita, e anche palese, fatto per essere letto, aperto alle persone: luogo e pagina dove riconoscersi”.
Credo che niente meglio di questo racconto di Clemente possa far capire che cosa sia stato Giulio Angioni come docente universitario. Uno degli ultimi maestri che abbiano fatto scuola in un’università oggi devastata da burocrazie ministeriali in linea con il comune sentire di un tempo che del pensiero critico e della ricerca vera non sa che farsene. E credo anche che Clemente abbia colto bene come il nesso tra Angioni antropologo e Angioni scrittore fosse in una volontà di apertura, di comunicazione: spiegare con lo strumento della letteratura come l’enorme carico di dolore prodotto da un mondo che moriva, quello contadino descritto nella più importante opera scritta da Giulio come antropologo, Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna (Il Maestrale 2003), si fosse drammaticamente insediato nei corpi, nelle vite, di almeno tre generazioni di sardi. Ha quindi ragione Luciano Marrocu, storico dell’età contemporanea formatosi anch’egli, come allievo di Paolo Spriano, nella temperie della Cagliari tra la fine dei sessanta e l’inizio dei settanta, quando scrive: “Non è affatto difficile trovare dentro Il sale sulla ferita (Marsilio 1990) – il romanzo per me più bello di Giulio – le idee e i contenuti di un saggio che avrebbe potuto scrivere con le parole e gli strumenti della più raffinata antropologia accademica. Dei due compaesani sardi che nel racconto si incontrano a Berlino, uno è un camionista emigrato, l’altro uno studioso della vita contadina. L’incontro è l’occasione per ricostruire e ripensare alla scomparsa di un loro compaesano, avvenuta durante l’occupazione delle terre degli anni quaranta e cinquanta. Ma è chiaro che ad essere scomparso è tutto un mondo, rimasto uguale a se stesso per secoli. Mentre la scoperta dello studioso di essere implicato nella tragedia del compaesano ucciso, che altro può essere se non l’espressione del coinvolgimento del testimone-antropologo nella fine di un mondo che è stato anche il suo?”.
Fine di un mondo che chiama non alla resa ma a responsabilità nuove. Alle quali Giulio Angioni non si è mai sottratto. Ricordiamo la sua costante presenza nel dibattito pubblico sardo su temi come la difesa dell’ambiente dalle speculazioni dei signori del mattone, la tutela del paesaggio e del ruolo delle Soprintendenze contro il tentativo di metterle fuori gioco a favore dei devastatori, l’educazione come terreno decisivo per contrastare l’omologazione di massa a un pervasivo codice non scritto che insieme con le differenze vorrebbe cancellare ogni possibile resistenza. E poi il suo costante ribadire, sulla questione sempre aperta in Sardegna dell’autonomia regionale o dell’indipendenza nazionale, che nessuna identità può essere affermata se non sulla base di una verifica rigorosa dei rapporti di forza in campo (chi comanda e chi subisce), con l’avvertenza decisiva che i dislivelli di potere non passano soltanto tra sardi e non sardi, ma segnano anche, in maniera forse ancora più netta e cogente, la società isolana. Altrimenti finisce che, spiegava Giulio, la bandiera dei Quattro Mori diventa – come di fatto tante volte è diventata – un paravento della conservazione più bieca.
Sulla questione della lingua, poi, Giulio non ha mai smesso di richiamare, contro le gerarchie di potere ma anche contro le chiusure identitarie, le potenzialità universali di ogni parlata umana. In uno dei suoi ultimi saggi, affidato alle pagine della rivista on line “Il manifesto sardo”, scriveva: “Qualunque parlata umana può dire all’infinito di infiniti argomenti, se messa alla prova: possiede cioè l’universalità o onnipotenza semantica. Hanno molte ragioni i linguisti e gli antropologi quando evidenziano queste possibilità, esclusive dei linguaggi umani e quindi distintive dell’uomo. Ancorarsi al fondo sicuro delle caratteristiche universali del dire, di ogni modo umano di parlare, è utile anche per fare qualche conto con certi dati del senso comune. Non è buonismo antropologico politicamente corretto affermare, per esempio, con Edward Sapir, che, come parlanti, “Platone cammina a braccetto col porcaro macedone e Confucio col selvaggio cacciatore di teste dell’Assam”. Poche cose al mondo sono meno incerte dell’universalità semantica come tratto comune a ogni lingua umana, sebbene sia tra le cose al mondo più negate o messe in dubbio dal senso comune nelle varie culture. Infatti non è cosa soltanto dei greci antichi considerare meno umani, barbari, i modi di parlare (e di vivere) dei non greci, ma è cosa che si fa ogni giorno dappertutto per quelli del quartiere o del paese vicino, e oggi, nelle nostre città plurali e nell’attuale acculturazione globale, per il mondo multilingue che si riforma in ogni luogo riproducendo la varietà linguistica e più largamente culturale dell’ecumene. La quale così ci è più prossima, anche a riprova dell’universalità ovvero onnipotenza semantica di ogni parlata umana sulla terra”.