Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Quello che fa il viaggio

Foto di Marco Gualazzini
29 Aprile 2021
Maaza Mengiste

Traduzione di Paola Splendore

Seduta accanto all’ampia vetrata del caffè, osservo un giovane uomo. Il bagliore arancione del tardo pomeriggio gli avvolge le spalle in spessi strati facendogli risaltare il viso. Capisco che viene dall’Africa orientale, un ragazzo di origine eritrea o etiope dal corpo sottile,  i lineamenti delicati, gli occhi grandi. Ha l’aspetto scarno di tutti i migranti appena arrivati che ho visto, una magrezza quasi innaturale per un corpo. Si muove in maniera diversa da chi è abituato allo spazio che abita, con un’andatura fatta di passi cauti, a scatti. Sembra spaventato,  troppo consapevole di chi lo sfiora passando. Sembra che stia cercando di raccogliersi dentro di sé, di ritrarsi quel tanto che basta per non essere toccato.  Noto tutti questi dettagli, eppure so che non  è un caso  particolare, non a Firenze.  È uno dei tanti rifugiati e migranti che ce l’hanno fatta ad arrivare dall’Africa orientale, materializzazione degli ormai consueti servizi giornalistici e fotografici sui migranti.

I passanti procedono tranquilli sullo stretto marciapiedi, proiettando ombre lunghe nella luce dorata del crepuscolo. Sono assorti in conversazioni private, persi nel ritmo regolare dei loro dialoghi. Non si accorgono neppure del ragazzo che osservo, guardando oltre mio riflesso per vederlo meglio. Non si rendono conto che sta accelerando il passo dietro di loro, irrigidendo il corpo a ogni secondo. Si piega in avanti all’altezza del petto, dapprima leggermente, poi come se potesse cadere spinto dalla sua stessa foga. Avanza di parecchi passi in quel modo prima di cominciare  a urtare i pedoni, inconsapevole di quelli in cui inciampa. Una figura scomposta, strana, che procede sbandando incauto sull’affollato marciapiedi, distratto dai suoi pensieri. Poi, all’improvviso, si ferma. È così immobile che occhi curiosi si voltano a guardarlo, un corpo inondato dal sole che avanza tranquillamente in mezzo al traffico dell’incrocio. Se ne sta lì, immobile e un po’ stordito mentre le macchine si fermano e i motociclisti rallentano. Il traffico aspetta che lui si sposti. Invece, lui comincia ad agitare le braccia, direttore di un’orchestra invisibile. Le braccia ossute si piegano e si tendono, spinte da un’energia via via più forte. Ogni movimento della mano riporta in alto il resto del corpo piegandolo in un cerchio imperfetto. Continua mentre i passanti si fermano a guardarlo, scuotono il capo e vanno oltre. Poi lui muove la bocca per formare delle parole e, prima ancora che cominci, capisco che sta per urlare.

Lascio che tutto scompaia e mi concentro sulla scena che si sta svolgendo. I passanti  lo superano irritati ma restando calmi. Gli autisti sterzano evitando attentamente la sua presenza invasiva. Tutti cercano di ignorarlo, come un  imprevisto di poca importanza. Lui continua  a gesticolare voltando il capo da un lato e dall’altro, con gesti sempre più veloci. È l’inizio di uno strano ritmo, una danza a scatti in cui cerca disperatamente di stare al passo. Mentre osservo la scena sento qualcosa che mi schiaccia il petto, che mi costringe a un respiro improvviso. Non capisco il dolore che mi afferra, o forse non voglio riconoscerlo. Forse non voglio trovare le parole perché mi farebbero precipitare in un luogo oscuro, lontano da questa strada affollata e piena di luce. Sono venuta al caffè per sfuggire alla raffica di cattive notizie del giorno. Ho portato un taccuino e la penna per mettere una distanza tra me e tutto quello che mi ricorda i tumulti in corso in ogni parte del mondo: America, Etiopia, Mediterraneo, Medio Oriente, Europa. Sono venuta per sottrarmi a quello che conosco e procedere verso uno spazio che mi permetta di immaginare, libera da inutili distrazioni. Sono venuta per stare da sola, scrivere in solitudine, libera dal rumore che sembra inseguirmi da mesi, o forse anni. È difficile sapere misurare il tempo, orientarsi quando l’orrore e lo shock cominciano a insediarsi nel ritmo della vita quotidiana. È diventato facile vivere nel presente, girare da una tragedia all’altra, muoversi con tale agilità tra i disastri, che si passano giornate intere sorpresi e stupiti. 

Penso a Lazzaro mentre continuo a guardare questo giovane uomo: un corpo ribelle che rifiuta di stare fermo, che si oppone alla quiete. Un corpo che usa il rumore per rimanere in vita, per muoversi, per essere visto. La cameriera viene a chiedermi l’ordine e sorride al mio taccuino. Mi accorgo che la coppia al tavolo vicino lo tiene d’occhio con discrezione, per paura che stia  prendendo appunti di quello che dicono. Nessuno sembra accorgersi  del dramma che si sta svolgendo davanti al caffè dove un giovane nero con i capelli arruffati gira su se stesso in cerchi sempre più ampi, con gesti scomposti, urlando ai passanti frasi incoerenti. Uno spettacolo senza spettatori. Un attore in un racconto di Shakespeare, pieno di urla e furore. Gira e agita le braccia. Solleva in alto una mano e piega il polso. Si copre un orecchio con il palmo della mano e ascolta i suoi balbettii. Aggrotta la fronte e sorride, ride da solo, poi si gira e coglie lo sguardo di un altro sconosciuto. C’è rabbia nella sua energia convulsa. C’è dolore e confusione nei suoi occhi. Sta cadendo a pezzi, mi dico, e si sforza come può di restare intero. Vedo il mio riflesso sul vetro e così abbasso la testa, e scrivo sul quaderno: “Non eri così quando sei partito. È quello che fa il viaggio”. Mi torna quel dolore in mezzo al petto. Per un attimo è così forte che sono certa che anche lui può sentirlo. È come fossimo legati alla stessa catena e se si volterà in un certo modo io resterò allo scoperto. Se si gira a  guardarmi, le nostre vite si apriranno e davanti a noi appariranno le strade che abbiamo preso per arrivare a questo incrocio, a Firenze, rivelandoci per quello che siamo: immigrati, migranti, rifugiati, africani, africani dell’est, neri, stranieri, sconosciuti, corpi resi disobbedienti a causa di quello che siamo.

Quando sollevo nuovamente lo sguardo, il giovane si è calmato. Ora, mentre ondeggia tra i pedoni intrecciando un riccio di capelli su un dito ossuto, sembra quasi annoiato. Procede pigramente come se avesse portato a termine quello che voleva fare. Da dove sono seduta, sembra quasi che venga verso di me, e invece segue il marciapiedi e presto supererà la porta aperta del caffè in cui mi trovo. Mentre mi passa davanti lentamente noto una piccola chiazza priva di capelli dietro la testa. Un cerchio perfetto, come se gli avessero poggiato un oggetto rotondo per bruciargli i capelli fino alla pelle. Mi dico che non posso sapere cosa sia, che potrebbe trattarsi di un effetto ottico, di una foglia che gli si è infilata tra i capelli, ma questo non mi impedisce di sobbalzare.

Per la scienza medica la morte è un processo piuttosto che un evento unico.

Mi tornano in mente i racconti di un amico che aveva attraversato il Sahara per arrivare in Europa attraverso il Nord Africa. Mi aveva detto dell’orribile trattamento dei trafficanti di uomini e della polizia nei centri di detenzione e nelle prigioni improvvisate. Aveva raccontato quello che poteva tacendo il resto. Nei momenti in cui quelli che avevano fatto il viaggio si trovavano insieme, mi accorgevo che per riempire i vuoti della narrazione indicavano le loro cicatrici. A volte, nessuna lingua sembrava in grado di rendere comprensibile quello che pareva impossibile da capire. A volte, era solo il corpo a portare testimonianza, macchie  e cicatrici esprimevano un loro lessico. Mentre fisso l’incrocio affollato, non voglio pensare a quello che questo ragazzo deve avere passato per arrivare in Italia, e trovarsi per strada oggi. Il fatto che sia vivo è la prova della sua resistenza. Quello che ha dovuto subire, quello che potrebbe avere causato la ferita, quello che sarà stato troppo perché la sua mente possa accettarlo – sono pensieri che portano a realtà ben più oscure di quelle che conosco.  Guardo la prima frase annotata non appena l’ho visto: “Non eri così quando sei partito da casa. È quello che fa il viaggio”. 

Lazzaro aveva avuto la possibilità di camminare nuovamente nella terra dei vivi. Da un punto di vista era stato facile: aveva obbedito all’ordine di rialzarsi e aveva potuto vivere. Il resto dei suoi giorni impallidì di fronte alla luce vivissima di questo miracolo straordinario. È facile immaginarlo  muoversi con grazia in questa nuova esistenza, pulsante di energia per il contatto con  la grazia e  la forza divina. Vogliamo pensare che si rialzò dai morti leggero e  senza macchia. Che fu una rinascita, libera da  esperienze inquietanti. Ma Lazzaro era un uomo comune  che aveva aperto gli occhi senza più  capire se stesso. Tra la fine di questa vita e la seconda possibilità, subì una mutazione, divenne un miracolo e uno sconosciuto, da persona amata a un’anomalia.

Per la scienza medica la morte è un processo piuttosto che un evento unico. Benché la morte possa apparire un evento catastrofico e improvviso, prima di cessare di vivere il corpo compie varie funzioni. Gli organi che lo sostengono crollano uno a uno: prima che una persona venga  dichiarata morta bisogna che ogni attività sia cessata da un certo periodo di tempo. Non basta ad esempio che solo il cuore e la circolazione del sangue si fermino, devono rimanere ferme abbastanza a lungo perché anche il cervello possa morire. La fine della vita comporta un viaggio, una serie di passi prima della destinazione finale. Un corpo ha bisogno di segnali che gli indichino la direzione giusta. Un brusco cambiamento in quella progressione sconvolge l’ordine delle cose alterando il processo naturale e lasciandosi alle spalle qualcosa di monco e irriconoscibile.

Questo spiega forse il silenzio assoluto di Lazzaro dai libri 11 e 12 del Vangelo di Giovanni. Attribuirgli una voce significherebbe dovere fare i conti con il disordine creato dalla sua resurrezione. Significherebbe inserire una complessa componente umana in una lezione  immediata e potente. Benché il Sinedrio  volesse ucciderlo insieme a Gesù Cristo e benché la sua resurrezione e tutto ciò che rappresentava costituisse  per loro una minaccia forte quanto le  idee sostenute da Gesù, a Lazzaro non è permesso parlare. È un miracolo senza voce, ancora oggi vivo come metafora di una sconcertante seconda possibilità.   La sua vicenda è stata utilizzata in mille modi, ma dell’uomo vivo non si sa cosa farne. In parte, perché la Bibbia dice molto poco di lui: la sua storia termina quando lui cessa di essere utile. Ma sostenere che nel momento in cui si rialzò dalla tomba Lazzaro divenne insignificante significa ridurre la sua vita a quell’unico attimo rilevante.  Significa ritenere che dopo un fatto così rilevante niente più poteva avere importanza. Significa accogliere l’idea che tutti noi non siamo altro che esseri che ruotano senza sosta intorno allo stesso episodio, catturati dall’importanza di quell’unico evento, come se allo stesso tempo avessimo il sole a guidarci e l’oscurità a lasciarci vorticare in uno spazio incerto.

Nella letteratura cinese medievale, per descrivere il fenomeno biologico di un corpo sofferente che all’improvviso si rianima per un attimo per poi crollare e morire, si usa l’espressione: hui guang fan zhao, “l’ultimo bagliore prima del tramonto”, quel breve luccichio prima della notte. Mi torna in mente mentre il caffè dove sono seduta comincia a vuotarsi e a riempirsi di nuovi clienti. Un DJ accanto a me comincia a mandare la sua musica contro il cielo che lentamente si oscura. Guardo attraverso il vetro, oltre il mio riflesso, per concentrarmi sul flusso costante  di pedoni e automobili all’incrocio. Il ragazzo che prima guardavo è scomparso, al suo posto sono subentrati il tran tran e la ripetizione. Per un attimo lo rivedo, mentre lascia il suo paese, dovunque fosse, e nel viaggio tortuoso attraverso il Sahara. Lo vedo intrappolato in containers, camion sovraccarichi e barche affollate. Lo vedo lottare nella sua immobilità estrema, poi sbarcare a terra per affrontare le frontiere dei paesi europei. Il viaggio serve a mettere alla prova la resilienza del corpo. Lo scopo è quello di fare a pezzi un essere umano, maschio o femmina,  e ricomporlo dentro.  Ogni passo avanti è un memento della fragilità umana. Quando arrivi non sei più la persona che è partita. A volte mentre guardi uno sconosciuto riconosci te stesso in quella nuova vita: vivo nonostante tutto, procedere verso il bagliore persistente  del sole cercando di liberarti dell’oscurità permanente.

(tratto da The Displaced: Refugee Writers on Refugee Lives, a cura di Viet Thanh Nguyen,  Abrams Press 2018)


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