Per vederti meglio piccolo mio
Persino James Bond, il mitico agente 007 con licenza di uccidere, si sentirebbe inadeguato al suo ruolo di spia, entrando nella cameretta color pastello di un paffuto bebè. Infatti, il sistema di spionaggio, orchestrato dai genitori, risulta perfetto. Impeccabile per cogliere al meglio segnali, movimenti, silenzi sospetti della new entry in famiglia.
Una sorveglianza continua del bebè grazie a una videocamera, che nei modelli più sofisticati e costosi, è pure dotata di un sensore notturno per segnalare i “movimenti strani” e di un alert (collegabile con iPhone o iPad) caso mai il livello di rumore superasse la soglia di gradimento, oppure caso mai il piccolo non si muovesse per 20 secondi oppure se il ritmo del suo respiro rallentasse a meno di 10 respiri al minuto! Un monitoraggio continuo con l’aggiunta di ninne nanne memorizzate, di una lucina arcobaleno, antibuio, antipaura, e di un rilevatore della temperatura nell’ambiente. E, come se non bastasse, ormai in quasi tutte le varanti sul mercato, i Baby monitor rispondono automaticamente al richiamo del bambino, scattano foto girando e rigirando lo zoom fin a 360 gradi e sono collegate a un altoparlante esterno che consente all’adulto di cinguettare con il bebè, rassicurandolo, al primo vagito, sull’istantaneo arrivo di babbo o mamma.
Nel caso la famiglia si ampliasse, ci sono monitor compatibili fino a quattro videocamere a copertura totale! Perché, questi mostruosi oggetti, evoluti dai semplici interfoni o dai banali walkie talkie, portano il marchio indelebile di una convinzione più commerciale che reale: “i genitori vorrebbero vedere e sentire il loro bambino ogni minuto di ogni giorno”.
Di fatto, in questa foresta di Baby monitor, con tantissime variazioni di forma, colori e accessori, sembra di essere rinchiusi, stregati, sul set di un reality show. “Il grande fratello vi guarda” potrebbe essere allora lo slogan giusto per tanti Digimonitor Baby, Angelino, Angelcare, Babysense eccetera eccetera, esaltati da una pubblicità che, opposta al senso delle vecchie réclame, è caratterizzata dall’imperativo di “essere pubblica”, impudica, negante di ogni differenza residua fra la cosa e la conoscenza che si ha di essa.
Invece le “cose”, per lo più osservate e usate solo alla luce della loro smagliante apparenza, appassionavano la ricerca di George Perec perché traboccavano di significati, e stava, Perec, con Roland Barthes, dalla parte del linguaggio che circonda le cose, di ciò che ci sta sotto, di tutto ciò che le nutre.
Dietro a ogni baby monitor impegnato in un’operazione di spionaggio, in effetti, si muove un mondo intero di riflessioni about children, come era solito dire Winnicott, convinto com’era che parlare di un bambino o dei bambino fosse impossibile. Così preferiva parlarci attorno, a loro e alle loro cose.
Giornali, settimanali, web e Tv (come evidenzia l’accurata ricerca (data?) promossa dall’Osservatorio dell’Istituto degli Innocenti di Firenze e poi raccolta nel libro Bambini e stampa) continuano a dare la prima scena ad avvenimenti eccezionali, cupi, infidi, che riguardano i bambini, anche piccolissimi: violenze, infanticidi, crudeltà, sfaceli e sventure varie, sebbene, svela imprevedibilmente tale inchiesta, il vero paradigma interpretativo dei bambini nella società italiana sia oggigiorno quello fondato sul vivere quotidiano, ordinario, visto appunto come una fatale catena di potenziali rischi, di un pericolo in costante aumento.
In tal modo, da un lato, si cementa subdolamente l’idea che la natura umana non sia attrezzata per affrontare la vita, dall’altro si tende a persuadere i più che la società contemporanea è composta da una schiera di esseri falliti, impotenti, fragili e vulnerabili. Senza spina dorsale.
Eppure, un tempo il pensiero filosofico così come quello liberalista e democratico, così come tanta letteratura, avevano esaltato il rischio nella sua dimensione individuale, elogiandone l’etica e l’estetica. Sino agli anni ottanta il sapersi assumere un rischio, l’understatement, la tenacia e la forza d’animo rappresentavano il generale approccio della gente alle avversità e agli imprevisti della vita. Poi le cose sono cambiate, afferma il sociologo di Berkley, Frank Furedi, e la cultura terapeutica (“che è un modo di pensare più che un modo di curare i disturbi psichici”), forte della convinzione che manchino le risorse emotive per far fronte alle delusioni e alle circostanze avverse, ha fatto sì che parole quali fragilità, instabilità, traumatismo e vulnerabilità emotiva – imperanti nei talk show come nei tg o nelle varie poste del cuore – ci abbiano invaso a ragnatela, impaludando la gente in una percezione di sé intimista, debole, passiva e per lo più immutabile. Perché, il concetto di essere – di percepirsi – a rischio è molto diverso da quello comune di correre un rischio. Ciò che viene ad essere invertito è addirittura il rapporto fra il mondo (che caso in cui si “corra” un rischio può comunque essere esplorato) e l’esperienza, assegnando all’individuo una condizione di perenne vulnerabilità, un ruolo fiacco, privo di slanci o determinazioni. Si potrebbe allora precisare che essere a rischio non riguarda tanto quello che si fa, quanto una condizione soggettiva: quello che si è. E già Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’IO (data?) analizzava come il contesto culturale esterno, nel quale viviamo, lavori – incessantemente e a nostra insaputa – in una relazione dialettica sul formarsi delle idee, delle opinioni, inzuppando di sé l’intera personalità.
E lo stesso Roland Barthes ha sostenuto che proprio attraverso le amplificazioni mediatiche accade quella trasformazione della cultura piccolo-borghese in una natura universale: i bambini sono sentiti a rischio, sono fonte di preoccupazione ancor prima di esserlo. Non se mettono in luce i potenziali vitali e le risorse.
Nessuna sorpresa allora che bambini di otto, nove, anni non esitino a definirsi stressati o a dichiarare di avere avuto un trauma o di essere depressi. E poca meraviglia desta se le girls scout americane hanno coniato un “distintivo antistress”, oppure se, in una scuola elementare di Liverpool, si distribuiscono fazzolettini imbevuti di lavanda o si propongono massaggi alle mani o ai piedi per ridurre stress e aggressività, o se a Roma si inaugurano corsi anti-stress e parallelamente corsi per tollerare le frustrazioni!
A ulteriore conferma di questo fenomeno, solo per fare un esempio, i pediatri di base annotano come per genitori apprensivi e impauriti qualsiasi intervento richiesto sia sempre “urgente”, e come lo stesso banale raffreddore possa spesso diventare, sotto la spinta di incontenibili ansietà, “un terribile raffreddore”. Inoltre, i Pronto soccorso – generali e pediatrici – lamentano un aumento verticale di accessi di bambini trasportati in tutta fretta sotto l’incubo di meningite, convulsioni eccetera. Gli psicologi dei servizi sono sommersi da domande agitate: se “il bambino” non impara a leggere entro il primo mese di scuola potrebbe essere affetto da un deficit cognitivo? Attentivo? o potrebbe essere dislessico? Se si muove troppo nel banco potrebbe essere un iperattivo? Se ci si avvicina allo svezzamento, forse è meglio prepararsi prima? Il piccolo potrebbe reagire male, e se nasce un fratellino? Meglio prevenire la gelosia che correre il rischio trovarsi nei guai e infliggere una sofferenza al piccino.
Genitori, quindi, preparatissimi sui mille insidiosi pericoli del caotico mondo d’oggi, programmati per angosciarsi e dotati di indicatori d’ansia perennemente in allarme a prescindere dalla situazione. Genitori che si attaccano al clacson in mezzo agli ingorghi se il figlio è in ritardo per gli allenamenti, che si inquietano pensando che troppo glutine e latticini compromettano le facoltà mentali dei loro bambini, che stanno sulle spine per interrogazioni, prove di verifica o compiti in classe, genitori ossessionati da orchi, droga e alcol che pensano che le strade siano troppo trafficate per consentire ai rampolli di andare in giro a piedi. Genitori che impongono alle Tate di regalare la vittoria ai bambini per non mortificarli. Babbi paonazzi, con pancette e capelli diradati, che dal bordo campo sbraitano, pronti a scartare la palla al posto del loro bambino, o mamme ostinatamente “in rosa” che muovono commosse e speranzose le proprie punte al saggio di danza della loro bambina. Ovvio come il tutto si attutisca, o quantomeno diversamente si declini, per quei genitori – troppi . che hanno la preoccupazione schiacciante di sbarcare il lunario a fine mese.
E tuttavia quasi tutti, forse, sarebbero disponibili a calare un cappello da baseball sulla fronte e presentarsi all’esame al posto della figlia – come racconta in maniera esilarante il giornalista inglese O’Farrell nel suo Può avere effetti indesiderati. Peraltro lo scandalo degli “aiutini” alla cattolica di Roma dove un centinaio e più di genitori si sono presentati, al posto dei figli, per il test di ammissione alla Facoltà di medicina, oltre ad avere i connotati di un familismo amorale e perverso, conferma ironicamente che i figli – mai rintuzzati o delusi – vadano accompagnati a spasso sino a che non abbiano compiuto almeno quarantatré anni!
Come se i piccolissimi non fossero attrezzati ad alzarsi in piedi dopo aver gattonato, o i ragazzini non fossero capaci di comprare la merenda da soli, o di terminare una ricerca o di sostenere magari un’improbabile vittoria della mania nella seconda guerra mondiale, il tutto senza genitori saputelli alle spalle, senza essere pressati, o ansiosamente prevenuti o seguiti in strada da postazioni ravvicinate. Per loro, per i ragazzi, anno dopo anno, le tappe dell’autonomia sono avventure, imprese “rischiose” sia fisicamente che mentalmente: eppure danno fierezza, orgoglio, aiutano a crescere e ad avere fiducia in se stessi.
Intanto – ed è il gruppo di pedo-psichiatri francesi di Paris VIII a lanciare l’idea – i ragazzini vivono in “famiglie elicottero” (dagli elicotteri della polizia che sorvegliano le città americane) all’ombra vale a dire di ampie eliche, entro un cerchio ben delimitato. Chiuso. Tanto che la “famiglia elicottero”, “frettolosa” e “liquida” – più desiderosa di liberarsi da ansie e conflitti che non disponibile a pensare – si crogiola difensivamente nel mito, potenzialmente xenofobo, della sicurezza totale.
E mentre i più classici avvertimenti per bambini scatenati, le più classiche
delle raccomandazioni: mettiti la sciarpa, non correre a razzo, non infilarti nel congelatore, non giocare coi coltelli, si avviano sul viale del tramonto, ai nostri ragazzini – tenuti sotto l’elica – si raccomanda, più o meno ambiguamente, che si guardino dai “diversi”, dai coetanei per esempio migranti, handicappati, rom, ciuchettoni, o affetti da pidocchi e simili.
I bambini “esenti rischio” sembrano così ammorbati dall’allergia del secolo, Tilt (*) (toxicant induced loss of tollerance: perdita di tolleranza indotta da sostanze tossiche), che costringe chi ne sia colpito a vivere, fra solitudine e invisibilità, evitando il contatto con il mondo.
Eppure molti adulti, sebbene si rivelino attentissimi al fronte esterno che pare minacciare questi cuccioli d’oro iperprotetti, fragili e spavaldi, dimenticano il fronte interno dei ragazzi, sicuramente più pericoloso e insidioso perché in esso si riflettono le tante inadempienze e la cecità caparbia dei “grandi”.