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Qualche libro a fumetti che dovrebbe venir tradotto in italiano, e perché non succede

La misura di quanto si è amato un libro è la voglia di farlo leggere ad altre persone. A chi i libri li traduce, può capitare di estendere questo impulso al mondo intero: ogni persona che traduce ha in testa una lista di titoli che tutti e tutte dovrebbero leggere assolutamente
30 Novembre 2021
Elisabetta Mongardi

La misura di quanto si è amato un libro è la voglia di farlo leggere ad altre persone. A chi i libri li traduce, può capitare di estendere questo impulso al mondo intero: ogni persona che traduce ha in testa una lista di titoli che tutti e tutte dovrebbero leggere assolutamente. A volte questa urgenza si trasforma in tentativi di scouting, e si arriva a proporre un libro a un editore.

Non voglio rivestire di romanticismo il lavoro editoriale, che certo non ne ha bisogno: chi traduce fumetti non se la passa bene, i compensi sono spesso miseri al limite del ridicolo, i tempi di lavoro troppo compressi, il livello di dilettantismo ancora alto, il riconoscimento scarso sia da parte degli editori sia delle – poche – associazioni di categoria: è raro infatti che, nei discorsi sulle condizioni di lavoro di chi fa fumetto in Italia, si prenda in considerazione chi i fumetti li traduce, seppure la traduzione dei libri con le figure sia, nella teoria e nella pratica, diversa dalla traduzione letteraria e richieda competenze specifiche e una conoscenza approfondita del linguaggio e dei suoi meccanismi.

Ma questo articolo vuole provare a riflettere non sui soggetti ma sugli oggetti della traduzione.
Dunque: quali fumetti si traducono in Italia oggi, e perché? Per rispondere a questa domanda servirebbero dati aggiornati, un’analisi comparata dei piani editoriali dei principali editori… Insomma, un’inchiesta, che ad oggi non è stata condotta in profondità. Il primo intento di questa riflessione è quindi lanciare il sasso nella speranza che ci sia, là fuori, qualcuno con l’interesse, le possibilità e le competenze per condurre un’indagine del genere.

Esistono anche automatismi che portano a credere a certe convinzioni, fino a trasformarle in regole: così un certo libro non si pubblica perché “è troppo francese”, perché “il pubblico italiano non lo capirebbe”

Il secondo è porre delle domande – tre in particolare – a partire dalla mia esperienza di traduttrice di fumetti, personale e quindi parziale, e da una lista di titoli, anche questa personale e quindi parziale, che mi piacerebbe fossero pubblicati in Italia o che mi è capitato di proporre senza successo.
E non per ostilità da parte degli editori, ci tengo a dirlo: i motivi per cui un fumetto viene rifiutato sono tanti, a partire dagli ostacoli tecnici che possono bloccare un progetto di traduzione, come l’adattamento grafico del testo o, in parole più semplici, il lettering. Certi fumetti sono complicati o costosi da tradurre perché vanno letterati a mano (immaginate le tavole affastellate di Pazienza o Bacilieri).
Poi ci sono ostacoli comuni all’editoria tutta, per esempio le tendenze che portano a preferire certi titoli invece di altri. Perciò succede che il libro “giusto” arrivi al momento sbagliato, quando il mercato sta seguendo un certo filone tematico o stilistico intorno a cui tutto il sistema finisce per sedimentarsi.

Esistono anche automatismi che portano a credere a certe convinzioni, diffuse e ripetute da operatori e operatrici di tutta la filiera, fino a trasformarle in regole: così un certo libro non si pubblica perché “è troppo francese”, perché “il pubblico italiano non lo capirebbe”, perché “questo genere non vende”… senza che esistano studi e analisi su dati reali – un’altra indagine che sarebbe interessante fare. Ma in qualche modo dobbiamo proseguire, quindi torno alle domande, e alla lista.

Perché non si traducono i fumetti “non convenzionali”?
Per non guardare al bicchiere mezzo vuoto, comincio da un titolo che ho avuto il piacere di tradurre: Senza limiti, la raccolta di storie brevi di Jillian Tamaki uscita nel 2019 per la canadese Drawn&Quarterly, e in Italia per Coconino Press – Fandango. Negli USA Senza limiti ha vinto un Eisner Award, è stato nominato agli Ignatz Awards e ha trovato posto nelle principali classifiche letterarie. Anche in Italia ha vinto un premio (il Gran Guinigi 2019 come Miglior fumetto breve o raccolta) ma la sua uscita è passata in sordina. Senza limiti è potuto uscire perché Jillian Tamaki è un’autrice affermata, che ha già lavorato a molti altri libri, alcuni dei quali – come E la chiamano estate, edito in Italia da Bao Publishing e tradotto da Caterina Marietti – sono considerati piccoli capolavori del fumetto d’autore. Ma Senza limiti è anche l’esempio perfetto dei tanti fumetti che, senza la garanzia di un nome affermato a sostenerli, non vengono importati: è una raccolta di storie brevi, realizzate in un arco di tempo piuttosto lungo, dunque diverse tra loro (all’interno della raccolta ci sono storie di una o due pagine e altre decisamente più lunghe, esperimenti al limite tra fumetto e albo illustrato, il testo di una canzone inventata, momenti in cui chi legge deve capovolgere il libro…).

Si tratta di storie che devono molto alla tradizione del racconto americano o inglese: sono essenziali, misurate, non indugiano sui sentimenti, come la prosa di Lydia Davis o Joan Didion; spesso incorporano elementi fantastici sotto forma di apparizioni, allucinazioni, manifestazioni del perturbante all’interno di situazioni ordinarie, come i racconti di Aimee Bender e Ali Smith, oppure sono punteggiati di piccole epifanie, alla maniera di Alice Munro. Cito questi nomi per sottolineare che le atmosfere dei racconti di Senza limiti non sono così aliene rispetto ai gusti di un lettore o una lettrice abituati a questo tipo di storie. Ma sugli scaffali delle nostre librerie non arrivano o, quando arrivano, non ottengono né l’attenzione né la promozione sufficienti a portarli tra le mani di chi potrebbe apprezzarli.
Su questa tendenza agisce ancora l’impronta di un modo di concepire il graphic novel che si è imposto quando questo tipo di fumetto è arrivato in Italia per la prima volta, quasi vent’anni fa, grazie al lavoro di Coconino Press e di un gruppo di case editrici che allora avevano sede a Bologna. In quella fase iniziale si è privilegiata la narrazione su qualsiasi altra cosa: il graphic novel doveva essere digerito da un pubblico digiuno di fumetti e veniva quindi equiparato al romanzo, a partire dal nome. E come un romanzo doveva comportarsi – un romanzo coi disegni, certo, ma prima di tutto un romanzo. E quindi via di narrazioni lunghe, didascalie fitte di testo, in cui è la storia l’elemento preminente. Non si tratta di una critica: autori e autrici di fumetto prevalentemente narrativo come David B., Alison Bechdel, Art Spiegelman hanno sfornato capolavori assoluti. Ma questa tendenza – forse necessaria all’inizio – è diventata una consuetudine, poi un automatismo, e ha consolidato un modo di pensare e pubblicare i fumetti che è diventato anche un modo di leggerli. Dall’esplosione delle biografie e autobiografie, passando per il graphic journalism, fino ai fumetti che affrontano argomenti considerati controversi o attuali, è sempre la storia a guidare la lettura. Lo ripeto: questa tendenza ha portato alla pubblicazione di opere magnifiche, che hanno fatto la storia del linguaggio. Allo stesso tempo, però, ne ha penalizzate altre, e continua a farlo: i racconti e le forme brevi, il fumetto astratto e sperimentale, le narrazioni rarefatte, quelle costruite secondo la logica del frammento o la disgregazione dei piani temporali e spaziali – le storie senza trama, per dirla in maniera pragmatica – e le narrazioni che si scostano dalla tradizione.

È una tendenza pervasiva che attraversa i generi: non si pubblicano raccolte di racconti a fumetti come Heads or Tails di Lilli Carré (molto simile allo stile di Tamaki), o How To Be Happy di Eleanor Davis, autrice tra le più influenti del fumetto statunitense, entrambe con carriere solide alle spalle, ma nemmeno la fantascienza lisergica di nomi come la svedese Linnea Sterte, che pesca dalle teorie del postumano ai classici Urania; la comicità spiazzante e patinata di Lisa Hanawalt (che invece funziona benissimo su altri canali, come dimostra il successo delle serie animate di cui è sceneggiatrice, BoJack Horseman e Tuca & Bertie); i racconti di Weng Pixin, tanto corposi e materici quanto rarefatti; le dissacranti parabole femministe di Delphine Panique, o quelle brutaliste di Lale Westvind; gli esperimenti in bilico tra scrittura diaristica, poesia, collage e illustrazione di autrici come Eva Cardon o Julie Delporte. L’editoria a fumetti rimane, salvo poche e felici eccezioni, su territori battuti e sicuri: non mette alla prova lettrici e lettori, non li sfida.

A questo punto devo fare una precisazione: Eleanor Davis, in realtà, è edita in Italia dal 2020, quando è arrivata nelle nostre librerie per la prima volta con un fumetto atipico per la sua produzione, Il futuro non promette bene, edito da Rizzoli Lizard e tradotto da Aurelia Di Meo, che si misura esplicitamente con alcuni temi caldi del presente: la crisi climatica, le proteste dei movimenti antirazzisti ed ecologisti. È una notizia positiva, soprattutto perché ha aperto la strada alla pubblicazione di un suo libro più ibrido come Arte, perché?, appena uscito per la neonata collana “Fumetti” di Add editore, un volume a metà tra saggio, albo illustrato e parabola che riflette sulle ragioni che spingono gli umani a inventare storie. La sua vicenda editoriale è rappresentativa di un’altra tendenza dell’editoria a fumetti, che mi porta alla seconda domanda.

Perché non si traducono i fumetti vecchi?
Ho citato, nel paragrafo precedente, quasi solo fumetti usciti nell’ultimo decennio, perché è raro che si importino fumetti non recenti, o che si recuperino i classici. Le ragioni mi sfuggono, e non lo dico con ironia. Da una parte, l’editoria tutta vive di un appiattimento costante sul presente: i libri hanno vita breve, tra il lancio di un nuovo titolo e l’oblio passa una manciata di settimane, e la corsa alle novità è ordinaria amministrazione.
Ma mentre in letteratura si registra un’attenzione crescente, anche se limitata a case editrici medio-piccole e indipendenti, verso il recupero di nomi e titoli dimenticati, nel fumetto questo non accade quasi mai.

Nemmeno quando il favore del pubblico sembrerebbe indicare proprio quella direzione: in un momento in cui autrici giovani e di talento come ZUZU e Fumettibrutti portano i riflettori su un certo modo di disegnare storie (e su un certo tipo di storie), raccogliendo e proiettando nel contemporaneo l’eredità di grandi maestri e maestre, questi ultimi non vengono pubblicati. I fumetti di pioniere come Julie Doucet, Phoebe Gloeckner, Dominque Goblet – a cui le autrici delle nuove generazioni sono debitrici – sono fuori catalogo da decenni, o non ci sono mai entrate.
Succede alle storie più datate, nate in un contesto politico e culturale molto lontano da quello attuale, che portano visibilmente addosso gli anni che hanno. Ma succede anche a nomi come Lynda Barry, classe 1956, gigante del fumetto statunitense che, dall’inizio della sua carriera, negli anni ’80, ha pubblicato più di venti libri tra graphic novel, raccolte, strisce, manuali, addirittura un libro di narrativa senza figure (Uno schifo di storia, quello sì, uscito in Italia per Dalai nel 2005 su traduzione di Laura Prandino, e oggi fuori catalogo). Barry è nella Eisner Wall of Fame, ha vinto numerosi premi alla carriera e, nel 2019, un MacArthur Genius Award, uno dei premi più importanti, ambiti e remunerativi negli USA (tra i vincitori delle passate edizioni figurano Cormac McCarthy, Susan Sontag, Adrienne Rich, Colson Whitehead). Ma in Italia non è pervenuta.

Molti di questi fumetti si potrebbero definire “di nicchia” – il caso di Barry è emblematico in questo senso –, difficili da adattare per via degli ostacoli tecnici di cui scrivevo all’inizio. Le autrici che li hanno scritti e disegnati hanno spesso una carriera discontinua, lunga e dunque frammentata; molte non creano più nulla da anni, per un motivo o per un altro, e questo le esclude dalla lotteria dei recuperi. È più frequente, infatti, che un editore scelga di partire da un libro contemporaneo per poi lavorare sulla backlist, cioè sulla lista delle opere precedenti, piuttosto che recuperare un classico. Insomma, il fumetto vecchio non si fa. Solo se l’autore o l’autrice ha pubblicato da poco un fumetto adatto ai gusti del pubblico italiano, della forma giusta e magari legato a una tendenza attuale, allora si può sperare di vedere tradotti e pubblicati i suoi lavori precedenti.

Non faccio l’editrice né voglio mettere in discussione le ragioni di chi deve far funzionare un’impresa che deve potersi sostenere economicamente. Ma dal punto di vista di lettrici e lettori, davvero l’età di un libro fa così tanta differenza? Saremmo davvero in grado di accorgerci che un certo fumetto è uscito nel 2009, leggendolo nel 2021? I libri hanno davvero bisogno di una data di scadenza?

Perché i fumetti tradotti arrivano tutti dagli stessi paesi?
La maggior parte dei fumetti che ho citato finora sono stati disegnati e pubblicati in paesi francofoni e anglofoni, anche quando i loro autori e le loro autrici hanno origini differenti. È in parte inevitabile: sono le lingue con cui lavoro. Ma non è solo questo, e del resto il processo che porta alla traduzione di un fumetto e al suo lancio in un mercato estero non è fatto solo di scrittura.

Francese e inglese sono le lingue più conosciute, a livello di pura comprensione, da chi si occupa di fumetti, e questo ha due conseguenze. La prima è lo scoglio linguistico che blocca sul nascere la possibilità di tradurre titoli in lingue diverse da quelle più diffuse.
La seconda è il restringimento dell’immaginario: pubblichiamo i fumetti che siamo abituati a leggere, cioè quelli nelle lingue che conosciamo. Nessuno è davvero del tutto immune da questo vizio di forma: anche io, me ne accorgo arrivata ormai alla fine dell’articolo, ho citato quasi solo fumetti disegnati da donne, cioè quelli che leggo più spesso per abitudine (che vuol dire anche gusto, ideologia, passione, eccetera). Se non altro, dalla frequentazione di scritture femminili e femministe ho imparato qualcosa di utile al lavoro editoriale tutto, e cioè a mettere in discussione le letture che amiamo, e a domandarci sempre da dove arrivano e perché. Se nelle bibliografie, nei cataloghi, negli scaffali delle librerie private ci sono lingue e geografie che dominano sulle altre, è bene farci caso perché l’abitudine, anche quando nasce dalle intenzioni migliori, finisce per generare esclusione.

Lo si vede bene quando fumetti in inglese e francese disegnati da autori e autrici che hanno origini diverse non vengono pubblicati perché ritenuti non adatti al pubblico italiano. Penso alle difficoltà incontrate insieme al gruppo del festival BilBOlbul per arrivare alla pubblicazione, nel 2019, di Negri gialli e altre creature immaginarie di Yvan Alagbé, autore francese originario del Benin (poi uscito per Canicola su traduzione di Vittorio Camilli) – una raccolta di storie brevi che scavano nella questione identitaria della migrazione, passando dalla fiction pura alle strip comiche al ritratto della vita parigina di una famiglia di migranti. Mi viene in mente un’altra raccolta, Hot Comb, della fumettista ed etnografa statunitense Ebony Flowers, vincitrice negli USA di un Eisner e di un Ignatz Award. È un racconto corale che ha al centro un salone di parrucchiera per donne nere, in cui si intrecciano le vite e le esperienze di un gruppo di protagoniste; una sorta di versione tricologica di Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo, che si è imposto come piccolo fenomeno anche sul mercato italiano nel 2020, grazie alla traduzione di Martina Testa per SUR.
Si potrebbe continuare, ma è più utile forse porsi una domanda: se davvero il pubblico italiano non è pronto per queste storie, quali sono le ragioni? E cosa possiamo fare, noi che con i libri e i fumetti lavoriamo, per invertire la tendenza?

C’è già chi, per fortuna, si è posto queste domande (un esempio su tutti è la collana “Cartographic” della casa editrice Mesogea, specializzata in culture mediterranee, che sta traducendo titoli da Grecia, Polonia, Libano e altri paesi poco frequentati dal fumetto italiano), ma i passi da fare sono tanti.
Il primo potrebbe essere aprirsi a professionalità diverse. Le redazioni delle case editrici di fumetto sono spesso piccole e a corto di personale e di fondi, e non è raro che la stessa figura professionale si occupi di ogni passaggio della pubblicazione di un titolo importato, dalla revisione della traduzione (quando non direttamente della traduzione stessa) alla sua commercializzazione e promozione. Favorire uno scambio di competenze tra chi pubblica fumetti in Italia e chi legge, traduce e opera su lingue, culture e mercati editoriali diversi sarebbe senz’altro uno sforzo economico, organizzativo, culturale notevole, e non sono convinta che le condizioni attuali in cui versa l’editoria a fumetti italiana lo permettano. Sforzo che andrebbe poi esteso a chi si occupa di promozione della lettura, della formazione di chi lavora in biblioteca, in libreria e a scuola, e naturalmente a chi organizza festival, mostre e manifestazioni legate al fumetto.

Un altro passo, parallelo al primo, è allargare lo sguardo in fase di scouting, anche perché spesso è più facile trovare bandi, finanziamenti e incentivi alle traduzioni da e verso lingue diverse da quelle canoniche. Anche questo passa per la mescolanza di saperi, per la creazione di redazioni allargate, di reti di collaborazione che portino a redazioni più inclusive e rappresentative non solo della varietà dei fumetti che vengono disegnati nel mondo ma anche delle lettrici e dei lettori che, chissà, potrebbero avere voglia di leggerli, e amarli al punto di farli conoscere ad altre persone.

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