Piccola editoria: come salvarsi?

Sul “Corriere della sera” del 24 aprile 2020, c’è un articolo in cui Riccardo Cavallero, titolare della casa editrice milanese Sem, chiede allo stato misure immediate di salvataggio per le piccole imprese del suo settore – che è anche il mio. “È indispensabile”, scrive, “che vengano adottate rapidamente delle misure economiche che sostengano veramente la piccola editoria al fine di permetterne la mera sopravvivenza. Poi ragioneremo su come cambiare la dinamica di mercato e rettificare vecchie abitudini”. Un incondizionato bailout per la piccola editoria, insomma, settore che non deve fallire perché “la bibliodiversità è un valore”.
Riccardo Cavallero viene dall’economia aziendale e dal marketing ed è stato direttore generale di Mondadori libri prima di fondare Sem (di cui il gruppo Feltrinelli detiene il 37,5% delle quote); io ho fatto studi umanistici e da vent’anni lavoro come editor sempre e solo nell’editoria indipendente. È probabilmente inevitabile che, con percorsi così diversi alle spalle, le nostre prospettive siano molto diverse; la sua richiesta di salvataggio, che pure includerebbe a tutti gli effetti l’azienda per cui lavoro, non mi rappresenta.
Ecco invece come la penso.
Il settore privato è, appunto, privato. Lo stato è la sfera del pubblico. Allo stato non si deve chiedere di salvare il settore privato, lo stato deve salvare i suoi cittadini.
Lo stato non deve salvare filiere che hanno intere parti marce, inquinate da posizioni monopolistiche, da una vastissima precarietà, da strategie industriali che privilegiano il profitto sulle persone, da sistemi di mercato che creano “bolle” sempre in procinto di scoppiare. Quei bubboni devono scoppiare.
Lo stato non ha il dovere di continuare a salvare un sistema in cui i lavoratori vivono nella precarietà; ha il dovere di creare nuovi posti di lavoro sicuri e sensati per i lavoratori che verranno travolti dalla crisi del Coronavirus; deve reinvestire le loro energie in attività innovative, sostenibili, con autentiche ricadute positive sulla vita delle persone, e in servizi ai cittadini sul territorio.
Non deve salvaguardare il lavoro di un redattore free lance che corregge le bozze, a cottimo e senza tutele, di libri che finiranno a marcire nei magazzini; dovrebbe dire a quel correttore di bozze: vieni a insegnare italiano agli stranieri, perché ne stiamo regolarizzando tanti e servono mediatori culturali; ai precari del settore della ristorazione: vieni a lavorare in un grosso progetto di mense per le scuole dell’obbligo e le università; a chi insegnava in una palestra che ha chiuso: posso formarti per farti lavorare in strutture di assistenza ai disabili e agli anziani; ai precari della comunicazione e dell’audiovisivo: stiamo provando a trasformare questo pezzo della Rai in un’azienda innovativa e di alta qualità, venite a darci una mano; ai precari della musica, del teatro: stiamo mettendo su scuole di musica e di teatro per bambini e ragazzi nelle periferie e nelle zone rurali, cerchiamo professionisti del settore; e ai fattoni: alzatevi dal divano, stiamo legalizzando la produzione di erba, vi aiutiamo a mettere su aziende green che coltivino marijuana di qualità. E c’è anche un sacco di amianto da bonificare, ci sono impianti di smaltimento dei rifiuti da costruire, ci sono piste ciclabili da progettare.
Io penso che il compito dello stato, in un momento di crisi epocale, sia questo. Non salvare l’impresa privata. Avviare un piano per salvare i cittadini, in cui coinvolgere le forze sane dell’imprenditoria privata. (Che in effetti sono forse più spesso quelle delle aziende piccole e medie, piuttosto che quelle dei giganti.) Un piano da finanziare almeno in parte con una fiscalità diversa, più equa, fatta di tassazione realmente progressiva, lotta all’evasione, web tax per le multinazionali del digitale.
(E quando dico “lo stato” intendo noi: perché lo stato siamo noi, me l’hanno insegnato alla scuola dell’obbligo, non so se si insegna ancora. Lo stato, quantomeno il nostro stato, la Repubblica Italiana democratica e antifascista nata dalla Resistenza, non sono “loro”, siamo noi.)
Se questi vi sembrano sogni folli, puro idealismo, e non pensate che sia possibile e doverosa una battaglia su questo, che vada iniziata subito, se non pensate che i nostri cervelli, specie se siamo persone che lavorano col cervello, vadano resettati drasticamente in questa direzione: non a pensare come mantenere il lavoro che avevamo, ma a immaginare la creazione di nuovi lavori, per noi, per gli altri, per chi oggi ha quindici anni, per chi consegna la pizza durante le pandemie e non ha manco un’ora di permesso per malattia, a me sembrate più ottimisti di me. Vuol dire che immaginate che fra un anno il lavoro che facevate fino a qualche mese fa esisterà ancora. Ve lo auguro, ma io rispetto al mio non ho nessuna certezza. (E non penso nemmeno che tenermi il lavoro di editor della narrativa americana sia un mio diritto: gli articoli 1 e 4 della Costituzione per me non hanno mai significato che se voglio fare l’editor, lo scrittore, il film-maker, il calciatore, la Repubblica Italiana deve realizzare il mio sogno: significano che deve creare le condizioni perché tutti i cittadini possano trovare impieghi stabili, sicuri per la salute e utili per la comunità.)
Insomma: fra un anno i cittadini di questo paese non avranno bisogno di tanti editor di narrativa americana quanti ce ne sono ora; non mostravano di averne bisogno neanche prima della crisi (perché le librerie già chiudevano, e i magazzini erano già pieni di rese); figuriamoci dopo. Allora posso disperarmi pensando a quanto è ingiusto il mio destino, o mettermi a pensare come battere la concorrenza degli altri editor di narrativa americana in modo da restare a galla più a lungo di loro (scegliere libri più paraculi? aprirmi un profilo Instagram dove parlare dei libri che scelgo? farmi assumere da Mondadori?). Ma a me sembra molto più sensato cominciare a immaginare che futuro costruire per gli editor di narrativa americana (e i musicisti, i giornalisti, gli attori, i fonici, le insegnanti di salsa, gli agenti immobiliari, eccetera eccetera), che non ce la faranno.
A immaginare questo futuro mi stanno aiutando due economisti, Mariana Mazzucato e Fabrizio Barca, e il lavoro che stanno facendo con i loro gruppi di ricerca. Leggete i loro libri, ascoltate le loro interviste. Leggete le proposte del Forum Disuguaglianze e Diversità di cui Barca è portavoce, che mette insieme, per elaborare un piano di azione economica progressista, forze laiche e cattoliche e del terzo settore. Barca è un ex ministro; Mazzucato è consulente di una task force di governo. Non sono parolai e non arringano col megafono un pubblico di venti persone, sono figure autorevoli e riconosciute come tali, che lavorano con team di esperti. Le loro idee non sono lontane dai tavoli dei decisori politici. Ma non basta, se le loro idee non permeano il paese. Bisogna far sì che queste idee, queste proposte, questa idea di stato diventino temi di cui parlare coi nostri amici, con le nostre famiglie, coi nostri colleghi; prepararsi a dare battaglia per queste idee. Questo vuol dire per me essere di sinistra, in Italia, oggi.
Buon 25 aprile. Cerchiamo di arrivare al Primo Maggio con delle idee nuove in testa.
(Questo articolo, originariamente pubblicato il 25 aprile 2020 su Medium.com, compare qui con alcune modifiche.)