Quando al professionale si inizia a lavorare davvero
Dalla mia scuola la prigione si vede dal giardino. Sul bel colle di Montacuto, accanto al magnifico promontorio del Conero c’è un orrenda fortezza di cemento grigio e ocra: la casa circondariale. Una mattina d’inverno ho portato una classe di aspiranti parrucchiere e parrucchieri di quindici anni a fare lezione in giardino, inutile chiedergli di non fumare. Ci siamo fermati in un angolo di sole, quello era l’unico edificio sullo sfondo. Quale differenza trovate tra quel palazzo e quello della nostra scuola? Abbiamo ragionato sulla forma delle cose e sulla loro funzione. A cosa serve la prigione? A cosa serve la scuola? Quella mattina a questa domanda nessuno ha risposto. Hanno ragione, oggi è una domanda difficile.
La prigione si vede dalle finestre durante la ricreazione. In fondo è anch’essa una istituzione totale come la scuola, e inghiotte chi da questi corridoi c’è passato ma non è riuscito a deviare da una traiettoria prefissata. Però ogni mattina circa ottocento giovani uomini e donne dei quartieri popolari della città varcano il cancello dell’istituto professionale. Quando arrivo volutamente passo in mezzo alla nuvola di fumo di hashish del gruppetto che entra per ultimo, saluto quelli che mi guardano brutto, dopo una battuta si apre anche il sorriso.
Da quando si è sparsa la voce un po’ fantasiosa che forse posso trovargli lavoro hanno cambiato atteggiamento, abbiamo costruito un patto di rispetto. Gli ho spiegato che non sono io che lo trovo come un mago del circo ma che loro si sforzano di trovarlo imparando quello che serve. “Dove sta il pacco prof?” Ma alla fine entrano.
Valerio la prima volta che l’ho visto aveva una brutta cera, la faccia e le braccia piene di tatuaggi coatti, un occhio torvo e l’altro nero per un cazzotto preso. La famiglia poca e male. Ha vissuto soprattutto con il nonno che non aveva una buona opinione della legge. Fatto sta che è finito nei guai con il tribunale, perché è stato stronzo con una donna e ora rischia la galera.
Amin ha la fama di essere stato un disastro, “da ragazzino lanciava i banchi”, adesso ha la barba e tutti lo salutano nei corridoi. In classe non si ammazza di fatica e a casa la sua famiglia di pescatori non gli ha trasmesso l’amore per lo studio. Eppure ogni giorno, seppure a orari variabili, da cinque anni varca la soglia dell’istituto. Quando qualche ragazza sviene o crolla per un attacco di panico lui c’è, e accade spesso. Con le insegnanti che portano la collana di perle e disprezzano “questa gente” grazie a cui prendono lo stipendio lui non riesce proprio a essere educato, ma con i disabili che sputano e sbavano si sporca volentieri le mani. Questione di gusti.
Mohamed parla poco l’italiano, ma bene l’inglese, tuttavia visto che è taciturno in pochi lo sanno. È in Italia da pochi anni, ha fatto tanti viaggi ed è passato anche dalla Libia. Vuole studiare, vuole arrivare a Londra e forse più in là. Niente guai con la legge, niente guai a scuola, ha scelto di stare dalla parte di chi sta zitto e lavora duro, chissà se ha fatto bene.
Amedeo ha lo sguardo cattivo, e forse lo è diventato davvero perché la vita quando sei rom può essere proprio difficile. Qualcuno dice che è bipolare, ma diagnosi non ne ha, forse è solo stronzo, fatto sta che tra insegnanti e studenti pochi lo amano e molti lo temono. Sarebbe un ottimo esempio per spiegare Machiavelli ma invece tanti insegnanti vogliono cacciarlo. Parlare con lui è affascinante ma si finisce sempre nella gabbia della sua volontà di potere e manipolazione, con insulti e minacce. Specchio di un mondo dove la solidarietà e l’inclusione che predicano gli insegnanti progressisti nessuno le conosce.
Nancy è esile e silenziosa, la sua voce in classe l’ho sentita credo dopo settimane. Vive in Italia da lungo tempo ma parla l’italiano con l’accento delle Filippine, incespica un po’ sulle parole, poi sorride quasi a chiedere scusa. Studia per il diploma “servizi per la sanità e l’assistenza sociale” e intanto lavora come barista. La salute non l’assiste, spesso è assente. Quando le propongo un posto in una grande cooperativa sociale che assumerebbe due apprendisti mi evita e non viene a scuola. Pensando che sia la solita timidezza oso telefonarle a casa prima della scadenza del bando, risponde la madre che dice no per lei, inutile obiettare che è anche maggiorenne “magari lo dessero a me” risponde la signora, chissà se lavora penso io.
Questi sono alcuni dei ragazzi e ragazze (i loro nomi sono stati cambiati per proteggere la loro privacy) con cui negli ultimi due anni di insegnamento mi sono sforzato di avviare un progetto di apprendistato di primo livello, ovvero costruire un rapporto di lavoro dove una parte delle attività formative che normalmente si svolgerebbero a scuola vengono condotte in una azienda con regolare contratto di lavoro. Negli anni precedenti alcuni insegnanti pionieri avevano costruito dei progetti per portare fuori dalla noia delle aule gli studenti più difficili usando il lavoro come leva di motivazione e crescita umana. Insieme a loro ho provato a fare di più, portare questa intuizione dentro una cornice legale, un lavoro vero, una retribuzione, un riconoscimento sociale.
A scuola si fanno molti progetti fantasiosi contro la “dispersione” ma il livello della riflessione spesso è basso, molti si fermano all’obiettivo di tenere in classe i ragazzi, di disciplinare, senza alzare lo sguardo verso quella prigione sullo sfondo e quello che rappresenta in termini di rapporti sociali ed economici in cui la nostra “utenza” è immersa. Per molti docenti i progetti contro la “dispersione” sono l’occasione per arrotondare il magro stipendio, pazienza i risultati. Pochi riflettono sul fatto che la società da cui vengono e a cui tornano i nostri studenti è dura ed escludente e per molti la prossima fermata dopo la dispersione sarà la devianza, la manovalanza nel crimine che produce senza diploma dei servizi per la città “per bene”: spaccio, prostituzione, usura, merce rubata, una vecchia storia. Alla fine Amedeo non sono proprio riuscito a farlo partecipare: all’ennesima rissa, alla centesima minaccia e insulto sessista contro una docente e alla seconda sospensione si è bruciato la sua possibilità. “Hai scelto la tua strada – gli ho detto – e non è questa”.
Per chi sceglie o si trova comunque a seguire le regole, fuori dalla scuola c’è un mercato del lavoro selvaggio e ingiusto. Non ci sono altre parole per descriverlo. Parlare del lavoro ai ragazzi e alle ragazze di oggi puzza sempre un po’ di menzogna. Insegnare in un istituto professionale obbliga a trovare una risposta più onesta alla domanda: cosa farai da grande? Nell’ultima rilevazione fatta qualche mese fa sulle difficoltà di partecipazione alla didattica a distanza i profili socio-economici delle famiglie contano una grande quantità di disoccupati, tanti operai e militari, rari professionisti per lo più partite iva. Costruire percorsi di formazione e inserimento lavorativo di qualità dovrebbe essere una priorità per gli istituti professionali di questo paese ingrato verso i giovani. Ma la strada è ancora lunga.
Non è stato facile partire. Anzitutto il rammarico di non essere riusciti a coinvolgere in questa esperienza pilota le ragazze che sono ampiamente presenti negli indirizzi professionali di cura alla persona. Famiglie gelose, insicurezza personale coltivata da cattiva educazione, dipendenza da relazioni affettive tossiche. Le piccole donne che popolano le classi chiassose e allegre della scuola, al momento di prendere la decisione di impegnarsi per conquistare maggiore autonomia non ci hanno creduto, specchio di una condizione femminile duramente sfruttata e subalterna soprattutto tra le classi popolari.
Poi lo scetticismo dei colleghi: “volete aiutare i delinquenti”, “dobbiamo dare spazio alle eccellenze”, “e poi in classe quando ci stanno…?!”, queste le obiezioni più frequenti, unite al fatto che quando si porta qualcosa di radicalmente nuovo nella organizzazione dei tempi e degli spazi di lavoro molti temono che questo comporti un carico di lavoro maggiore e quindi fanno resistenza passiva. Eppure la nostra missione come docenti dovrebbe ricevere le sue gratificazioni dai risultati. Se da un istituto professionale non escono studenti che riescono a lavorare a cosa è servito questo gioco del gatto e del topo a cui giochiamo per cinque ore al giorno tra cellulari selvaggi, banchi che volano, sigarette fumate ovunque e comunque e pugni contro i muri di cartongesso? Pochi docenti hanno contribuito al progetto, chi lo ha fatto si è speso con convinzione, per motivazioni diverse, qualcuno crede davvero ai primi tre articoli della Costituzione, altri sono più samaritani, altri vedono che le aule non reggono più la forza d’urto di una generazione inquieta.
Nelle aziende abbiamo trovato anche porte aperte e qualche spigolo: “va bene i giovani ma voglio solo italiani”, “pagarli? perché se non sanno fare niente?”, “noi prendiamo già quelli gratis in alternanza scuola lavoro, che differenza c’è con questi apprendisti?”. L’idea che la formazione dei lavoratori sia una responsabilità anche dell’azienda, che i giovani vadano pagati e motivati, sono concetti non troppo popolari nel mondo del piccolo capitalismo italiano. Tuttavia abbiamo incontrato anche datori di lavoro sensibili, persone che cercano di trasmettere una competenza e una passione e non solo “risorse umane”. Ho imparato qualcosa di più sui motori, sugli impianti di condizionamento dell’aria, sul morbo di Alzheimer e su come si compila una busta paga. Anche gli insegnanti possono imparare insieme agli studenti.
Di circa trenta candidature, molte spontanee e altre promosse da alcuni insegnanti sensibili al valore di questo percorso, sono stati nove a riuscire a intraprendere questo percorso.
In alcuni settori come gli ottici, gli odontotecnici o i grafici le aziende non sono disponibili, cercano persone già formate da pagare poco o niente con i mille stage e trucchi che la legge offre, corrono dietro alle bizze del mercato, imprese fragili e con la vista corta.
È successo di tutto, ma alla fine in otto sono andati al lavoro tre volte a settimana senza fare ritardo, hanno studiato anche la sera, hanno mandato compiti improbabili su whatsapp, hanno smontato motori, aggiustato impianti, pulito letti ad anziani con demenza, accompagnato dal medico famiglie di rifugiati e giovani traumatizzati dai lager libici e così hanno portato a casa la promozione, per tre il diploma, e due di loro hanno raggiunto un vero contratto a tempo indeterminato.
È stato bello andare fuori dai corridoi, allontanarsi dalla prigione sullo sfondo e vedere le officine sporche di grasso, i magazzini alti fino al soffitto, i corridoi delle residenze per anziani con i nonnetti che non sanno più come si chiamano, la riunione intensa delle giovani operatrici dello Sprar, i giovani arrivati dalla Libia con un sorriso gigante che ti chiamano ovviamente “capo”, i meccanici che danno del tu a chiunque e gli operai del porto che hanno la faccia da gente di mondo. È stato bello pensare che per loro anche questo è stato scuola.
Poi è arrivato la Covid-19, la paranoia e la paura per tutti, le telefonate e i whatsapp preoccupati e alla fine ho mandato il messaggio “state a casa perché le aziende si devono fermare e voi dovete stare al sicuro”. Con qualche mal di pancia, perché le poche centinaia di euro che questi giovani apprendisti portano a casa servono davvero, spesso non soltanto a loro.
Poi da maggio sono tornati al lavoro con la mascherina, anche loro con le ore di cassa integrazione che ancora aspettano di essere pagate come i loro padri, hanno concluso l’anno collegati con la scuola da un cellulare carico delle tracce della loro vita precedente e adesso sono diventati un articolo di giornale: “Otto apprendisti all’Iis Podesti Calzecchi Onesti: i risultati del progetto”. Un pugno di docenti motivati e di studenti su cui pochi avrebbero scommesso. Giudicate voi se questo può essere un percorso per far tornare la scuola professionale a essere un progetto di promozione e riscatto sociale.