Qualche consiglio, tra ricerca e intervento
di Fulvia Antonelli

Questo articolo è uscito sul numero 16-17 de “Gli asini”, giugno/settembre 2013. Abbonati ora per avere la versione cartacea o acquista l’ultimo numero.
Che si lavori come assistente sociale, insegnante, educatore, operatore sociale, che si faccia attivismo sociale o volontariato dentro una associazione, un collettivo, un centro sociale o che si partecipi ad un comitato come cittadini, lavoratori o genitori, che si voglia fare una inchiesta, scrivere un reportage, raccogliere storie di vita, diventare narratori o cantori della propria realtà, prima di tutto è fondamentale imparare a fare due cose: a prescindere da sé stessi e a non prescindere dagli altri. L’inchiesta dovrebbe essere alla base di qualsiasi lavoro di intervento, anzi essa è già l’inizio di un intervento sociale, ma pur essendo condizione necessaria all’azione non è certo sufficiente in sé stessa. Essa è inoltre permanente, nel senso che accompagna nel tempo il nostro agire e registra le trasformazioni che intervengono (oppure no) sulla realtà in seguito alle nostre esperienze.
Gli strumenti di una inchiesta sono vari e la nostra creatività ed i nostri interessi possono suggerirci modi diversi per accrescere la nostra conoscenza della realtà, tuttavia l’osservazione e l’intervista sono due “classici” dell’inchiesta.
Riguardo all’osservazione le scienze sociali hanno accumulato molte riflessioni soprattutto teoriche, ma per chi si ponga scopi più empirici un utile libretto è quello di Cechov, Scarpe buone ed un quaderno di appunti. Come fare un reportage (Minimum fax 2004), che è una raccolta di consigli pratici e molto efficaci per la stesura di un reportage tratti da un suo lavoro di inchiesta molto più esteso sull’isola di Sachalin, dove il regime zarista inviava i dissidenti ed i criminali condannati ai lavori forzati. Attraverso i cinque sensi Cechov ci porta alla scoperta dell’esperienza di un luogo a lui sconosciuto e dei suoi abitanti di cui riesce a capire le condizioni di vita attraverso il continuo camminare nei luoghi, l’ascolto delle persone, la disponibilità a cogliere gli odori e a cercarne le origini e le storie, accettando l’ospitalità di coloro che lo invitano a casa. Fra i suggerimenti che Cechov lascia ci sono quelli ad esempio di percorrere i luoghi e di parlare con le persone senza una intenzione precisa, lasciando che i nostri interlocutori possano esprimersi liberamente e non dentro un meccanismo di intervista troppo guidato, dove si finisce per non sapere nulla o per sapere ciò che si immaginava già; di osservare i bambini, le loro interazioni ed i loro giochi perché dicono molto sulla realtà degli adulti, riflettendola spontaneamente e senza filtri.
Quando ci proponiamo di fare lavoro di comunità ad esempio in un quartiere e siamo educatori, assistenti sociali, insegnanti o membri di una associazione che vuole fare animazione sociale, quando insomma ci occupiamo dei bisogni degli altri, l’osservazione dell’ambiente in cui siamo ci aiuta a capire dove sono i problemi, a mettere insieme le persone che possono con noi proporre soluzioni alternative a quelle istituzionali e a riattivare il “capitale sociale” collettivo dei singoli. L’osservazione di un quartiere per capire le sue dinamiche, le sue zone d’ombra e le sue risorse è una attività che va fatta in ogni ritaglio di tempo libero e consiste nel camminare e camminare nelle strade, in diversi momenti della giornata, in giorni sempre differenti, per cogliere l’usuale e l’inusuale delle situazioni, vedere cose invisibili ad un primo passaggio, scoprire luoghi che si animano e che divengono ritrovi solo in alcuni momenti della giornata. Perchè un luogo ci diventi familiare è in fondo necessario che noi diventiamo figure del luogo.
Per conoscere un quartiere è interessante osservare che rapporto intrattiene ad esempio con il centro della città, la sua raggiungibilità con i mezzi pubblici, la sua storia, la sua architettura e il costo dei suoi affitti, si possono anche incrociare dati e studi che sono reperibili nei siti delle istituzioni cittadine, ma poi su questo “tappeto” di dati è necessario anche fare un esercizio di immaginazione e provare a capire il senso che alcuni luoghi hanno per le persone che ci abitano: quali sono i gruppi di persone ad esempio che passano il loro tempo libero nei vari bar di quartiere ed in base a quali interessi comuni o differenze; quali sono i luoghi abbandonati e perchè; quali sono le “leggende” di quartiere e le storie vere o false che si raccontano su di esso, come chi non vi abita definisce la zona.
Tutto questo perchè oltre alla mappa fisica di un territorio esiste spesso una mappa che non coincide con la prima, i cui confini non sono stabiliti dall’alto delle ripartizioni territoriali amministrative, ma dall’appartenenza delle persone ai luoghi e alla loro storia, ed è questa mappa emotiva che ci aiuta meglio a capire il limite e la dimensione delle comunità che convivono su un territorio e ad inserire il nostro possibile lavoro di intervento proprio sulle loro connessioni eccentriche.
È importante tenere un diario del proprio lavorio di osservazione quotidiana, perché proprio come un alberello cresce per accumulo di strati, quando riusciamo a mantenere viva la tensione all’osservazione di ciò che ci sta intorno riusciamo anche a non diventare anche noi una comunità chiusa fra le comunità del quartiere ma a mantenere viva l’effervescenza del mischiarsi di situazioni e generazioni differenti: osservare e tenere un diario riflessivo di tutto ciò che cambia e permane intorno al nostro agire ci aiuta in sostanza a nutrire la nostra curiosità e quindi anche la nostra capacità di immaginare il cambiamento.
Altro classico dell’inchiesta è l’intervista, tecnica anch’essa ampiamente codificata dalle scienze sociali ma sostanzialmente sfuggente a dispetto di ogni riduzionismo scientifico. L’intervista, essendo un dialogo, ha un esito che dipende inevitabilmente da chi la conduce e dai suoi interlocutori. Se intervistiamo il presidente di un quartiere, un tecnico dell’ufficio urbanistico o il presidente di una associazione che ci racconta la sua attività in un quartiere, in fondo sembrerebbe sufficiente preparare domande aperte ma precise, avere le idee chiare ed interrogare i nostri interlocutori cercando di estrarre da loro come da una miniera le informazioni a cui siamo interessati. Ma non è così semplice come potrebbe apparire. Chiunque ricopra un ruolo istituzionale infatti si rivelerà un interlocutore difficile da interpretare perchè – spesso ben consapevole del suo potere di monopolio di rappresentazione della realtà- un amministratore fornirà dati che interpreterà inevitabilmente cercando di enfatizzare il ruolo della sua azione rispetto ai fenomeni che vi descrive. Un tema eccellente ad esempio della lotta per le rappresentazioni pubbliche di un quartiere è quello della sicurezza urbana, su cui in fondo sembra impossibile raccogliere dati reali ma solo registrare il livello di panico morale degli abitanti verso certe categorie di persone (le note “classi pericolose” ovvero immigrati, giovani adolescenti, poveri) e il livello di opportunità della politica locale ad amplificarne le ansie.
Ancora più complessa è la questione delle interviste a persone che non interroghiamo per il loro ruolo pubblico ma per la loro esperienza personale di una situazione (gli operai di una fabbrica in lotta, gli inquilini di uno stabile popolare occupato, i maestri di una scuola, etc.).
In questo caso la relazione che si instaura con l’intervistato e il nostro posizionamento non solo emotivo ma anche strutturale (culturale, sociale, di classe) nei confronti dell’altro è cruciale.
Al riguardo Sandro Portelli, riferendosi alla sua esperienza di storico orale fra i minatori del Kentucky negli Stati Uniti, racconta: “Quando cominciai a fare questo lavoro, i miei amici americani mi mandarono lettere terrorizzate, dicendo: tu sei pazzo lì c’hanno tutti il coltello, lì i sociologi li ammazzano, e in realtà si riferivano a un fatto molto preciso, a un giornalista televisivo, progressista e democratico, che era andato lì a filmare le condizioni di povertà e di sfruttamento della gente di quella regione e… li offendeva. Poiché essendo quei minatori calvinisti, se tu vai dicendo che sono poveri, stai anche implicitamente dicendo che sono dei poco di buono. Però che lì ci fosse una tradizione di ostilità nei confronti degli estranei era vero. Dopo due, tre anni che continuavo ad andarci – sono trent’anni che ci vado sistematicamente – ho cominciato a chiedermi: com’è che non mi sparano? E mi capitò di trovare una persona che parlava un po’ la mia lingua, non nel senso che parlava italiano ma che aveva avuto esperienze politiche e culturali meno aliene dalle mie. Per capirsi, questa era una donna che lavorava in miniera, però aveva conoscenza dei movimenti contro la guerra e per i diritti civili. E io le chiesi, com’è che tutti quanti sono così gentili con me? E lei rispose, primo non sei di New York e non sei di Chicago, nel senso che non trasmetti la sensazione di essere uno che viene dai luoghi dove c’è il potere, sei italiano figuriamoci. Secondo, tu sei qui solo per raccogliere un po’ di informazioni e le persone sono contente di aiutarti. Quello che si capovolgeva era, almeno nel momento dell’intervista, il rapporto di potere: erano loro che aiutavano me, infatti quando si dice che facendo storia orale noi diamo voce a chi non ha voce, è un grande fraintendimento, sono loro che hanno la voce e la danno a me, e se non fosse per loro non sarei in grado di scrivere niente”. (L’intero intervento di Sandro Portelli è leggibile sul sito della Rivista Napoli Monitor cercando “Portelli, Terkel e la memoria della voce”).
Semplicemente per fare una intervista bisogna essere coscienti del rapporto di potere in cui siamo di fronte all’altro. Questa verità semplice, che è risultata una cruciale innovazione ed una presa di coscienza piena di pathos etico e teorico all’interno delle scienze sociali che più si basavano sulla relazione con l’altro come strumento conoscitivo (vedi la ricerca sociale qualitativa e l’antropologia), è molto evidente a qualsiasi ragazzino, minore straniero non accompagnato ad esempio che entri in una comunità minorile di accoglienza. Prima di tutto il ragazzino si troverà di fronte ad educatori e psicologi che gli chiederanno di raccontare la sua storia, gli faranno domande sulla sua origine, sulla sua famiglia sulla sua età e sul suo arrivo in Italia. Perchè possa accedere al diritto di essere accolto e non espulso come straniero irregolare la sua storia dovrà essere convincente, non dovrà cadere in fallo, dovrà essere reticente su tutti gli aspetti della sua esistenza che possono non inquadrarlo perfettamente nella condizione di un minore straniero solo (ad esempio se ha parenti irregolari in Italia farà bene e a non dirlo). Diventa evidente che nel rapporto istituzionalizzato che c’è tra un educatore chiamato a scrivere relazioni per l’assistente sociale sulla condizione del ragazzo, che di conseguenza decide per il suo futuro e il ragazzino ogni intervista non potrà che essere segnata da un meccanismo di gioco di specchi: o l’altro diventa strategicamente
la perfetta immagine del soggetto che ci si aspetta di incontrare o l’altro si nasconde e diventa un irraggiungibile enigma. Al di là dei casi dove l’intervista è segnata da un evidente squilibrio di potere fra le due parti, anche la distanza culturale, di età e di esperienza può diventare insanabile se non siamo disposti a perderci un po’ nell’altro, insomma a prescindere da noi stessi cercando una relazione di complicità ed una disposizione di ascolto vero.
Tenute presenti queste riflessioni ecco alcuni suggerimenti per condurre una intervista: darsi tempo e dare tempo all’altro per parlare; registrare la conversazione dove questo è possibile per poter dedicare tempo all’ascolto senza dover prendere appunti; porre questioni a cui non si possa rispondere con un sì o con un no ma che permettano alle persone di argomentare le loro opinioni; chiedere esempi concreti che illustrano il loro punto di vista; fare attenzione al linguaggio e alla ricorrenza di alcune parole chiave nel discorso dell’altro cercando di riflettere sul significato ad esse conferito; cercare di porre le stesse questioni a più persone: la verità non la scopriremo attraverso una media matematica dei punti di vista, ma potremo imparare che ognuno conta, ha delle ragioni e che questa costellazione di visioni è ciò da cui dobbiamo partire per fare intervento sociale. Infine essere consapevoli che facciamo delle scelte di campo quando agiamo, decidiamo i nostri compagni di viaggio e diamo valore e attenzione in particolare a certi punti di vista, tutto ciò non è un difetto, soprattutto se poi condividiamo con le persone (educatori, abitanti del quartiere, etc.) i risultati della nostra inchiesta. Alla fine di questo lavoro se ho incontrato persone diverse da me, di età, cultura e storia diversa dalla mia, se con loro ho discusso di cose che mi stanno a cuore e ho la sensazione che le mie convinzioni siano cambiate, se osservo il mio quartiere in modo diverso, se ho voglia di agire per cambiare le cose che ho capito non funzionare, allora viene il bello.
Questo articolo è uscito sul numero 16-17 de “Gli asini”, giugno/settembre 2013. Abbonati ora per avere la versione cartacea o acquista l’ultimo numero.
Strumenti bibliografici
Truman Capote, A sangue freddo, Garzanti 2005
Luciano Bianciardi, Carlo Cassola, I minatori di Maremma, ExCogita 2004
Maurizio Braucci e Giovanni Zoppoli (a cura), Napoli comincia a Scampia, L’ancora del Luciano
Anton Checov, Scarpe buone ed un quaderno di appunti, Minimum Fax 2004
Danilo Dolci, Inchiesta a Palermo, Einaudi1956
Mediterraneo 2005
Goffredo Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Aragno 2009
Jean Genet, Palestinesi (in particolare: 4 ore a Chatila), Stampa Alternativa 2002
Stefano Laffi (a cura di), Le pratiche dell’inchiesta sociale, edizioni dell’Asino 2011
Alessandro Leogrande, Uomini o caporali, Mondadori 2008
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi 2010
Salvo Licata, Il mondo è degli sconosciuti, Sellerio 2004
Jack London, Il popolo degli abissi, Robin 2005
Mario Maffi, New York. L’isola delle colline, Il Saggiatore 1995
Danilo Montaldi, Franco Alasia, Milano, Corea. Biografie di immigrati. Donzelli 2010
Danilo Montaldi, Autobiografie della leggera, Einaudi 2012
George Orwell, Senza un soldo a Parigi e Londra, in Romanzi e saggi, Mondadori 2005
Antonio Pascale, La città distratta, Einaudi 2001
Pier Paolo Pasolini, Comizi d’amore, 1965.
Alessandro Portelli, Biografia di una città: storia e racconto. Terni, 1830-1985, Einaudi 1985
Alessandro Portelli, Città di parole: Storia orale di una periferia romana. Donzelli 2007
Alessandro Portelli, America profonda, Donzelli 2011
Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi 1998
Rocco Scotellaro, L’uva puttanella. Contadini del Sud, Laterza 2009
Studs Terkel, Americani, Rizzoli 2008
Stefano Liberti, A sud di Lampedusa, Minimum fax 2008