Ricordo di Franco Loi

Franco Loi se ne è andato. L’avevo conosciuto tanti anni fa, quando aveva ripreso a scrivere per “l’Unità”, per le pagine dei libri. Loi era stato comunista e aveva altre volte, in passato, scritto per il giornale del Pci. Ricordo le sue visite in redazione: un uomo gentile, quasi intimidito, dal tono sommesso, velato. Ho letto e riletto le sue biografie e quanto hanno scritto i giornali. Che l’hanno, un po’ all’improvviso, riscoperto, come capita per alcuni quando si muore.
Loi aveva novant’anni. Quasi un secolo, di cui aveva visto molto, anche l’epidemia di coronavirus in ultimo.
Aveva dieci anni quando l’Italia fascista entrò in guerra. Aveva quattordici anni quando, il 10 agosto del 1944, dal Casoretto, quartiere popolare del nord est milanese (il quartiere di Fausto e Iaio), dove viveva con i genitori immigrati, raggiunse piazzale Loreto e scoprì, come tanti altri milanesi, i cadaveri dei quindici antifascisti assassinati dalle brigate nere della Muti. Raccontò (“Con la violenza e la pietà. Poesia e resistenza”, Interlinea): “C’erano molti corpi gettati sul marciapiede, contro lo steccato, qualche manifesto di teatro, la Gazzetta del Sorriso, cartelli, banditi! Banditi catturati con le armi in pugno! Attorno la gente muta, il sole caldo. Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia, calze sporche; (…) ai miei occhi di bambino era una cosa inaudita: uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati!”.
Quella visione, quelle immagini, quello sgomento divennero più avanti una poesia nelle pagine di Stròlegh (Streghe): “Piazza Loreto dominata dal Titanus”. Il Titanus era un enorme albergo, requisito dalla Wehrmacht, demolito negli anni cinquanta, un albergo talmente grande da dominare la scena… A fianco il cinema Novecento, anch’esso sparito…
…piassa Luret, serva del Titanus/ ti’, verta,/ me na man da la Pell morta/ i gent che passa par j a vör tuccà,/ e là, a la steccada che se sterla,/ sota la colla di manifest strasciȃ,/ l’è là che riden, là, che la gent surda/la streng i gamb, e la vurìss sigà./ Genta punciva che la se smangia ‘doss,/ che la ravìscia ai pè, cume quj trémul/ che, ‘rent al giüss, se sviccen vers el ciar/ e sott la rùsca passa la furmiga/ che l’è terrur e rabbia e sbalurdur./ E lì, bej ‘nsavunȃ, dal pel rasà,/ senta süj cass de legn, o, ‘m’i ganassa,/ ranfiȃ, ch’i sten par ténder caressà,/ o che, tra n’rid e un dìss üsmen cress j ödi/ de la camisa nera i carimà,/ vün füma, n òlter pissa, un ters saracca,/ e ‘n crìbben, cui sò fà de pien de merda,/ man rosa ai fianch el cerca j öcc nia…/ Oh genti milanes,/ vü, gent martana,/ tra ‘n mezza nün ‘na gianna la dà ‘n piang, / e l’è ‘na féver che trema per la piassa/ e la smagriss i facc che morden bass./ Ehi, tu…!…si tu!…che vuoi? / Manca qualcosa?/ Mì…?/ Si, tu./ e ‘na magatel cul mitra sguang/ el ranfa per un brasc quèla che piang./ Mi, sciur…?/ Tira su la testa!/ e lentarnent,/ ‘m rìd una püciànna, i òcc gaggin/ sbiàven int j òcc ch’amur je fa murì,/ pö, carmu, ‘na saracca sliffa secca/ tra i pé de pulver, e sfrisa ‘me ‘na lama/ l’uggiada storta tra qui òmm scalfa, (…)
…piazza Loreto, dominata dal Titanus/ tu, aperta,/ come una mano dalla pelle morta/ sembri voler toccare la gente che passa,/ e là, presso la staccionata sconnessa/ sotto la colla dei manifesti stracciati,/ è là che ridono, là, che la gente sorda/ stringe le gambe e vorrebbe gridare./ Gente che pensa in silenzio che si smangia dentro,/ che mette le radici ai piedi, come quei tremolii/ che, presso al letame, si diramano verso la luce/ e sotto la corteccia passa la formica/ che è il terrore e la rabbia e lo sbalordimento./ E lì, ben lavati, con la barba rasata,/ seduti sulle casse di legno, o, come i più impudenti,/ attaccati alla staccionata, che sembrano accarezzare teneramente gli sten,/ o che tra il ridere e il parlare, annusano crescere gli odi/ gli occhi lividi delle camicie nere/ uno fuma, un altro piscia, un terzo sputa,/ e un delinquente, col suo modo di fare pieno di merda/ con le mani rosate sui fianchi cerca gli occhi che gli si negano…/ O gente milanese,/ voi, gente laboriosa,/ in mezzo a noi una povera donna scoppia a piangere,/ ed è una febbre che trema per la piazza/ e fa smagrire le facce che stringono i denti a testa bassa./ Ehi tu…!..si tu!..che vuoi?/ Manca qualcosa?/ Io…?/ Si, tu,/ e un teppista col mitra puttana/ afferra per un braccio quella che piange./ Io signore…?/ Tira su la testa!/ e lentamente,/ come ride una baldracca, gli occhi bianchicci/ sbavano negli occhi che l’amore fa morire/ poi, calmo, tira secco uno sputo/ tra i piedi nella polvere, e graffia come una lama/ l’occhiata storta tra quegli uomini scorticati,(…)
Mi viene adesso di ripetere: piassa Luret, serva del Titanus. “Serva” vale molto di più del “dominata” della traduzione, che è solo descrizione. “Serva” già spiega la prostrazione nostra di fronte al nemico nazista e fascista, che ha invaso anche l’albergo.
Neppure un anno dopo, il 28 aprile 1945, Franco Loi, quindicenne, sarebbe tornato in quella piazza, questa volta in compagnia di un amico, Sergio Temolo, figlio di uno di quei quindici antifascisti assassinati. Sergio, veneto di origine, e Franco erano coetanei e compagni di strada: così impararono il dialetto, ascoltandolo come una musica di fondo.
Dall’alto di un cumulo di macerie guardarono verso la pensilina di un distributore di benzina. La scena era mutata: i cadaveri appesi… Mussolini, la Petacci, Starace, Pavolini…
Le tragedie della storia vissuta in proprio restano nel cuore. Se poi vi si assiste, restano negli occhi, indelebili immagini. Credo che da lì nasca la poesia di Franco Loi, dalla scuola del sangue e del dolore, come i versi durissimi, le parole che suonano come strappi, come stridio violento, come graffi, e che risuonano di sdegno, di rabbia ma anche di pena.
Franco Loi era nato a Genova, da un padre sardo, impiegato delle ferrovie, e da una madre emiliana, di Colorno, il paese della reggia di Maria Luigia che sarebbe diventata uno dei più cupi manicomi italiani. Aveva sette anni, quando la famiglia si trasferì a Milano. Al Casoretto già risuonava la “guerra”. La Spagna, la Libia del criminale Graziani. Di lì a poco la guerra sarebbe scoppiata poche oltre la porta. Di lì a poco sarebbe scoppiata dentro casa. Questa fu l’educazione per una generazione e più.
Però Franco Loi riuscì a studiare. Tornata la pace, divenne ragioniere e continuò a studiare con il fervore dell’autodidatta, dalla sociologia alla psicoanalisi di Freud ai grandi poemi, Tasso, Ariosto, Virgilio: “In un certo senso, ero più interessato al racconto che alla lingua poetica. La mia formazione è stata narrativa e filosofica, non pensavo alla poesia”. Si impiegò alla Rinascente, prima come contabile e quindi all’ufficio pubblicità. Una decina d’anni più tardi, entrò alla Mondadori. Arrivò all’ufficio stampa. Suo collega era Ferruccio Parazzoli, lo scrittore cattolico che lo condusse a conoscere don Milani. Vuole la leggenda che il prete di Barbiana li mettesse a dormire nello stesso letto a una piazza, uno di testa, l’altro di piedi. Capitava anche così, allora.
Uno dei capi del personale in Mondadori era Vittorio Sereni, il poeta, al quale Loi chiese una riduzione dell’orario di lavoro: per studiare e scrivere.
Erano i tempi in cui Loi scopriva la poesia e scriveva: incessantemente, in tram, camminando, a casa, appunti, foglietti, libriccini che teneva in tasca. Scrisse un romanzo, attorno alla vita del padre, romanzo che sarebbe stato pubblicato molti anni dopo, Diario minimo dei giorni. Ma alla poesia andava la sua vocazione. Nacquero via via tanti libri: I cart (1973), Poesie d’amore (1974), Stròlegh (1975), Teater (1978), L’Angel (1981), Bach (1986), Liber (1988), Memoria (1991), Umber (1992), Aria de la memoria (2002). Tanti altri ancora. In dialetto milanese, rielaborato, ricostruito, attraverso le letture degli autori preferiti, Maggi e Porta e poi Delio Tessa, ma soprattutto attraverso l’esperienza, l’osservazione, l’ascolto, arcaismi, forestierismi (dal tetro ambaradan, memoria di una strage in Libia, al musicale cumparsita, il tango uruguagio, divenuti nell’uso popolare sinonimi di caos, di confusione, di baraonda), neologismi della parlata quotidiana, storpiature, contaminando e inventando, costruendo una lingua di forte originalità espressiva, dal suono che colpiva, una lingua che si faceva strumento di critica sociale e politica.
Non scelse l’italiano, perché gli sembrava che riflettesse la voce dei potenti. Il dialetto invece apparteneva al proletariato di quei decenni, prima della sconfitta definitiva, della “mutazione antropologica”. Adottò il milanese, anche se a casa da bambino avrebbe potuto ascoltare solo espressioni sarde o emiliane. Disse una volta che al dialetto lo aveva sospinto la poesia del Belli, romano: “Mi colpiva la sua capacità di rendere un mondo intero in quattordici versi. In uno spazio metricamente limitato, riusciva a metterci un sacco di cose. In questo è davvero straordinario. Sull’onda dell’entusiasmo di quella lettura, nel settembre del ’65 scrissi più di cento poesie… Ma le ragioni della scelta del milanese furono, prima ancora che estetiche, psicologiche e politiche, nel senso di una affermazione della vicinanza alla classe operaia. Allora tutti a Milano parlavano dialetto, salvo forse i toscani e i veneti. Lo parlavano persino i lavoratori meridionali, perché il dialetto rappresentava la lingua dell’integrazione…”. Il dialetto come lo specchio aggiornato di un paese ancora diviso “di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini…” contro un’Italia “di lingua illustre e scritta” (per dirla col Gioberti di un secolo prima), quella che il fascismo prima e la televisione poi con ben altra potenza di fuoco e con ben altri risultati avrebbero imposto (“la maestra mi segnava con la matita blu ogni accenno al dialetto”), omologata, mortificata, appiattita. Attraverso il dialetto si compone l’appartenenza al mondo degli sfruttati, dei diseredati, degli oppressi. Nella poesia vive un’espressiva tensione alla protesta, alla denuncia, alla lotta: prima contro la dittatura, poi contro un sistema, che è politica, cultura, lavoro e che, pure attraverso mutamenti radicali, lascia il potere al suo posto, non lo condivide, lo esercita in modo egoistico.
Dopo la guerra, Franco Loi frequentò il nostro breve Sessantotto, ne riconobbe l’originale slancio libertario, ma anche il progressivo regredire nella violenza, prima delle urla di strada poi dei fatti. Ne avvertì la deriva e quindi il fallimento, ne pesò il danno in una società quasi incitata poco alla volta a tradire per reazione le sue fondazioni, i suoi ideali, le aspirazioni dei più deboli, per ritrovarsi oggi incapace di uno sguardo lontano, di fraternità, di comunanza, pure di fronte alle continue catastrofi.
In una frase recente, “oggi la poesia è forse l’unica istanza di resistenza al processo in atto di disgregazione dell’uomo e della società civile”, è la contestazione a un universo relegato ai consumi e insieme la delusione per il fallimento di una politica e soprattutto di ogni spirito di rivolta, di ogni speranza di emancipazione, delusione che si stempera, dopo la sconfitta, nella solidarietà degli affetti, nella tenerezza dell’aria, nel sentimento della natura, nell’accoglienza religiosamente dei limiti dell’esistenza: “L’è ‘rivà ‘l dì, e mi sun tèra morta./ Piàngen i donn, j òmm pàren vardà./Me scundaràn nel lègn, e la memoria/ vegnarà dré, cume fa i gent, cuj facc”. (È arrivato il giorno, e io sono terra morta./ Piangono le donne, gli uomini sembrano guardare./ Mi nasconderanno nel legno, e la memoria/ verrà dietro, come la gente, con le facce. Da Liber).
La poesia di Franco Loi è storia e può essere romanzo, come nel caso di Stròlegh, successione di quadri di una Milano operaia negli anni quaranta e cinquanta, o di Angel, rappresentazione di straordinaria potenza (dove accanto all’uso del milanese, compare quello del genovese, del romanesco e dell’emiliano di Colorno) di un immaginario errare del protagonista, che sente in se stesso l’angelo, tra le vicende del suo tempo.
A proposito di Stròlegh raccontava: “L’ho scritto in due settimane tra giugno e luglio, perché ero da solo in casa. Giravo per le stanze e recitavo quello che sentivo, quello che veniva fuori da me. Quando la mia mente non ce la faceva più a ricordare, mi sedevo e scrivevo”. È la testimonianza del suo modo di sentire la poesia: sentirla come riceverla e poi ritrovarla nello scritto, riconoscendo la libertà e la forza dell’ispirazione e insieme la passione, l’impegno di fronte ai casi materiali della vita. La libera, anarchica religione dello spirito che muove il poeta oltre le macerie del presente.
Un anno fa, in occasione del suo novantesimo compleanno, Garzanti aveva riproposto Da bambino il cielo, appassionante resoconto autobiografico (in collaborazione con Mauro Raimondi). Il resoconto amaro di un lungo viaggiare: “In d’i parol sèm grand e sèm unest./ Dumà in d’i parol, che ne la vita/ l’è la pagura che se ciappa el rest”. (Nelle parole siamo grandi e siamo onesti./ Soltanto nelle parole, ché nella vita/ è la paura che si prende il resto. Da Liber).
Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient
da “Liber” (1988)
Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient,
forsi memoria sèm, un buff de l’aria,
umbría di òmm che passa, i noster gent,
forsi ‘l record d’una quaj vita spersa,
un tron che de luntan el ghe reciàma,
la furma che sarà d’un’altra gent…
Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria,
e quanta vita se porta el vent!
Andèm sensa savè, cantand i gloria,
e a nüm de quèl che serum resta nient.
Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente
da “Liber” (1988)
Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,
forse memoria siamo, un soffio d’aria,
ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,
forse il ricordo d’una qualche vita perduta,
un tuono che da lontano ci richiama,
la forma che sarà di altra progenie…
Ma come facciamo pietà, quanto dolore,
e quanta vita se la porta il vento!
Andiamo senza sapere, cantando gli inni,
e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.
Se scriv perchè la mort, se scriv ’me sera
da “L’Aria” (1981)
Se scriv perchè la mort, se scriv ’me sera
quan’l’òm el cerca nient nel ciel piuü,
se scriv perchè sèm fjö o chi despera,
o che ‘l miracul vegn, forsi vegnü,
se scriv perchè la vita la sia vera,
quajcòss che gh’era, gh’è, forsi ch’è pü.
Si scrive perchè la morte, si scrive come sera
da “L’Aria” (1981)
Si scrive perchè la morte, si scrive come sera
quando l’uomo cerca niente nel cielo piovuto,
si scrive perchè siamo ragazzi o chi dispera,
o che il miracolo venga, forse venuto,
si scrive perchè la vita sia più vera,
qualcosa che c’era, c’è, forse non c’è più.
L’angel. Parte Prima
IX
…Vegnivum da la guèra, e per la strada
gh’evum passȃ insèma amur, dulur.
Amô sparaven, amô gh’eren i mort,
ma serum nüm, serum class uperara,
nüm serum i scampȃ da fam e bumb,
nüm gent de strada, gent fada de mort,
nüm serum ’me sbuttî dai fòpp del mund,
e, nun per crüdeltȃ, no per despresi,
mancansa de pietȃ, roja de nüm,
ma, cume ’na passiun de sû s’ciuppada,
anca la nott nüm la vurevum sû…
Ciamila libertȃ, ciamila sbornia,
ciamila ’me vurì…Festa ai cujun!
…ma nüm, che l’èm patida propi tüta,
anca la libertȃ se sèm gudü!”
L’angelo. Parte Prima
IX
…Venivamo dalla guerra, e per la strada
ci avevamo passato insieme amori, dolori.
Ancora sparavano, ancora c’erano i morti,
ma eravamo noi, eravamo classe operaia,
noi eravamo gli scampati dalla fame e dalle bombe,
noi, gente di strada, gente fatta di morte,
noi eravamo come germinati dalle fosse del mondo,
e non per crudeltà, non per disprezzo,
mancanza di pietà, vomito di noi,
ma, come una passione di sole esplosa,
anche la notte noi la volevamo sole…
Chiamatela libertà, chiamatela sbornia,
chiamatela come volete…Festa ai coglioni!
…ma noi, che l’abbiamo patita proprio tutta,
anche la libertà ci siamo goduti!
L’angel. Parte Seconda
LVIII
Ma s’àn sbaliȃ el Crist e pö ‘Lenin,
sé ’l vör un àngiul che pö l’è ’n grass de rost?
I bun resun în pan dumȃ per chi
cun la resun ghe magna dì e nott,
ma l’òm cun l’òlter òm el se fa tost,
el g’à paüra a dì quèl che l’infescia,
el se fa sü, el cünta ball, el tòlla,
e tì cuj tò resun te sé cundî.
Dunca a fà l’àngiul ghe poch de rampegà,
ché l’àngel l’è la sulfa del vèss sul,
de ’vègh paüra che l’òm el te martèla,
paüra enfin che ghe sia mai resun
e mai l’ümanitȃ ghe sia surella,
ché nüm se sèttum denter ‘na presun
e se fèm àngiul per speransa al sû.
L’angelo. Parte Seconda
LVIII
Ma se hanno sbagliato il Cristo e poi Lenin,
cosa può farci un angelo, che poi è meno di niente?
Le buone ragioni sono valide soltanto per quelli
che la ragione la frequentano giorno e notte,
ma l’uomo con l’altro uomo si fa duro,
ha paura di confessare ciò che lo tormenta,
s’imbroglia da solo, racconta menzogne, scappa,
e tu con le tue ragioni sei fatto fesso.
Dunque a far l’angelo c’è poco da raccogliere,
ché l’angelo ha il destino della solitudine,
di aver paura che l’uomo l’aggredisca,
paura infine che non ci sia mai una ragione
e mai l’umanità ci sia sorella,
ché noi ci sediamo dentro una prigione
e se facciamo gli angeli è per avere una speranza.
La gàbia del leun
da “L’Aria” (1981)
La gàbia del leun l’era de aria,
de aria la mia mama, quèl cappell,
el brasc del mè papà l’era de aria
sü la mia spalla, i mè man che streng,
e aria el rìd di öcc e duls de aria
de quèla vita ch’ù insugnȃ, l’azerb.
Eren de aria lur, e mì, chissà,
che sun stȃ, fermu a vardàj andà.
La gabbia del leone
da “L’Aria” (1981)
La gabbia del leone era di aria,
di aria la mia mamma, quel cappello,
il braccio di mio padre era di aria
sulla mia spalla, le mie mani che stringono,
e aria il ridere degli occhi e dolce d’aria
di quella vita di cui ho sognato l’acerbo.
Erano d’aria loro, e io, chissà,
che sono stato fermo a guardarli andare.
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