Quattro ritratti in bianco e nero
da Paolo Lanaro, MAGAZZINO, Cierre edizioni, Verona, 2021
CARLO BETOCCHI
La sala del Caffè Pedrocchi di Padova era discretamente affollata. Gente di tutte le età: giovani studenti, mogli di colonnelli, professori, qualche unidentified. Non ero molto abituato alle letture poetiche, però in quel caso mi sembrava che l’occasione fosse importante. Carlo Betocchi non lo conoscevo bene, ma un sesto senso mi aveva suggerito che fosse un autore da non ignorare. Toscano, cattolico, dotato di accenti vibranti, di un pensiero poetico aperto contemporaneamente sul mondo e sul trascendente. Era un ometto piccolo e amabilmente ciarliero. Avevo con me la sua prima raccolta, Realtà vince il sogno, che avevo acquistato un mese prima alla Libreria Palmaverde di Roberto Roversi. L’avevo sfogliata, mi ero soffermato
su qualche verso che pareva provenire da un’attesa, da un consumo febbrile di speranze.
Cominciò la lettura. Betocchi, come tutti i poeti, non interpretava, lasciava che le poesie si accendessero e si spegnessero come fiammiferi. Io seguivo e non seguivo, vittima di uno strano stordimento che mi provocava il luogo, forse la città pullulante di fuori. Di Betocchi mi aveva parlato Franco Scataglini ad Ancona, che ne aveva un’alta considerazione, pur non condividendone la ricorrente ispirazione religiosa. Effettivamente le poesie erano belle, attraversate da lustre tensioni, da un lirismo energico e dolce nello stesso tempo. Betocchi volle far sapere che la lunga attività letteraria non era stata sempre al centro della sua vita. Aveva cominciato come perito agrimensore, misurando terreni ai fini di operazioni catastali e di estimo. Dopo un po’ di anni aveva abbandonato e si era dato interamente alla poesia e al lavoro di insegnante. Però ci teneva a ricordarli quegli inizi così «normali», che forse contenevano già una predisposizione o forse invece non la contenevano affatto.
Lesse una poesia da Sparsi pel monte, e mi colpì, più che la poesia, il sapore ottocentesco della preposizione articolata, un po’ come accade qualche volta con Saba. Ma Betocchi è così. La lingua è volentieri anti-moderna, sostenuta da memorie antiche. Pareva a tratti di ascoltare un sermone evangelico in una basilica medievale, pronunciato da un abate che si sentiva chiamato più alla contemplazione pensosa che all’esegesi. In più c’era una cognizione dolorosa del tempo («la lampada che illumina un passato che s’invola»), la confessione di uno stancarsi della vita che non si poteva evitare.
Quando finì, quella specie di furetto cristiano fu coperto da applausi convinti. Mi avvicinai al tavolo, aspettai il mio turno e poi gli porsi il libro che avevo con me per l’autografo. «Ma dove l’ha preso?» mi disse, tutto incuriosito. Gli raccontai della libreria di Roversi. «Pensi che la mi’ povera moglie dieci anni fa ne trovò una decina di copie nell’armadio, sotto le lenzuola», aggiunse. Mi chiese se anch’io scrivevo poesie e io risposi di no, anche se avevo già pubblicato un libro. Mi sembrava inopportuno qualificarmi come poeta davanti a lui. Poi fu risucchiato dal pubblico e dai professori padovani che sembravano proteggerlo come se si trattasse di uno scrigno prezioso.
Uscii dal Pedrocchi. La Piazzetta della Garzeria era affollata di studenti. Mi venne nostalgia del tempo dell’Università, che pure avevo frequentato poco, ma che nei ricordi appare quasi sempre come una stagione felice e leggera. Non era stato proprio così. Pensai che le poesie si scrivono quando c’è qualcosa alle spalle. Se ci si volta indietro e non si vede nulla, le poesie restano bloccate nei caveaux interiori. Hanno bisogno di lunghe stagioni come certi fiori che crescono e vivono nella mezza ombra.
ROBERTO ROVERSI
Avevo ventisette anni e avevo ricominciato a scrivere poesie. Guardavo a Bandini, a Raboni, un po’ a Sanguineti e Balestrini, un po’ a Montale, non avevo archiviato del tutto gli Ermetici. Ma non ero soddisfatto dei risultati; mi sembravano gracili. Più o meno un anno dopo, mentre ero alle prese con un prosimetro pieno di insidie e trabocchetti, a Bologna scoppiarono dei gravi incidenti tra studenti e polizia (il tristemente famoso 11 marzo del ’77, in cui fu ucciso Francesco Lorusso). Sull’onda emotiva di quei fatti composi un poemetto che aveva una certa originalità, anche se era abbastanza incòndito, soprattutto dal punto di vista versale. A Bologna nel frattempo era nata una rivista, Il cerchio di gesso, diretta da Roberto Roversi e Gianni Scalia, che raccoglieva saggi, note politiche, poesie e racconti, il tutto in sintonia con nuove forme di militanza culturale. Spedii il poemetto a Roversi che lo pubblicò. Non solo, mi invitò anche a continuare, a coltivare quella che io non sapevo ancora se era una vena poetica autentica o un incontrollato sussulto giovanile. Passò qualche mese e una mattina presi il treno per Bologna.
La libreria Palmaverde, che Roversi gestiva con sua moglie Elena, era un antro quasi sfiorato dal sacro. Ci si aggirava tra gli scaffali traboccanti di meraviglie e di polvere e si finiva in uno sgabuzzino dove, su un tavolo ingombrato da carte e libri, Roversi lavorava incessantemente e dove accoglieva le centinaia di persone che passavano di lì per un volume o per discutere con lui. Era un uomo buono, timido, generoso, gentile e risoluto. Mi sembrò quello zio che tutti avremmo voluto avere, quello che sa un sacco di cose e che ha l’indulgenza misurata che manca sempre ai padri. Quei suoi occhi vivi e quel pizzetto così démodé in un certo senso parevano accompagnare la sua eloquenza schietta e vivace. «Senti, Roberto, com’erano le riunioni di Officina?». «Cosa vuoi, Pasolini era tormentato. L’ho sempre visto così. Fortini era terribile: dove passava lui, non cresceva più niente, neanche l’erba». Anni di duelli, di scenate, di mèntori litigiosi, di amici fidati. Lì, in quei locali, erano nate Officina, Rendiconti, Il cerchio di gesso, estavano per venire alla luce Le porte e La tartana degli influssi. Lì erano stati concepiti Caccia all’uomo, Dopo Campoformio, Registrazioni di eventi, Unterdenlinden, le memorabili Descrizioni in atto, composte dal 1963 al 1969, ciclostilate dallo stesso Roversi, in polemica con l’industria editoriale. Lì, quasi per una volontà misteriosa delle Muse, erano nati anche Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa, Automobili, della eccentrica ditta Roversi-Dalla. «Ma com’era Lucio, che faceva, come costruivate le canzoni?». «Sai, i musicisti sono una razza strana. Io lavoravo ore e ore di notteper buttar giù i testi. Lui veniva qui col clarinetto e perepepè, in cinque minuti era fatta la canzone!». Sorpresa e invidia per quello strano sodalizio da cui erano nate cose geniali. Lucio Dalla deve molto a Roversi, ma anche Roversi deve qualcosa a Dalla: la possibilità e la voglia di modernizzarsi, la capacità di uscire dal seminato e di portare la poesia per strade nuove e poco conosciute.
Dopo qualche tempo, uscì il mio primo libro da Savelli, in una collana progettata da Roversi e Majorino. Allora non si facevano presentazioni, ma letture pubbliche. E così avvenne anche per me. Roversi organizzò una serata nell’ambito della Festa dell’Unità di Bologna con me, Gianni D’Elia, Nicola Muschitiello e altri. Leggemmo i nostri versi protetti da un telone dietro il quale impazzava tumultuoso Henghel Gualdi, che Roversi, mimetizzato (come sua abitudine) tra il pubblico, definì «il clarinetto più ovvio della Romagna».
Mangiammo un piatto di tortellini, discutemmo a lungo di politica e letteratura (si sostengono reciprocamente? si elidono?), poi presi l’auto per tornare a Vicenza. Nella notte, attraversando le brume del Polesine, pensavo a lui come a un antico cavaliere, a un Lohengrin attempato che scivolava sulle acque del Reno sopra una barca trainata da un cigno.
VITTORIO SERENI
La prima volta fu a Bocca di Magra, dove Fernando Bandini affittava una casa per l’estate e dove Vittorio Sereni trascorreva le vacanze con la sua famiglia da tempi lontani. Per quei luoghi c’era passato Shelley. Li avevano frequentati Giulio Einaudi e Cesare Pavese, li frequentavano Soldati e Garboli, Bassani e Fortini. A un paio di chilometri abitavano Paolo Bertolani, un fine poeta locale che di mestiere faceva il vigile sanitario e Giovanni Giudici, che lì era nato. Di notte, verso sud-est, si vedeva nettamente la macchia luminosa della Versilia, e là c’era Montale.
Ci fu una cena la sera in cui arrivai, coi Sereni e con un medico loro amico. Il clima era quello dei giorni di vacanza, un po’svagato e generico. Mi guardai bene dall’intervenire durante la cena; temevo di non essere all’altezza soprattutto se la conversazione avesse preso una piega letteraria. Fernando poteva tranquillamente spaziare dalla letteratura latina alla neo-avanguardia, Sereni allora era direttore editoriale della Mondadori. Mi sentivo un modesto vaso di coccio, anche se in realtà mi pareva di essere (ed ero) tra amici.
Il giorno dopo io e Costanza, Fernando e Luisa, e Sereni, prendemmo una barca e raggiungemmo la spiaggetta non ricordo se del Debiross o della Sanità. Durante il tragitto Sereni, pensoso e taciturno, fissava la scia di schiuma che ci lasciavamo dietro. Mi sembrava di intravedere in lui le ragioni inconfessate dello scrivere versi, quella specie di ossessione arcana con cui i poeti sono costretti a fare i conti. Passammo una bella giornata, tra chiacchiere e nuotate. Con Sereni ingaggiai una lunga discussione calcistica (schemi, psicologia, storia, prospettive): lui era interista, io da sempre tifavo per il Milan. Tra un discorso e l’altro gli proposi di realizzare per la Mondadori un audiolibro (erano appena nati) sul 18 aprile del ’48. L’idea gli piacque molto e mi incitò a lavorarci sopra. Con lui, naturalmente, nessun accenno alle poesie che già scrivevo e che per nessuna ragione al mondo volevo far conoscere agli altri.
Passarono un paio d’anni. Dell’audiolibro mi dimenticai molto presto. La storia mi interessava poco, la letteratura invece mi pareva rispondesse in modo più originale e persuasivo alle domande che mi rodevano dentro. Pubblicai il mio primo libro e glielo mandai. Fece sapere a Fernando, non a me, che «non era male».
Era ancora un po’ contrariato dal mio esser venuto meno alla parola data. Aveva ragione, anche se la mia colpa non era poi così grave. Ma Sereni, in un’Italia fatta per lo più di ominicchi, era una persona seria. Come un professore amabile e severo; come un ufficiale generoso e retto.
Ci rivedemmo a Vicenza, a casa di amici comuni e lì lo interrogai sulle sue traduzioni da René Char, un poeta di complicata e scabra potenza, molto diverso da lui che trattava il verso con pazienza, con lo splendore della sincerità. Mi disse che era una cosa assolutamente normale che un poeta scegliesse di tradurre un autore profondamente dissimile. Se cerchi di capirti, aggiunse, lo farai attraverso ciò che non sei, come a volte il significato di una parola viene illuminato dal suo contrario.
Dieci anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1983, io e Fernando eravamo insieme a Bocca di Magra per un convegno su di lui, a cui partecipavano Soldati, Garboli, Fortini, Loi, Raboni e tanti altri. Per certi aspetti sembrava una rimpatriata, ma la sua assenza pesava tremendamente. Nell’intervallo dei lavori decisi di starmene da solo in riva al mare. Avevo con me Gli strumenti umani, il libro, dei suoi, che amavo di più.
Leggevo e rileggevo quella poesia atroce e piena di offuscamenti che è La spiaggia: quelle toppe d’inesistenza, calce o cenere, pronte a farsi movimento e luce… non torneranno più.
ANDREA ZANZOTTO
Con Andrea Zanzotto ci siamo incontrati più volte. Intorno a lui c’era già un alone di leggenda, che lui involontariamente alimentava senza peraltro far nulla di più che manifestare, quando era il caso, la sua finissima intelligenza poetica e la sua ipocondrìa.
Con Silvio L., allora incisore di belle e solide speranze, andai a Pieve di Soligo. Era agosto e Zanzotto ci accolse in giardino. Faceva un caldo torrido, ma lui, sopra una maglia di cotone con le maniche lunghe, indossava una pesante grisaglia. In testa aveva una coppola, probabilmente di lana. Ammise che faceva caldo, ma disse che anche in una giornata agostana potevano di colpo alzarsi spifferi maligni e quindi tanto valeva proteggersi in anticipo.
Parlammo prevalentemente di arte (Silvio aveva portato un po’ di cose da fargli vedere) e mi resi conto che aveva vaste conoscenze di pittura veneta, sia antica che moderna. Era dotato di una spiritosa bonomìa che affiorava qua e là, in mezzo a discorsi a tratti impegnativi, ma sempre risolti con semplicità, talvolta con un motto di spirito inatteso. Consigliò a Silvio di provare, di innovare, di sperimentare, di non fermarsi ai risultati acquisiti. Erano raccomandazioni che valevano anche per me e per chiunque avesse a che fare con il lavoro artistico. Ogni tanto, finché ero lì, pensavo che stavo conversando col poeta italiano che, secondo Contini, aveva davanti a sé soltanto Montale. Ero lusingato e fiero di un incontro che chissà quanti altri avrebbero voluto avere. Non c’era nulla di scolastico in quello che diceva, ma c’era invece un’idea audace e implicitamente tremante del mondo e della sua angosciosa disgregazione.
Anni dopo ebbi il privilegio di presentare una serata con lui ad Asiago. Zanzotto mi aspettava per prendere accordi al Croce Bianca, il più antico albergo asiaghese. Parlammo del più e del meno, finché gli posi la questione. Gli domandai quali poesie intendesse leggere. Con mio stupore, mi rispose che non avrebbe letto niente e che lasciava a me l’incombenza. Ero sottosopra, non avevo calcolato un’ipotesi del genere. La cosa era oltretutto delicata: avrebbe approvato le scelte che avrei fatto? Non è che rischiavo di tralasciare qualche poesia che lui riteneva importante, significativa? Cercai di insistere, ma non ci fu niente da fare. Il suo non era snobismo, era un nonchaloir, un distacco da una materia che gli apparteneva e che in un certo senso desiderava che non gli appartenesse più. Alla sera, in un teatro gremito, feci un ritratto generale, individuai i vari snodi della sua attività, lessi una decina di poesie, tra cui la Cantilena londinese scritta per Fellini. Poi prese la parola lui e improvvisò un discorso magistrale tra pedagogia, letteratura, cronaca, riflessione morale. Era il suo stile, che Cicerone avrebbe definito «rodiese». Sembrava che fosse presente per caso, ma poi quello che diceva finiva per apparire (ed essere) necessario. Sandra Petrignani ha detto che anche Moravia era così. Erano uomini, Moravia e Zanzotto, al di sopra del loro essere scrittori.
L’ultima volta che l’ho visto, è stato a casa di un architetto vicentino, Flavio A. Era inquieto, non aveva voglia di fermarsi per la cena, dopo il convegno del pomeriggio. Non voleva far tardi. Diceva che le strade tra Treviso e Vicenza alla sera si riempivano di disgraziati che guidavano a velocità folle. Forse era vero, ma pensai che, a parte l’età, era un modo per esprimere il suo disaccordo col mondo, che vedeva frenetico, chiassoso, violento, sciagurato e immemore. Ricordai i versi di Vocativo: «la terra cieca ad ogni tentazione d’alba», gli «abissi di carbone», il «qui riversato dal nulla». Erano cose degli anni Cinquanta, ma lui auscultava già allora le pulsazioni violente di un universo che sentiva essere senza pace.