“Questa è la nostra rivoluzione”: essere giovani nelle proteste iraniane oggi

Generazioni a confronto
Sabina ha 39 anni e lavora come architetta a Tehran, una megalopoli in cui, negli ultimi trent’anni, l’industria edilizia è cresciuta come un fungo invasivo le cui proliferazioni si estendono ovunque si posi lo sguardo. Sgusciando dei pistacchi portati direttamente dal sud dell’Iran, pensosamente, ha condiviso con me la sua prospettiva sull’evoluzione delle manifestazioni e, soprattutto, sulla sua partecipazione: “La mia generazione non sta partecipando molto… nel 2009, durante il Movimento Verde, ci hanno bastonati troppo. Abbiamo troppa paura. Ma le nuove generazioni… sembrano non avere paura di niente. Li ammiro, ma mi sento anche molto in colpa perché li incoraggiamo, diciamo loro ‘bravi, wow’, li spingiamo per le strade, ma guarda quanti ne uccidono”.
A ormai sette mesi dalla morte di Jina Mahsa Amini, la giovane donna curda deceduta dopo tre giorni di detenzione da parte della cosiddetta polizia morale (Gasht-e-Ershad) per un presunto uso scorretto del velo obbligatorio, le proteste popolari in Iran non si sono placate ma sembrano essere entrate con la primavera in un momento di “ripensamento” delle proprie dinamiche e modalità di azione e con un terreno di scontro in continuo mutamento. E se, inizialmente, la rabbia delle folle sembrava scagliarsi principalmente contro la violenza repressiva delle forze dell’ordine e le discriminazioni subite dalle donne, le proteste hanno cominciato ben presto a prendere di mira l’intero assetto della Repubblica Islamica stessa, chiedendone la fine.
Rispetto ai più significativi episodi degli ultimi anni – il cosiddetto Movimento Verde del 2009 e le molteplici proteste del triennio 2017-2020 contro l’inflazione e le deteriorate condizioni economiche – le attuali insurrezioni presentano diverse novità simbolo delle trasformazioni in corso nella società iraniana. Quella della generazione è una delle lenti attraverso cui è possibile osservare e raccontare questa rivolta.
L’Iran ha sperimentato una “transizione demografica” estremamente rapida: dopo il boom di nascite degli anni Ottanta la popolazione ha iniziato a subire un veloce processo di invecchiamento; sebbene l’età media sia ancora relativamente bassa (32 anni circa nel 2020, in confronto ai 42 dell’Italia), il crollo delle nascite degli ultimi decenni ha contribuito a un progressivo rallentamento della crescita demografica, con significative conseguenze economiche e politiche. Sempre meno donne che fanno figli, dunque, e una ampia coorte di giovani adulti che si affaccia su un mercato del lavoro saturo e in difficoltà. Le recenti disposizioni introdotte dall’inizio del nuovo millennio, come la Legge per la protezione della famiglia e il ringiovanimento della popolazione, sono frutto di questa rinnovata ansia per l’invecchiamento demografico. Al grido di “se continuiamo così, saremo una nazione di anziani”, e “i contraccettivi sono un’imitazione dello stile di vita occidentale”, sono state re-introdotte nuove, severe restrizioni per l’accesso agli anticoncezionali e all’interruzione di gravidanza che dovrebbero, secondo le autorità, incentivare le famiglie iraniane a procreare di più. Misure, queste, giudicate inutili dai più laddove i principali problemi che i giovani si trovano ad affrontare oggi riguardano invece la disoccupazione, il costo della vita e la questione abitativa.
Generazioni differenti presentano approcci differenti a temi quali il femminismo, la parità di genere e la partecipazione politica. È a partire da questo presupposto che diviene cruciale analizzare la composizione delle diverse generazioni di giovani iraniani presenti oggi nella scena pubblica.
La Terza Generazione iraniana
Le generazioni nate dopo la Rivoluzione iraniana del 1979 costituiscono oggi circa il 60% degli oltre 80 milioni di abitanti della Repubblica Islamica dell’Iran e sono emerse come le protagoniste indiscusse della società civile negli ultimi trent’anni e soprattutto delle proteste del 2009, 2017 e 2022. Divenuta oggetto di analisi sociologiche e politiche in particolare grazie al Movimento Verde, questa “Terza Generazione”, come viene spesso definita, è stata sin da allora al centro dell’attenzione internazionale e dei media occidentali in particolare, sempre più di sovente indicata come la nuova attrice in grado di mettere in moto un cambiamento rivoluzionario della società iraniana, del suo sistema politico e delle relazioni di genere. Sebbene tali avvenimenti non si siano ancora del tutto dispiegati, la rappresentazione della gioventù iraniana (e delle donne in particolare) è rimasta immutata, molto spesso ingabbiata in una raffigurazione dei ruoli di genere fortemente standardizzata e strutturata in due poli opposti ed inconciliabili: un antagonismo dialettico spezzato tra categorie quali “tradizionale” e “moderno”, spesso e volentieri svuotate del loro significato e ricondotte a posizionamenti politici fruibili agli occhi occidentali.
La mancata esperienza della rivoluzione del 1979 è senza dubbio la caratteristica principale di questa generazione, cresciuta in buona parte durante e dopo la cosiddetta “Era della Ricostruzione” successiva alla guerra con l’Iraq (1980-1988), nel mezzo di profonde riforme sociali e politiche e dell’introduzione di nuove tecnologie che hanno radicalmente mutato il modo in cui le persone interagiscono e comunicano. Vi sono, tuttavia, differenze anche tra le diverse coorti post-rivoluzionarie che affondano le loro radici nei diversi contesti politici, economici e sociali in cui sono nate e cresciute.
I giovani nati negli anni Ottanta sono comunemente denominati “dahe-ye shasti-ha” (letteralmente, “degli anni Sessanta”, ovvero gli anni Ottanta del calendario gregoriano), cresciuti in una decade saturata da un ethos egemonico del lutto, del martirio e del sacrificio, un’estetica della modestia e un’economia di sopravvivenza dettati dal clima post-rivoluzionario e bellico. Una giovane donna della classe media di Tehran, nata nel 1983, ha lungamente raccontato le condizioni di deprivazione a cui ha assistito durante la propria infanzia, quando: “a scuola un giorno ci fu impedito di portare delle banane per merenda: dicevano che erano un frutto per ricchi, e avremmo messo a disagio i nostri compagni più poveri, i figli dei martiri. Avremmo dovuto essere tutti uguali, non mostrare alcun segno del nostro status. Era assurdo”.
Dominati dall’amministrazione pragmatica di Rafsanjani (1989-1997) prima e da quella riformista di Khatami (1997-2005) dopo, gli anni Novanta, al contrario, sono stati marcati da una vorticosa crescita economica, dall’apertura ai mercati internazionali, dal progresso tecnologico e da una nuova logica del consumo come dirette conseguenze dei processi di capitalizzazione e globalizzazione di cui l’Iran tentava di rendersi partecipe. Complici la fine del conflitto e la morte dell’Ayatollah Khomeini nel 1989, gli “anni della distrazione” hanno visto una parziale depoliticizzazione dello spazio pubblico; lussuosi centri commerciali, cafè, ristoranti e parchi pubblici sono divenuti palcoscenico per nuove pratiche di consumo e socializzazione soprattutto per i ceti urbani più istruiti.
I giovani nati negli anni Novanta e Duemila non hanno esperienza diretta del conflitto con l’Iraq e possiedono, nella maggior parte dei casi, una limitata memoria delle trasformazioni economiche, politiche e sociali dell’amministrazione riformista. Il governo, la letteratura e parte della popolazione stessa hanno per anni concordato nell’attribuire a questi giovani passività, mancanza di impegno civico e coinvolgimento sociale, arrivando a definirla una generazione che “postpone l’attivismo sociale al fare la manicure” (Ahmadi Khorasani, 2017). Una attivista di 56 anni intervistata nel 2018 sul ruolo delle giovani generazioni si è espressa con estrema severità in merito, commentando che: “Mentre la mia generazione, nel bene e nel male, qualcosa ha provato a farlo, i giovani di oggi non si preoccupano di niente. Non fanno volontariato, non sono coinvolti in cose civiche, sono egoisti”. Analogamente, un uomo di 52 anni intervistato nel 2019 ha espresso la propria frustrazione ribadendo che: “I giovani di oggi pensano che tutto gli sia dovuto. Se torno a casa e dico a mio figlio che deve fare qualcosa, che questa casa non è un divano, mi risponde che non ha mica chiesto lui di nascere, che è una mia responsabilità. Non si preoccupano di nulla”. Altre autrici più di recente hanno cercato di proporre una lettura che evidenzi invece l’approccio politico radicalmente innovativo di questa generazione e il rifiuto delle tradizionali forme di azione collettiva come un preciso posizionamento frutto, in parte, di specifici processi di ingegneria sociale portati avanti dalle istituzioni nel corso degli anni. Molti giovani uomini e donne nati negli anni Novanta, per esempio, dichiarano di non aver mai votato alle elezioni politiche o di averlo fatto solamente in circostanze eccezionali, come affermato da un ragazzo di 32 anni secondo cui: “Io non ho mai votato, lo rivendico espressamente, non penso che serva a nulla, non riconosco questo Stato e penso di contribuire alla società in altri modi, questo modo di fare politica non lo riconosco”.
Asef Bayat (2017) interpreta la gioventù iraniana post-rivoluzionaria come una “categoria sociale” a sé stante, un fenomeno essenzialmente moderno e prevalentemente urbano, altamente digitalizzato, le cui esperienze di vita lo avrebbero mutato in un “agente trasformativo” con un elevato potenziale sovversivo nei confronti delle strutture esistenti. D’altronde, è sufficiente guardare a come i principali media iraniani hanno gradualmente iniziato a raccontare le generazioni post-rivoluzionarie per rendersi conto che le etichette di passività ed indolenza hanno ormai fatto il loro tempo: “difficili da controllare” a causa delle loro “visioni pluralistiche”, i giovanissimi degli anni Duemila si sono prepotentemente e definitivamente scrollati di dosso le etichette ed accuse di passività ed indolenza con le proteste del 2022, dove, secondo il quotidiano Javan Daily, “il 93% dei manifestanti non ha più di 25 anni: si tratta della nascita di una nuova generazione di ribelli nel paese”.
I giovani che appartengono a questo segmento specifico della Terza Generazione iraniana sono i più distaccati dai miti fondativi della Repubblica Islamica. A contraddistinguerli, ancor più dei fratelli e cugini maggiori, sarebbero un pervasivo malcontento divenuto ormai strutturale riguardo a tematiche quali la stagnazione economica, la corruzione interna e la mancanza di libertà personali, così come l’estrema naturalezza nell’utilizzo degli strumenti di comunicazione digitali, divenuti i mezzi privilegiati per contestare lo status quo, esprimere la propria soggettività in un ambiente più libero e democratico e intrattenere relazioni interpersonali. Si tratta di una generazione i cui orizzonti temporali e la cui progettualità di vita sono fortemente orientati all’esperienza della migrazione, soprattutto verso l’Unione Europea, gli Stati Uniti e il Canada. A differenza dei propri nonni e genitori, per moltissimi, specialmente quelli appartenenti alla classe media urbana, studiare una lingua straniera in vista di un trasferimento futuro è una prassi ormai consolidata e data per scontata.
Le proteste del 2022 e la componente generazionale
Benché le recenti proteste scaturite a partire dall’autunno 2022 si siano dimostrate fin dall’inizio trasversali a tutte le classi di età, nei primi mesi la stragrande maggioranza degli individui coinvolti in varie forme erano giovani e giovanissimi spesso sotto i trent’anni di età. Molto bassa era anche l’età di coloro che, da settembre a oggi, hanno perso la vita in vario modo nell’ambito delle manifestazioni: aveva 9 anni Kian Pirfalak, ucciso da una pallottola sparata da una motocicletta durante alcuni scontri nel Khuzestan; aveva 16 anni Sarina Esmailzadeh, uccisa con molteplici colpi di manganello da parte delle forze di sicurezza durante le proteste del 22 settembre; ne aveva 17 Nika Shakarami, scomparsa il 20 settembre 2022 dopo aver preso parte alle proteste sul Keshavarz Boulevard e ritrovata, senza vita, dieci giorni dopo. Quindici anni sarebbe, secondo i media locali, l’età media dei manifestanti arrestati dalla polizia.
Molto diverso è il modo in cui le generazioni concepiscono il loro rapporto con lo Stato e le modalità di manifestazione del dissenso. Alla base di questa scissione fra generazioni è possibile rintracciare il mutato rapporto dialettico con la Repubblica Islamica e con il processo di riforma delle sue istituzioni; se per Shahnaz, una donna di 39 anni, le proteste del 2009 intendevano fondamentalmente “cambiare lo Stato con la riforma, piano piano”, di ben altro avviso è Farzad, un uomo di 29 anni, secondo cui “oggi vogliamo tutti una cosa sola: che loro se ne vadano”.
Questo massiccio coinvolgimento dei giovani non giunge tuttavia inaspettato: i giovani e la politica giovanile sono fondamentalmente fluttuanti tra episodi di sorprendente attivismo circoscritto e un atteggiamento di maggiore disinteresse. La posizione subordinata dei giovani nella struttura di potere della società iraniana, al cui vertice sono solitamente posizionati uomini anziani, ostacola ed impedisce il loro effettivo coinvolgimento nel processo decisionale, adducendo come motivazioni la loro presunta inesperienza ed immaturità emotiva – un’argomentazione utilizzata anche per impedire la partecipazione politica ed economica femminile. Questo atteggiamento, che affonda le sue radici nel modello patriarcale, ha come conseguenza una marcata disillusione e un distacco dei giovani nei confronti della politica e una loro maggiore attrazione verso spazi di auto-espressione ed auto-emancipazione alternativi. Non deve dunque meravigliare che queste soggettività siano risultate particolarmente sensibili e ricettive al diffuso sconvolgimento politico in cui possono svolgere un ruolo di maggiore radicalizzazione.
L’arte della presenza delle giovani iraniane
Il massiccio coinvolgimento di donne e soprattutto giovani ragazze rappresenta un ulteriore eclatante elemento di novità e differenziazione, indicativo di un collettivo posizionamento generazionale e di genere nei confronti delle tradizionali gerarchie di potere, non solo pubbliche, ma anche familiari e domestiche. È frutto di mobilitazioni decennali e della resistenza nella pratica della vita quotidiana attraverso l’“arte della presenza” negli spazi pubblici. Ad essere esplosa, dopo decenni di attriti, negoziazioni e rivendicazioni, è la profonda tensione tra le biopolitiche implementate dalla Repubblica Islamica nel tentativo di controllare il corpo femminile e la crescente richiesta di partecipazione delle donne a tutti i settori della vita pubblica. La leadership femminile delle proteste ha saputo non solo interrompere bruscamente la quotidianità dei rapporti sociali, ma è divenuta soprattutto simbolo del rigetto delle molteplici forme di oppressione e sfruttamento politico ed economico strutturate dallo Stato.
Anche se, con il passare dei mesi, è stato possibile osservare una crescente predominanza della partecipazione maschile, il numero di donne coinvolte, la centralità della questione femminile come specifico focus della lotta e il riconoscimento delle donne come soggetti trasformativi risultano cruciali nel distinguere le proteste non solo nella cornice iraniana, ma anche nell’intera regione mediorientale. Lo slogan che ha scandito il ritmo delle proteste, “Jîn, Jiyan, Azadi” (Donna, Vita, Libertà) riflette un cambio di paradigma nelle soggettività iraniane, visibile nella centralità della figura femminile e della sua stretta correlazione con il più ampio tema dei diritti umani. Jîn, Jiyan, Azadi ribadisce chiaramente l’indissolubilità della lotta al regime di genere e alla Repubblica Islamica nella sua totalità; la consapevolezza secondo cui la libertà ed emancipazione della società intera non possono più essere scisse da quelle delle donne che in tale società vivono e subiscono discriminazioni. Il fatto che il velo (o meglio, la sua abrogazione) sia divenuto oggi simbolo dello sforzo collettivo di ampi segmenti della popolazione è altamente significativo dei cambiamenti sociali e culturali che l’Iran, ed in particolare le sue generazioni più giovani, hanno attraversato.
Questo coinvolgimento femminile ha radici profonde e ben radicate dal punto di vista storico e sociale. Il numero di donne contrarie all’ingerenza dello Stato nella propria vita sociale ha continuato incessantemente ad aumentare dal 1979. Gli importanti processi di urbanizzazione, alfabetizzazione e l’ingresso femminile nel mercato del lavoro incentivati dalla Repubblica Islamica hanno determinato con il tempo uno slittamento degli stili di vita e delle pratiche di consumo per una quota crescente di donne di tutte le estrazioni sociali e religiose. Un sondaggio ufficiale condotto nel 2014, ad esempio, ha rilevato come quasi la metà della popolazione iraniana si sia dichiarata contraria all’obbligatorietà del velo, segnando un incremento del 15% rispetto a quanto espresso nel 2007. Non è un caso, difatti (anche se talvolta marginalizzato nella narrazione dei media internazionali), che le proteste siano state partecipate anche da donne che scelgono volontariamente di indossare il velo e supportano la libertà di scelta per le loro concittadine, consapevoli degli effetti benefici che tale svolta avrebbe sulla vita collettiva di tutte e tutti gli Iraniani .
Le giovani donne iraniane hanno imparato molto velocemente come destreggiarsi sul terreno in continuo mutamento della Repubblica Islamica, rinegoziando e allargando le maglie del potere e rivendicando l’accesso ai propri diritti attraverso un coinvolgimento sociale e politico costante. Nonostante lo Stato rifiuti di riconoscerlo, esse sono oggi in grado di agire e muoversi come cittadine autonome. Gli anni di intenso fermento politico, economico e culturale della ricostruzione post-bellica e del riformismo hanno creato il concime naturale in cui affondano l’attivismo e la consapevolezza di generazioni di donne e hanno dato vita ad un surplus di partecipazione politica che le amministrazioni più conservatrici non hanno saputo scalfire.
Non è azzardato sostenere, dunque, che tutti i principali eventi della storia recente iraniana fino alle rivolte del 2022 sono stati di fatto possibili grazie alla rimarchevole presenza e mobilità di generazioni di donne. I dati relativi a matrimonio, istruzione ed occupazione, dall’inizio del nuovo millennio, rivelano un’alterazione della mentalità femminile in concomitanza con le trasformazioni economiche e politiche della società. L’enfasi posta dallo Stato sui valori familiari e le relazioni di tipo tradizionale si confronta con nuove forme di rapporto e costellazioni familiari. Da istituzione universale volta meramente alla procreazione, il matrimonio ha assunto sempre più la forma di unione consensuale basata sulla vicinanza emotiva e sessuale. Nel primo decennio del XXI secolo, sia le comunità urbane sia quelle rurali hanno assistito a una diminuzione dei matrimoni arrangiati ed endogami e a un innalzamento dell’età media al momento delle nozze per entrambi i sessi. La pratica della convivenza, il cosiddetto “matrimonio bianco”, rimane illecito e poco diffuso ma in aumento soprattutto in ambito urbano. Le restrizioni sull’abbigliamento e sul comportamento negli spazi pubblici e in particolare nei confronti delle giovani perdurano ancora ma, almeno nel contesto della capitale, si sono di volta in volta allentate e ristrette a seconda del clima politico del momento, dando vita a una nuova subcultura giovanile che funge da fattore discriminante tra le esperienze delle diverse generazioni.
Etichettata a lungo come inerte, passiva ed egoista, la Terza Generazione è oggi portatrice di una nuova consapevolezza profondamente differente da quella dei propri genitori e nonni. Pragmatica, interconnessa e democratica, è protagonista di una riscrittura collettiva delle identità e dei rapporti generazionali. A prescindere dall’esito delle attuali proteste, il movimento che in questi sette mesi ha scosso le fondamenta della Repubblica Islamica mettendone a ferro e fuoco le strade ha già raggiunto risultati significativi. Le giovani donne e i giovani uomini protagonisti di questi eventi hanno saputo mettere in moto un cambiamento cruciale delle soggettività degli Iraniani; nelle grandi e piccole città, persino nei villaggi, tra i genitori e i giovani, tra i gruppi etnici e le classi medie e basse, sembra essere nata una nuova “nazione” che insiste nel rivendicare la vita e il vivere con dignità. E lo grida nelle strade della rivolta. “Non dobbiamo essere tristi”, incita Behrouz, un ragazzo di 24 anni, su Instagram: “Non dobbiamo essere in lutto, dobbiamo essere arrabbiati. Dobbiamo essere in cerca di vendetta. Nessun potere può ostacolare la rabbia di una popolazione. Questa è già la nostra rivoluzione”.