Pietro Gori il ribelle
Nella quarta di copertina di Istante propizio, 1855 dello scrittore ceco Patrik Ouředník, pubblicato qualche anno fa dalle gloriose edizioni :duepunti, Paolo Nori riassumeva il romanzo con poche semplici frasi: “È bella l’anarchia? È bellissima. È possibile? Non è possibile. È meno bella per il fatto di non essere possibile? Non è meno bella”. Il romanzo di Ouředník racconta la storia di un gruppo di anarchici che si imbarca su una nave per fondare una colonia libertaria in Brasile a pochi anni dalla realizzazione dell’unità d’Italia. Esso traduce in racconto di finzione uno spirito diffuso nella seconda metà dell’Ottocento, che aleggiava in tutta Europa e in particolare in alcune città italiane, soprattutto del centro-nord. Piccole città in cui la militanza politica era frutto dell’incontro tra giovani e meno giovani, studenti e artigiani, contadini e operai, e aveva l’obiettivo di imprimere una svolta radicale agli eventi: non con l’intento di realizzare un’utopia bensì con quello, più concreto, di modificare lo stato di cose esistente. A interpretare questo spirito erano tra gli altri gli esponenti del socialismo anarchico: uomini e donne socialisti per convinzione economica e anarchici per vocazione politica, esseri umani che volevano “anarchia nei rapporti umani, amore come espressione di un fatto sociale, abolizione della gerarchia, negazione di Dio, libertà per ciascuno, destino comune – ecco il socialismo” (così il protagonista del romanzo di Ouředník). Una costellazione eterogenea e numerosa che dava vita a giornali, riviste, riunioni politiche, comizi – ma anche spettacoli, performance e poesie: e agitazioni di piazza, naturalmente. Compagni di strada di un movimento internazionale con cui più tardi sarebbero entrati in rotta di collisione, fino a diventare bersaglio privilegiato non soltanto delle forze dell’ordine, ma anche di una psicologia positivista e di un’antropologia criminale che – pensando di poter distinguere senza errore gli elementi di progresso e quelli che ostacolavano la sua realizzazione – identificarono nell’anarchia una deviazione naturale o una patologia psichica, fungendo così da alleate involontarie di politiche repressive come quelle portate avanti, ad esempio, dal presidente del Consiglio Francesco Crispi, che nel luglio del 1894 fece approvare dal Parlamento del Regno d’Italia quelle che ancora oggi vengono ricordate come le leggi anti-anarchiche (pur avendo anche, e forse principalmente, altri obiettivi).
Di tutto questo e di un più generale spirito dell’epoca parla il libro di Massimo Bucciantini Addio Lugano Bella (Einaudi), che rappresenta tra le altre cose un’ottima risposta al recente e perenne dibattito su che cosa significhi fare Storia. Il libro di Bucciantini completa un percorso articolato che ha visto negli scorsi anni altri due episodi, dedicati rispettivamente alla statua di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori a Roma e alla messa in scena di Strehler della Vita di Galileo, e costituisce così una trilogia che, per usare le parole dell’autore, ricostruisce “pezzi di un’Italia laica e civile che rischia di essere dimenticata”. Un progetto di ricerca storica animato da rigore scientifico ma non esente da un afflato libertario, da cui anzi risulta felicemente orientato. Qui Bucciantini si concentra su una storia talmente celebre da risultare paradossalmente rimossa, o se non altro ignota oggi a moltissimi: la storia personale e pubblica di Pietro Gori, tra i più celebri esponenti del pensiero e dell’azione anarchica di fine Ottocento. Avvocato, scrittore, autore di alcuni tra i più noti canti anarchici (da cui il titolo del libro), Gori è nato nel 1865, e cioè quattro anni dopo la nascita del Regno d’Italia. La data è importante perché attraverso la figura di Pietro Gori il libro racconta di quella generazione vissuta nel tradimento delle promesse del Risorgimento, di quei giovani che avevano la percezione chiara che i loro padri avevano lottato per qualcosa di diverso dalle misere condizioni in cui troppi ancora versavano. È la storia di una generazione in rivolta contro lo sfruttamento, la miseria e la diseguaglianza, una generazione che rifiutava di arrendersi e voleva anzi dichiarare la pace per gli oppressi e la guerra agli oppressori. A partire da questo nucleo fondamentale il libro si schiude però a molti altri aspetti, anche in ragione della scelta di mantenere costantemente un tono narrativo: se ogni aneddoto, racconto o affermazione è accuratamente giustificato nel poderoso corpus di note poste in fondo al volume (nel quale lo specialista troverà riferimenti precisi alle fonti, nonché ulteriori possibili piste di ricerca), il libro è volutamente aperto a un pubblico di non specialisti e rivendica esplicitamente “un progetto di riscrittura della storia contro gli specialismi, la loro aridità e incomunicabilità”. La sua lettura è dunque appassionante perché consente di entrare in un universo di personaggi grandi e piccoli della storia d’Italia, uomini e donne spesso straordinari, dal prefetto Giuseppe Sensales al questore Ermanno Sangiorgi passando per Oreste Falleri detto Diobello, il vinaio anarchico di piazza delle Vettovaglie a Pisa. Tutti i primi capitoli del libro sono in effetti un omaggio alla città di Pisa, già a fine Ottocento cittadina universitaria animata da una vivacissima vita politica e oggi una delle poche in Italia ad avere una via dedicata a Pietro Gori. Ma il panorama si apre progressivamente seguendo gli spostamenti di Gori, la sua infaticabile attività politica, le reazioni dei suoi nemici e l’analisi delle indagini di polizia e delle carte giudiziarie, fino a condurci nella Lugano che caccerà lui e i suoi compagni ispirando il celebre Canto degli anarchici espulsi, che è il nome originario dell’Addio a Lugano. Il libro di Bucciantini è in effetti la storia di una celebre canzone, ma è anche una storia del neonato Regno d’Italia dalla parte dei sovversivi, dei cattivi, degli sconfitti e dei malfattori, e cioè di quei nipotini di Mazzini, Garibaldi e Masaniello che, in altre condizioni, la Storia universale avrebbe potuto riconoscere come eroi.
Come guardare oggi alla figura di Pietro Gori, tra mito e realtà storica? Il fascino che lo accompagnò in vita continua a rifulgere, senza impedirci di riconoscere i debiti nei confronti degli impianti retorici tipici di un’epoca. Eppure Gori aveva qualcosa di unico: dalle sue parole prendevano corpo le ingiustizie della società e le vite degli operai e dei contadini, “attraverso di lui è un’umanità dolente a prendere forma e a prendere la parola”; ogni suo intervento “era politica che diventava teatro, ragionamento che faceva cortocircuito con le emozioni e i sentimenti”. Tanto da obbligare uno zelante funzionario di polizia, in occasione di una sua conferenza a Piombino nel 1891, a interrompere la lettura di una sua poesia, “troppo diverso essendo nei riguardi dell’ordine pubblico l’effetto della parola scritta e della parola parlata”. Gori appare oggi allora come un inno costante alla rivolta e alla gioventù: non un invito all’irragionevolezza, ma un appello all’irresponsabilità, se responsabile è chi non si arrischia mai a mettere in discussione lo status quo e così facendo perpetra le diseguaglianze che lo caratterizzano. Una figura da riscoprire, soprattutto in periodi in cui i concetti di responsabilità e di obbedienza agli ordini sono sottoposti a pericolose e ricattatorie confusioni.
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