Pedagogia istituzionale e critica della scuola

Tra i molteplici disvelamenti che la pandemia ha prodotto c’è stato quello sulla scuola: che ruolo ha nella vita sociale? A cosa serve, che effetti ha nella vita delle e dei più giovani, come funziona dal punto di vista didattico? Queste domande si sono imposte nel momento in cui le scuole sono state chiuse e le attività didattiche si sono spostate sul digitale e a distanza. Formulate in modo più o meno articolato sono rimbalzate nei vari contesti comunicativi, hanno prodotto una massa di discorsi, a loro volta più o meno chiari ricchi scomposti. Le risposte a volte non sono giunte, perdute in schieramenti contrapposti su falsi problemi, altre volte hanno ridefinito appartenenze, alleanze e registri discorsivi.
Per noi Asini – che negli anni abbiamo criticato la scuola in modo radicale – è stato interessante vedere molte persone, che un tempo reagivano indignate o con mille riserve agli attacchi che portavano ai modi dell’insegnamento, accanirsi sfrenate: “La didattica fa schifo, il tempo a scuola è sprecato, la didattica a distanza non può essere peggio di quella roba”. Ma è una posizione che fallisce quell’elaborazione politica e pedagogica profonda a cui siamo urgentemente chiamati.
Nelle regioni italiane col più alto tasso di povertà infantile la scuola è stata chiusa più a lungo che altrove, con effetti che vedremo solo negli anni e senza che si riesca ancora a porre una vera questione politica nazionale sulla scuola meridionale e lo stato di miseria e corruzione in cui versa da anni, fino all’esito di questa ultima clamorosa débâcle.
È tempo di ribaltare il tavolo: “cambia il mestiere o cambia mestiere” diceva Fernand Oury. Oltre ogni narcisismo e individualismo dei singoli, ci vogliono scuole, gruppi, movimenti eccezionali che pongano al primo posto la missione di cambiare la scuola. Ci sono, ci saranno e ci devono essere scuole che fanno bene e altrimenti: bisogna che diventi un affare pubblico consentire la loro vita e la disseminazione di pratiche emancipatorie e trasformative, senza che il ricatto il timore e il conformismo le soffochino. I gruppi docenti capaci di lavorare con le classi, in modo che la riuscita negli apprendimenti sia garantita a tutti in un clima di benessere e di relazioni sociali costruttive e cooperative, devono avere la libertà e la responsabilità di ridefinire curricoli orari tecniche e di diffonderle.
Grande è la miseria studente ma altrettanto grande è quella docente. Non solo carnefici o sottoposti agli effetti paranoici e disciplinari dell’istituzione, non solo ciechi alle contraddizioni tra le loro parole e azioni, tra le loro intenzioni e i loro effetti, le insegnanti sono le prime a non avere abbastanza istruzione, cultura e occasioni di crescita, schiacciate dal populismo paternalista e da una legislazione orientata dall’economicismo iperliberista.
Se le carceri e gli ospedali psichiatrici sono cambiati, se lottiamo convintamente per trasformarli davvero, dobbiamo sentire la stessa necessità per la scuola. Con pessimismo della ragione e ottimismo della volontà bisogna tendere a questo obiettivo riconoscendoci radicati in uno stesso fertile terreno di pratiche e di saperi tramandati dalle pedagogie dell’emancipazione e pronti a domandare con le nostre scelte politiche quotidiane le leggi trasformative.
La composizione, l’ignoranza, la miseria del corpo docente sono un ostacolo all’evoluzione della scuola in senso democratico e ugualitario. Per cambiare il manicomio è dovuto cambiare il lavoro degli infermieri. Questioni come il ruolo prefettizio della dirigenza, l’iperburocratizzazione del lavoro educativo, l’ossessione valutativa, le modalità di reclutamento non sono fatti sindacali, sono fatti della democrazia.
Abbiamo avuto notizia del provvedimento disciplinare di un giorno di sospensione dal lavoro contro un maestro che senza autorizzazione è uscito con la classe in giardino e ha lasciato scalare degli alberelli, per sedersi a leggere a pochi centimetri da terra. Non aveva l’autorizzazione all’uscita e all’attività, si è detto, ma in realtà da quattro anni l’istituto sviluppa un progetto di scuola all’aperto che la dirigenza vuole ridimensionare. La separazione tra la vita e gli apprendimenti, tra il mondo e la scuola è sbagliata e impedisce di imparare a tutti: questa è la verità, qui deve arrivare la legge. In Il diario di un maestro di De Seta trasformare la predella in scaffale per i libri e andare a pescare i ragazzi nei campi era punito, oggi accade lo stesso ma il rapporto tra le generazioni umane e l’ambiente è al punto di rottura, non possiamo più aspettare una stagione che arrivi.
Per questo esprimiamo solidarietà al maestro Giampiero Monaca di Serravalle d’Asti e rivendichiamo la necessità e l’importanza di disobbedire e di sovvertire dentro le scuole, di mandare all’aria i teatrini e le abitudini che vogliono farci credere che la scuola non sia così importante, che non sia così male.
Spinti dal significato che ha per tutti la sospensione di un maestro che esce con la classe per leggere in un prato, pubblichiamo alcune pagine su responsabilità libertà e potere nella scuola tratte da Tecniche e istituzione nella classe cooperativa di Fernand Oury e Aida Vasquez. (Gli asini)
Ruolo…
Ogni forma di vita in società implica una riduzione della libertà individuale e alcuni obblighi accettati dall’individuo e imposti dal gruppo. Il posto di ciascuno nella società, i suoi diritti, i suoi doveri, i limiti delle sue competenze, di potere e di responsabilità, sono precisati e fissati (se non addirittura immobili in una società divisa in caste) nel doppio concetto di ruolo e statuto. Si potrebbe definire il ruolo come “ciò che gli altri sono in diritto di aspettarsi da me” e dare degli esempi in vari campi: il centravanti e il portiere, il caporale e il generale, l’operaio specializzato e il capo del personale, il tesoriere della cooperativa… e mostrare che il ruolo dipende dal compito da effettuare, dal sistema di divisione del lavoro, dall’articolazione tra i vari posti e dalla struttura generale dell’azienda che determina pesantemente lo stile dei rapporti (un confronto tra ciò che si chiede al “bravo maestro” – o al “bravo infermiere” – e le possibilità d’azione che gli vengono lasciate, spiegherebbe moltissime difficoltà psicologiche legate alla professione; il compito dei lavoratori sociali spesso appare grandioso… è detto lavoratore “al di sotto del suo compito”). Spesso il disagio dell’individuo all’interno del gruppo organizzato trae la sua origine dallo squilibrio tra ciò che egli crede di poter fare e ciò che ha il diritto o il dovere di fare. O il mio ruolo va oltre le mie competenze e le mie possibilità: “Mi si chiede l’impossibile” oppure al contrario “Mi si proibisce di fare ciò che mi sento di poter fare”: le mie competenze vanno oltre il mio ruolo.
… e statuto
In cambio delle limitazioni e degli obblighi, l’individuo riceve dalla società una garanzia: il suo statuto, “ciò sono in diritto di attendere dagli altri quando svolgo il mio ruolo”, che gli assicura uno spazio-tempo all’interno del quale si sente, a suo agio, sicuro, libero, potente. Molti comportamenti asociali sono una reazione al danno portato a questa “sfera del benessere” (i maestri che hanno l’occasione di apprezzare il comportamento di alcuni superiori nella scala gerarchica potrebbero, se fossero liberati dall’oppressione istituzionale, far beneficiare i loro allievi dell’insegnamento che è stato impartito loro). Uno statuto può essere imposto, concesso, conquistato. Può essere stabilito da una legge generale. Può anche essere discusso, negoziato, definito in comune, modificato a seconda delle necessità locali e dei ruoli che implica l’azione da fare. Nella misura in cui l’interessato può dire la sua in proposito, lo statuto ha possibilità di essere veramente accettato.
La trinità: libertà, responsabilità, potere
L’alienato – etimologicamente: privato di legami con altri – viene praticamente privato di libertà e di potere, perché riconosciuto irresponsabile. Un altro – uomo o istituzione – assume allora la responsabilità e prende il potere. Solo chi accetta le responsabilità può pretendere la libertà. Solo un essere libero, libero delle proprie azioni può essere considerato responsabile: ciò che implica un certo “potere di fare”. Considereremo il complesso “libertà-responsabilità-potere” come inscindibile.
L’educazione morale consisterebbe allora nell’allenamento alle responsabilità, ciò che presuppone ipso facto un allargamento progressivo dell’area di libertà e di potere; ogni bambino è allora in grado di fare le esperienze che lo porteranno dalla dipendenza del lattante all’autonomia dell’adulto. Assestamento delicato, che si appoggia su una conoscenza delle possibilità di ciascuno in ogni momento. È altrettanto nocivo sia mantenere degli adolescenti in una situazione di dipendenza infantile che abbandonare i bambini a una libertà artificiosa e pericolosa.
Queste considerazioni sembreranno banalissime ai teorici dell’educazione. Forse è opportuno notare che questi concetti diventerebbero operativi solo se gli educatori “al contatto” (cfr. Wittwer J., Pour une révolution pédagogique, Editions Universitaires, Parigi) beneficiassero a loro volta di un margine sufficiente di “libertà-responsabilità-potere”, se avessero tra l’altro possibilità di delegare sotto loro responsabilità una parte delle loro prerogative… ai minori irresponsabili. È il caso di ricordare che nel contesto urbano attuale, i regolamenti che assimilano l’allievo a un oggetto raccomandato, che va innanzi tutto restituito in buono stato al suo proprietario, limitano terribilmente le possibilità educative nell’ambiente scolastico.
Ruoli, statuti, potere, eccetera. Questi concetti possono forse favorire l’approccio a ciò che succede nella scuola? Conviene forse limitare le nostre pretese allo studio di poche classi marginali?
Idea balzana o scherzo?
(…) Per fortuna non tutte le scuole (non ancora?) sono scuole-caserma. Lasciamo da parte le scuole d’avanguardia, le scuole private così spesso citate dalla ricerca pedagogica. Esistono anche buone scuole tradizionali, dove i bambini, affidati a maestri competenti e pieni di dedizione, sono felici. Che bisogno c’è di complicare le cose con i vostri concetti teorici? Un maestro sicuro di sé, libero di scegliere i propri metodi, che a scuola si sente a suo agio, può benissimo, se è convinto della possibilità della libertà, concedere ai propri allievi uno statuto aperto che consenta loro di svilupparsi. Occorre forse per questo distruggere la cattedra? Mettere in causa l’istituzione nel suo complesso?
Un simile atteggiamento non è forse diventato “del tutto auspicabile” e “vivamente raccomandabile”?
“Signora maestra, posso scrivere con la matita blu?” “Signor maestro, posso cambiare l’acqua dei pesciolini?” “Posso andare a fare la pipì?”. Il gesto dell’allievo che in ogni momento alza la mano per sollecitare un permesso è altamente significativo del margine di libertà-responsabilità-potere concesso all’allievo normale. Può forse abbandonare il suo posto, chiacchierare con il vicino, uscire dall’aula o cambiare lavoro senza permesso? La prima cosa che si insegna allo scolaro è che non si deve fare nulla senza chiedere prima il permesso. Se tuttavia l’attività dell’allievo è comandata dall’esterno, da un altro che viene pagato per questo, il problema è risolto. I concetti di ruolo, statuto, ecc, non hanno senso. Perché perdere tempo nelle scuole? Tuttavia, a meno di essere stati appositamente addestrati, una persona normale si stanca presto di “autorizzare”, non sa cosa farsene di questo ridicolo potere. Stabilisce presto un certo numero di regole che danno un po’ d’ossigeno, di libertà ai bambini. Concede uno statuto agli allievi, nell’ambito naturale delle disposizioni regolamentari. Si può concludere con questo, e come si usa correntemente, che “il maestro determina lo statuto dello scolaro”? In questo senso, temiamo che il potere del maestro sia ben limitato. Non parliamo delle classi di campagna (in via di estinzione), lasciamo perdere i divieti inverosimili del regolamento interno che mette subito il maestro (incaricato di insegnare la legge) fuori legge, lasciamo perdere i veti dal volto umano: l’ostacolo sta altrove. (…)
Si tratta dei muri stessi, dell’architettura, e meglio ancora dei mobili in dotazione alle scuole. Riprendiamo un esempio: la scuola elementare merita un’attenzione speciale; i tavoli-banchi sono intrasportabili, a due posti, aperti “verso il maestro”, e sembrano avere unicamente la funzione di farli “stare tranquilli”. (…) A parte qualche pazzoide dell’educazione nuova, nessuno vede qualche inconveniente nell’immobilità del bambino, del tavolo e della mente. Il lettore troverà da solo il senso di questa cattedra “chiusa verso l’allievo e con almeno due cassetti che si chiudono a chiave”, di quest’armadio inaccessibile ai bambini (e pericoloso se vi si arrampicano), di questi corridoi in rettifilo che facilitano la sorveglianza, eccetera. La grossa cartella, orgoglio di ogni scolaro, la voluta mancanza, nelle elementari, di un posto dove i bambini possono riporre le loro cose personali, indicano chiaramente che i ragazzi non hanno bisogno di sentirsi “a casa” nella scuola pubblica. Qui Montessori non ha mai messo il piede… Diciamo soltanto che la scuola – parcheggio, luogo dove si ascolta e si scrive – non favorisce la libera attività dei bambini né tantomeno le iniziative progressiste da qualsiasi parte provengano. Certo, l’ingegnosità dei maestri (specialmente nelle vecchie scuole) fa miracoli, la loro “ignoranza” dei regolamenti, delle circolari, dei programmi, non li libera però da un assoggettamento ben più sottile ed efficace: non si infrangono impunemente gli usi della scuola. È anche dall’interno che parla ora la voce del “buon senso”. Chi non fa come tutti può forse avere ragione?
Occorre forse per questo distruggere la cattedra? Mettere in causa l’istituzione nel suo complesso? Un simile atteggiamento non è forse diventato “del tutto auspicabile” e “vivamente raccomandabile”?
Ora questi usi – fortemente radicati – determinano la vita dello scolaro con un rigore tale che ogni idea di statuto, anche se concesso, diventa comica. L’unica possibilità dello scolaro sta nella magnanimità dell’adulto (magnanimità che lo scolaro della scuola-caserma traduce innanzitutto con debolezza). Lo statuto dell’allievo (o la sua mancanza) è scritto nell’architettura, nelle istituzioni e negli usi, e lo stesso dicasi per il maestro. Se tanti maestri, indipendentemente dalle loro intenzioni, si riducono a ribadire i divieti oppure a tollerare e ad autorizzare costantemente (a fare cioè di questa trasgressione alla legge un modo d’esistenza normale), è perlomeno paradossale rinfacciare loro un atteggiamento imposto dal contesto istituzionale. Non parliamo mai di responsabilità quando il potere o la libertà mancano. (…)
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