Per una civile società
Da una parte siamo di fronte a popoli che non aspirano alla libertà democratica mentre, dall’altra, abbiamo democrazie che non vogliamo: popoli ‘liberi’ che danno il loro consenso a teocrazie, imperi, regimi del terrore, dell’odio e della pulizia etnica, gated communities, criteri di cittadinanza differenziati in base all’etnia o alla condizione di migrante, costellazioni post-nazionali aggressivamente neoliberali o tecnocrazie che promettono di risolvere i problemi sociali prescindendo dalle istituzioni e dai processi democratici
(Wendy Brown1)
L’accontentarsi delle richieste minimali della democrazia liberale produce un certo compiacimento rispetto all’affermarsi di ciò che io chiamo “postdemocrazia”. In base a questo modello, anche se le elezioni continuano a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve
(Colin Crouch2)
Sta a noi non vedere scomparire le lucciole. Ma per fare ciò dobbiamo acquisire la libertà di movimento, il ritrarsi che non sia ripiegamento su noi stessi, la facoltà di fare apparire scintille di umanità, il desiderio indistruttibile. Noi stessi – in disparte rispetto al regno e alla gloria – dobbiamo dunque trasformarci in lucciole e riformare, così, una comunità del desiderio, una comunità di bagliori, di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere. Dire sì nella note attraversata da bagliori e non accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi
(Georges Didi-Huberman3)
Non so se ci avete mai fatto caso, ma nelle nostre città si sono moltiplicate, per ogni dove, le rotonde. La rotonda è un dispositivo di regolazione del traffico urbano al quale i miei pensieri disordinati hanno sempre associato – un’immagine che esemplifica un concetto altrimenti troppo astratto – la società civile. Le rotonde sono, almeno apparentemente, molto democratiche: tutti possono passare e non c’è una figura centrale che, paternalisticamente (il semaforo, lo stato, la politica), ti impone quando devi stare fermo e quando ti devi muovere. Finalmente, gli individui sono liberi di organizzarsi in modo autonomo, facendo a meno di ogni tediosa istituzione mediatrice: tutto scorre più veloce, con più efficacia e con tanta più libertà. Le rotonde sembrano il dispositivo di regolazione urbana più coerente con la nostra attuale Flatlandia, cioè conl’immagine con cui ci piace rappresentare il mondo attuale, un mondo piatto, reticolarmene interconnesso, su cui si possono compiere infinite azioni alla velocità con cui le nostre dita si muovono sulla tastiera del computer4. Le rotonde, come la società civile, un fluidificante del naturale, magnifico e progressivo, moto sociale.
In città io mi muovo solo in bicicletta e come ciclista quotidiano posso dire senza esagerare di aver rischiato più volte la vita nell’attraversare le rotonde. Se non sei un’auto, non ti vedono e talvolta, quando mi sono dovuto buttare fuori dalla carreggiata per non essere investito, mi sono preso anche gli insulti. Nelle rotonde, come nella società civile, la brillante immagine (smart, come devono essere oggi le città) della libertà d’azione degli individui fa velo alle concrete differenze nella capacità di agire ed alle gerarchie che da esse derivano. Queste ultime sono così assunte come condizione naturale ed oggettiva del traffico, stradale o sociale che sia, che il dispositivo di regolazione deve limitarsi ad accompagnare.
Quello che vi propongo qui è un decalogo per l’autodifesa dalle retoriche dominanti sulla centralità della società civile. In queste retoriche la società civile viene intesa come un corpo sociale virtuoso in sé, omogeneo, impolitico (o pre-politico) e, anzi, virtuoso proprio in quanto separato dall’agire politico e animato dalla condivisione di valori di fondo. A me pare che la relazione tra educazione e democrazia, su cui si concentra questo numero della rivista, deve costituire il terreno per un generale lavoro di ecologia del pensiero che metta a tema (anche) i vocabolari attraverso i quali definiamo e diamo corpo al “sociale”. Il mio, dunque, non è niente di più che un invito, sbrigativamente argomentato, ad evitare alcune trappole del pensiero che la doxa sulla società civile trascina con sé5. Walter Privitera6, assai più competente di me su queste tematiche, tra altri commenti assai preziosi a queste mie considerazioni, mi ha fatto notare che “noi in Italia quando parliamo di società civile facciamo un indebito frullato di due tradizioni: quella tedesca hegelo-marxista della bürgerliche Gesellschaft e quella anglosassone fergusoniana della civil society”. Questa confusione linguistico-concettuale si è incarnata in una forma del discorso pubblico che ha avuto gioco facile a contribuire ad un più generale e profondo processo di de-politicizzazione delle questioni sociali, ridefinite cosi attraverso un registro privatistico (laddove si evocano le comunità, le piccole patrie, le radici identitarie) o tecnicistico (e allora devono intervenire gli esperti, ogni altra conoscenza ed esperienza essendo irrilevante).
Una nota di metodo: ho intenzionalmente cercato di contrapporre un testo asciutto a note corpose. Oltre a denotare la mia passione per le strade laterali, che si aprono continuamente nello scorrere dei nostri pensieri, lasciandoci intravedere le tante direzioni in cui possiamo cercare ed esplorare, quelle note aspirano ad una funzione di servizio, quella cioè suggerire almeno alcuni materiali in cui le scarne indicazioni del decalogo possono trovare un primo approfondimento.
- la società non è civile ma, eventualmente e a determinate condizioni, lo diventa;
- l’autocomprensione di una società come ‘civile’ dipende dagli occhiali che vengono inforcati7. Ci sono occhiali che fanno apparire civile soltanto ciò che ci è simile, ciò che si presenta come connotato di aspetti (valori, modi di fare, stili di comportamento) che sentiamo vicini. L’essere civili sembra così radicarsi in una comune appartenenza. Ma se inforchiamo gli occhiali di una società che non assume già in partenza di essere civile e che vuole rendersi tale, ci accorgiamo dei limiti di tale rappresentazione: in questo secondo caso la società civile (d’ora in poi SC) non è un dato a priori, ma semmai, il risultato di un processo sempre controverso e aperto;
- la partecipazione costituisce una efficace cartina di tornasole di questa differenza di visione. Essa può infatti essere utilizzata come il megafono di una società civile, appunto, data a priori; oppure può rappresentare, in modo complesso e con una attenta cura da parte delle istituzioni, il terreno attraverso il quale una società – attraversata da differenze, divisioni, disuguaglianze, problemi – si fa civile;
- la società, per diventare civile, ha bisogno di un “principio di terzietà”8 che può essere incarnato soltanto da istituzioni pubbliche (dalla “intelligenza delle istituzioni”, per dirla con Carlo Donolo9). Le concezioni della SC che insistono sulla autosufficienza delle reti tra cittadini, della auto-organizzazione orizzontale degli individui, contrapposte ad ogni principio di verticalità istituzionale, non solo introducono rischi di populismo10, ma indeboliscono progressivamente il fondamento stesso di qualsiasi civile società, vale a dire il principio di universalismo (pure da depurare di ogni etnocentrismo), sostituito da forme di reciprocità spesso asimmetriche e comunque escludenti. Ogni corpo sociale ha in sé propensioni civili e, al contrario, incivili, intese queste ultime come propensioni a interpretare la nostra esperienza esclusivamente in relazione ad un orizzonte di senso privato (risolvere da sé i propri problemi, magari per vie spicce; perseguire esclusivamente il proprio interesse particolare, etc.). L’azione pubblica, la sfera pubblica nel suo complesso, acquista senso laddove promuove invece le propensioni civili, laddove cioè fornisce il vocabolario per una “risalita in generalità” dalla propria e altrui esperienza diretta (di ingiustizia, di difficoltà, etc.) e ne fa materia di confronto collettivo, la assume come questione ‘comune’: laddove insomma “i beni sono trattati e riconosciuti come comuni”11. Viceversa, ciò cui oggi assistiamo è il dilagare del “particolarismo generalizzato”12;
- la società diviene civile non autorappresentandosi come armonica, espungendo o demonizzando il conflitto, bensì creando le condizioni perché di esso possa essere fatta esperienza civile e possa trasformarsi in un fattore di cambiamento ed innovazione13. E’ per questo che, a differenza da come la società civile tende prevalentemente a rappresentarsi, una civile società è uno spazio pienamente politico, in quanto spazio nel quale il conflitto deve essere depurato del suo potenziale di autodistruzione, nel quale devono essere elaborate strategie collettive di riduzione del danno. In altre parole, la società, per diventare civile, ha bisogno di politica, laddove al contrario la società civile tende a definirsi in contrapposizione alla politica;
- una società diviene civile se crea le condizioni per la continua riproduzione dell’interesse individuale a mobilitare le proprie capacità di giudizio e le proprie competenze in ambito civile, nella discussione concernente la ‘res publica’. L’esaurimento di tali competenze esclusivamente all’interno dei processi di valorizzazione, in forma meramente funzionale alle attività produttive e di mercato (in termini di ‘capitale umano’), rischia di distruggere le basi sociali stesse della collettività14. Anzi, sono i luoghi stessi del lavoro e dell’attività economica che devono costituire i primi spazi in cui l’esercizio critico della propria capacità di giudizio e della propria competenza deve essere promosso e incoraggiato. In caso contrario, tanto la performance economica e produttiva, quanto la capacità di una società di divenire civile, ne risentono negativamente15;
- più in generale, perché possa prodursi e potenziarsi una civile società è indispensabile lo sviluppo di una sfera pubblica aperta, diversificata al suo interno, vivace e dinamica. Perché essa sia tale, i suoi presupposti spaziali fisici – i luoghi della città in cui l’incontro con l’alterità (sociale, culturale, di provenienza, di genere) avviene con facilità, i luoghi a ‘bassa soglia’ – devono risultare significativamente collegati ad altri più artificiali (assemblee, forum, etc.) o astratti (i mezzi di comunicazione, i meccanismi e le sedi attraverso cui l’esperienza e l’elaborazione della sfera pubblica, tramite la politica, si relaziona al potere). Ciascuno di questi spazi, in se stesso, è meno importante di quanto non lo siano le connessioni tra essi16;
- la cultura è fattore determinante la possibilità che la società si faccia civile. “La cultura non è quindi la ciliegina sulla torta della storia: è ancora e sempre un luogo di conflitti nel quale la storia stessa assume forma e visibilità nel cuore delle decisioni e delle azioni, per quanto ‘barbare’ o ‘primitive’ possono essere”17. La cultura va infatti intesa, come ci ha mostrato l’antropologo Arjun Appadurai18, come capacità di aspirare degli individui, ovvero come capacità di immaginare per se stessi un futuro diverso da quello cui sembriamo fatalmente destinati (per estrazione sociale, provenienza territoriale, etc.), un futuro scelto, autodeterminato. La cultura è tale, anche e soprattutto per i più deboli o i più emarginati, in quanto tiene insieme il presente ed il possibile e così facendo conferisce loro voice, riconosce e valida la loro stessa competenza a definire i propri progetti di vita degna e a perseguirli. La società diviene civile laddove moltiplica e alimenta la capacità ad aspirare dei propri cittadini, soprattutto la capacità di aspirare di coloro che solitamente ne hanno meno e che più facilmente tendono a riprodurre un destino già scritto (nelle loro famiglie, nella loro condizione sociale e culturale, nei loro territori, etc.);
- la capacità di aspirare, che è a fondamento della possibilità di una società di divenire civile, si alimenta in primo luogo a partire da un sistema di formazione – penso in particolare alla scuola dell’obbligo – centrato sulla promozione della piena cittadinanza, sulla produzione dell’interesse individuale all’uso pubblico delle proprie, private, competenze e capacità19. L’acquisizione delle competenze strumentali al mercato e alle attività produttive, sono a loro volta funzionali a tale generale obbiettivo: le competenze professionali e i saperi tecnici non sono, in tale concezione, secondari ma acquistano senso dalla loro partecipazione e finalizzazione all’obbiettivo di fondo della formazione, così come appena definito;
- per riassumere, dunque, la società diventa civile attraverso e grazie alla sfera pubblica, la politica, la cultura e l’educazione. L’ambito della democrazia urbana20 è probabilmente lo spazio nel quale è più possibile, per gli individui, prendersi direttamente cura della qualità di questi ambiti di esperienza, laddove invece le retoriche sulla società civile tendono sovente a sostituire ad essi forme del legame sociale apparentemente più calde e comunitarie, ma in realtà celebrative dell’esistente e potenzialmente molto escludenti.
1 Il brano è tratto da un breve saggio intitolato Oggi siamo tutti democratici…, inserito nel volume di Aa. Vv., In che stato è la democrazia?, Roma, Nottetempo, 2010. Tra i suoi diversi studi, mi pare importante ricordare qui quello sui “muri”, urbani e non, che dalla Palestina a Berlino, al confine tra il Messico e gli Usa o in molte altre parti del mondo vengono costruiti; muri che, contrariamente a quanto si ritiene, sono sintomi del declino – non del consolidamento – del potere degli stati, a favore di altri poteri (il capitale, le religioni); di questa autrice vd. Stati murati, sovranità in declino, Roma-Bari, Laterza, 2013.
2 Si tratta di una citazione da Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2004. Su questo stesso tema, credo importante segnalare anche, tra gli altri, Wolin S., Democrazia s.p.a., Roma, Fazi, 2011.
3 Il libricino da cui è tratta la citazione – Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, scritto dal filosofo e storico dell’arte Georges Didi-Huberman – oltre che un testo importante ed emozionante, è uno dei pochi tentativi all’altezza della sfida di fare seriamente i conti con la concezione del dominio che Pier Paolo Pasolini evocava nell’immagine della scomparsa delle lucciole.
4 Sul tema, cfr. O. de Leonardis, Nuovi conflitti a Flatlandia, in G. Grossi (a cura di), Conflitti contemporanei, Torino, Utet, 2008. Della stessa autrice, sul rapporto tra concezioni del sociale e dimensione dello spazio, sono preziose anche le riflessioni in Altrove. Sulla configurazione spaziale dell’alterità e della resistenza, Rassegna italiana di sociologia, n. 3/2013 e (con A. Giorgi), Sulle tracce della depoliticizzazione nel governo della città, in V. Borghi, O. De Leonardis, G. Procacci, a cura di, La ragione della politica 2. I discorsi delle politiche, Napoli, Liguori, 2013. Mi sono occupato del rapporto tra capitalismo reticolare e processo di individualizzazione in un articolo pubblicato sulla Rassegna italiana di sociologia, 3/2011, intitolato La presa della rete: tendenze e paradossi del nuovo spirito del capitalismo.
5 Ovviamente, non mi invento nulla di particolarmente originale: molte delle cose che affermo qui, erano già assai autorevolmente introdotte, ad esempio, nel volume di Franco Cassano, Homo Civicus, Bari, Dedalo, 2004.
6 Su questi temi, vd. il suo Sfera pubblica e democratizzazione, Milano, Mimesis, 2012.
7 Qualcosa di molto simile accade rispetto al concetto di “coesione sociale”, centrale nelle politiche europee: le ambivalenze e l’ambiguità di tale principio è stato lucidamente discusso da Lavinia Bifulco, Come cambiano le politiche sociali europee?, in Idem, a cura di, Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti, Roma, Carocci, 2005
8 E’ importante, per questo aspetto, l’approfondimento di Ota de Leonardis, Il terzo escluso. Le istituzioni come vincoli e come risorse, Milano, Feltrinelli, 1990.
9 Mi riferisco qui, in particolare, al suo testo su L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, Milano, 1997; ma di questo tema Donolo si è occupato in molti lavori, compresi alcuni recenti articoli sulla rivista Lo straniero, essa stessa veicolo da diversi anni di numerosi contributi alla discussione dei nodi qui sollevati (vd. www.lostraniero.net). Si veda anche Bifulco L., de Leonardis O., Donolo C. (2001), Per un’arte locale del buon governo, inserto in “Animazione sociale”, 2001/1.
10 “Il populista è dunque colui che vuole fare del popolo qualcosa di evidente e sempre disponibile, senza rispettare il suo mistero e nel totale disinteresse dei compromessi della mediazione istituzionale” (D. Innerarity, 2008, Il nuovo spazio pubblico, Meltemi, Roma, p. 48).
11 Questo punto, insieme ad altri aspetti fondamentali per la comprensione di cosa sia l’azione pubblica, è sviluppato da Lavinia Bifulco e Ota de Leonardis nel saggio Sulle tracce dell’azione pubblica, in Bifulco L., a cura di, Le politiche sociali, Roma, Carocci, 2005. Si vedano anche i diversi contributi contenuti nel numero della “Rivista delle politiche sociali” (2006/2) dedicato a Che cosa è pubblico? Teorie, politiche e trasformazioni della sfera pubblica, a cura di L. Bifulco, V. Borghi, O. de Leonardis, T. Vitale.
12 Ne parla Daniel Innerarity, filosofo all’Università di Saragozza, che nel saggio già citato alla nota (9) sintetizza così il quadro in questione: “Una società in cui lo spazio pubblico è malato o inattivo non potrà che scomporsi nell’immediatezza delle sue parti costitutive. Le differenze tra le diverse componenti della società non solo si presentano come irriducibili, ma vengono a rappresentare un valore in sé. I diritti privati degli individui passano in primo piano, concepiti come qualcosa di totalmente esterno allo scenario politico, già compiuti nella loro forma originale, e quindi come formulazioni non bisognose di negoziazioni o compromessi, radicalmente spoliticizzate. Ognuno fa valere le propria particolarità di fronte a un’istanza generale il cui punto di vista nessuno tenta mai di prendere in considerazione” (p. 53).
13 Sul tema dell’innovazione in contesti urbani, si vedano i diversi contributi raccolti in Rigenerare la città. Pratiche di innovazione sociale nelle città europee, a cura di S. Vicari Haddock e F. Moulaert, Il Mulino, Bologna, 2009.
14 Questo ha molto a che fare con il ruolo della scuola, che riprendo più avanti, e con il ruolo che nell’istruzione svolgono quelle materie e quelle tematiche sovra-funzionali e non immediatamente funzionali ad un lavoro o un’attività professionale. A questo proposito, vd. Martha C. Nussbaum, Non per profitto: perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Bologna, Il Mulino, 2011; Claudio Giunta, L’assedio del presente: sulla rivoluzione culturale in corso, Bologna: Il Mulino, 2008.
15 Sta in questo nodo il tema del rapporto tra lavoro e democrazia, di cui ho trattato alcuni aspetti in un intervento pubblicato su “Italiani europei”, 2010/4, dedicato a Il lavoro della democrazia, la democrazia del lavoro.
16 Sul tema della sfera pubblica rimane per me un punto di riferimento il saggio di Ota de Leonardis, Declino della sfera pubblica e privatismo, in “Rassegna italiana di sociologia”, 1997/2. Sul legame tra i diversi livelli in cui si articola la sfera pubblica e sulla loro relazione con lo spazio urbano, rimando al saggio di Chiara Sebastiani, Spazio e sfera pubblica: la politica nella città, in “Rassegna italiana di sociologia”, 1992/2.
17 G. Didi- Huberman, Scorze, Roma, Nottetempo, 2014.
18 L’antropologo Arjun Appadurai, ha sviluppato il rapporto tra cultura e capacitazione degli individui in diversi studi e analisi ora raccolti in un testo prezioso, Il futuro come fatto culturale, Milano, Raffello Cortina, 2014. Sulle potenzialità di tale chiave interpretativa, vd. O. de Leonardis, M. Deriu, a cura di, Il futuro nel quotidiano. Saggi sociologici sulla capacità di aspirare, Milano, Egea. Ho cercato di far emergere il modo in cui il tema della “capacità di aspirare” possa offrire risorse cognitive importanti per ripensare il rapporto tra ricerca sociale e critica in Sociologia e critica nel capitalismo reticolare. Risorse ed archivi per una proposta, “Rassegna italiana di sociologia”, 2012/3.
19 Il modo in cui la scuola riesce o fallisce nel costruire appunto tale “capacità di aspirare” è indagato con efficacia da Marco Rossi Doria nel suo Di mestiere faccio il maestro, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 1999; vd. anche Salavatore Pirozzi, I maestri di strada e le lucciole. Resistenza e disubbidienza, “Educazione democratica”, 2014/7 (scaricabile al http://educazionedemocratica.org/?p=2755). Sul rapporto tra educazione e spazio urbano, Innerarity, nel testo già citato (Il nuovo spazio pubblico, Roma, Meltemi, , 2008, p. 135), ha scritto: “Le città non sono più, in virtù della loro mera composizione spaziale, quei ‘complessi educativi’ descritti da Simmel. Attraverso l’urbanizzazione, dell’intera società, l’urbanità, quello stile così utile all’integrazione degli estranei (…) non può più essere lasciata nelle mani dei soli urbanisti, ma la si dovrà affidare alle istanze educative, se ciò che desideriamo è veramente la sintonia del nostro comportamento con i valori che fecero della città quegli spazi di civiltà attraverso cui la società tradizionale si è potuta trasformare nella società moderna”.
20 Su questo argomento, rimando a V. Borghi, C. Sebastiani, Democrazia urbana, pratica di governo ordinaria, in W. Vitali, a cura di, Un’agenda per le città, Bologna, Il Mulino, 2014.