Prima e dopo la crisi sanitaria

In questo dossier sulla Liguria ci sono molte questioni brucianti, di quelle che fanno rabbia e che rappresentano, in un territorio tanto piccolo, alcuni dei grandi temi del nostro Paese e della nostra Europa. Ci sono i migranti che provano a sconfinare in Francia, sulla costa e sulle Alpi; c’è il porto di Genova e i suoi lavoratori alle prese con il traffico navale di armamenti, che dall’Europa vanno a nutrire i conflitti in Medioriente e in Africa; c’è la questione ecologica attraverso la critica ai porticcioli turistici, simbolo decennale di una terra in crisi di identità, di mestieri, di urbanistica, di sostentamento nel senso della sostenibilità di una comunità; c’è la cultura che prova a dare voce a quel che invece rimane di un’essenza secolare di una Liguria intesa come terra, come popolo, e non solo come cartina geografica; c’è la salute mentale come racconto ed evoluzione dell’intervento sociale, nelle pieghe più fragili di cui la Società dovrebbe farsi carico.
Ci siamo chiesti a lungo se tutto questo rimanesse valido anche dopo l’emergenza sanitaria che ha ridimensionato le nostre vite. Se non rischiasse, tutto questo, di suonare come l’eco di un’altra epoca, nonostante l’attualità dei temi in gioco.
Perché è una domanda aperta, come da tutte le parti: quale umanità riemerga oggi e in futuro dai mesi che abbiamo affrontato (in molti casi, subìto). E quindi, a tal proposito, quale Liguria riemerga, in tutte le sue questioni contemporanee, da questo periodo. Una capace di scrollarsi e di fare “passi di lato”, originali, cocciuti, o una ancora più stanca e rassegnata nelle sue miopie? Una che anela a qualche orizzonte o una che conferma di non aver idea di dove andare?
A Genova, cascasse il mondo, il cantiere del nuovo Ponte non si è mai fermato, e invece tutto il resto, tutto quello che ci è sempre stato detto che non poteva arrestarsi, ha taciuto per molte settimane. Il mare nel porto è ritornato blu come non lo si ricordava. Il cielo, limpido senza quella coltre di fumo scaricato dalle navi a ogni rada. La città silenziosa senza gli ingorghi incomprensibili delle sue migliaia di automobilisti, testardi inquinatori di strade strette che sono tutto tranne che a misura di auto. Una Genova anziana, impaurita di fronte a un virus invisibile che colpisce primi fra tutti proprio gli anziani, e che ha chiuso in casa i suoi bambini già così privi di spazi verdi, guardianando sentieri e spiagge.
Altrove, nella Liguria dei paesini, la chiusura si è sentita meno per chi già nell’ordinario vive una dimensione urbana rarefatta, e ha continuato a portare avanti le pratiche rurali. Ruralità che anzi si è presa una piccola rivincita, con l’aumento esponenziale dell’interesse per la filiera corta, per il commercio di ortaggi e frutti del territorio. Il che restituisce anche una prospettiva più concreta a quei giovani attratti dall’idea di cimentarsi con la terra, recuperando di fatto alla regione un po’ della sua vocazione millenaria.
Certo è che la Liguria, in questi anni ampiamente vittima dei suoi errori, delle sue incurie, inerzie e della sua mancanza di visione, sempre più palesemente esposta al degrado del suo welfare, alla privatizzazione della sua sanità, e a un’urbanistica in troppi casi non adatta alla sua morfologia, né alla sua vocazione, si è trovata con la chiusura forzata a guardare in faccia, in modo ancora più netto e inequivocabile, la sua realtà socio-territoriale. Tutto quello che dalla chiusura ha guadagnato (perché erano potenzialità già presenti, come la qualità del suo territorio) e tutto quello che ha perduto (perché già prima era trascurato, come gli spazi a misura di bambino).
La sua mobilità inadatta prima, oggi esce ancora più in crisi dalla pandemia. Così l’organizzazione del lavoro. Così la cura delle aree naturalistiche. Così l’intervento sociale e educativo nelle fasce più deboli della popolazione.
Eppure, forse fuori dallo spettro visibile dei cambiamenti, qualcosa ha avuto modo di trasformarsi, sia nella consapevolezza sia nella pratica di alcune comunità, e a ricaduta di alcuni enti. L’iniziativa forse più rilevante sta nel fatto che il Comune di Genova, sotto la spinta di oltre 40 associazioni e di una petizione firmata da 10mila cittadini, ha avviato la tracciatura di una Rete Ciclabile d’Emergenza, come sta avvenendo in altre città. Pochi segni sull’asfalto che – in un contesto stradale come quello genovese – fanno fare alla mobilità cittadina un salto avanti di anni e aprono una possibilità nuova già anticipata nel resto della riviera, ma finalmente pensata per studenti e lavoratori e non solo per turisti.
Una mobilitazione analoga sta montando rispetto al tema delle spiagge libere e delle ordinarie violazioni da parte dei concessionari privati, nell’ostacolare e deturpare l’accesso al bene comune dei litorali marittimi.
È in ogni caso un momento fertile per mettere in campo alleanze e iniziative, pressioni e alternative, per chi ha buona volontà e coscienza critica dei nodi irrisolti, da troppi anni, in questa terra. Ecco il senso di un dossier che riprende le sue questioni brucianti. Per non uscire dall’emergenza con soluzioni d’emergenza, ma decidendosi ad affrontare e cambiare le storture strutturali della agognata “normalità”.