Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Non chiamateli negazionisti

Illustrazione di Martina Sarritzu
14 Ottobre 2020
Valerio Casali

La rivista Gli asini si pone come terreno di incontro (e scontro) fra una pluralità attiva di voci e opinioni, per contrastare l’univocità di visioni e di narrazioni che spesso caratterizza il panorama mediatico italiano e poter offrire uno spazio di dibattito, discussione e crescita. È in quest’ottica che pubblichiamo questa corrispondenza di un nostro collaboratore, che riporta le sue opinioni personali e non riflette necessariamente le posizioni della rivista. In quanto rivista, non intendiamo in alcun modo sminuire la grave pandemia che sta affliggendo tutto il mondo, né negare o discutere l’efficacia delle contromisure adottate sulla base della ricerca scientifica. Vogliamo, però, aprire la strada a pratiche di riflessione critica sulle politiche che definiscono il nostro presente, sugli interessi che determinano tali politiche, e sulle pulsioni sociali che emergono dal basso, le quali non si limitino a una mera ridicolizzazione di alcune tensioni sociali. Vogliamo contrastare, come facciamo da sempre, l’accettazione acritica delle narrazioni che ci vengono propinate, e stimolare invece una riflessione attiva e impegnata come fondamento della vita all’interno di una comunità. Questo articolo è da considerarsi un’esortazione coerente con questa visione programmatica.

Sabato pomeriggio sono passato per Piazza S.Giovanni, dove si teneva la “Marcia per la liberazione”. Ero curioso di vedere di persona cosa fosse questo raduno di “negazionisti”, così definito dai principali quotidiani nazionali. Il giorno seguente, sugli stessi quotidiani ho letto che c’erano 2000 persone, che è stato un flop, che hanno aggredito giornalisti e che nessuno portava la mascherina.

A dire il vero la piazza non era piena, ma c’erano circa 3-4 mila persone, la maggior parte delle quali indossava la mascherina. “Negazionisti” in senso stretto non ce n’erano: quasi nessuno affermava che il Covid non esiste. Sul palco si sono succeduti psicologi, medici, storici, politici. Il livello degli interventi non sempre era elevato, qualcuno incespicava, qualcun altro ricadeva in facili populismi, ma gli argomenti sollevati erano interessanti, si passava da critiche legittime alla gestione dell’emergenza, ad analisi più profonde sul sistema capitalistico in generale.

Mentre ascoltavo più o meno attentamente cose che avevo già sentito, ho attraversato la piazza in lungo e in largo fermandomi a osservare i volti dei presenti, provando a incrociarne gli sguardi, Ho trovato sorrisi, rabbia, una sensazione diffusa di disagio verso un sistema percepito come profondamente ingiusto, un’opposizione a volte istintiva a volte ragionata verso un distanziamento sociale, imposto, ritenuto non soltanto innaturale ma anche dannoso.

Sono giunto alla conclusione che in piazza non c’erano dei pazzi, come indicava il populista Lorenzo Tosa che ne chiedeva il Tso in uno dei suoi post tanto abilisti quanto acchiappalike sui social (tristemente ripreso da pagine di presunta sinistra), ma in quella piazza c’era una parte importante di questo Paese. C’era la parte che, con tutte le difficoltà e l’imbarazzo per essere in minoranza, le varie gaffe e spesso un’eccessiva naività, ha la sensazione di vivere in un sistema gravato da profonde ingiustizie strutturali, che ne vede le enormi diseguaglianze, l’eccessivo individualismo, la totale assenza di un orizzonte di senso. Un sistema che con la scusa di un’emergenza prorogabile a piacimento chiude scuole e università, che ha separato la sfera della socialità da quella della salute, in balia di un modo di fare scienza che massifica l’uomo, che ha la pretesa di inserire le insondabili profondità dell’esperienza umana in grafici e tabelle.

Si manifestava l’insoddisfazione verso un potere percepito come informe, transnazionale, un potere che impone la propria narrativa e le proprie direttive a tutto il mondo attraverso organismi come il FMI o l’OMS, con pretese di assolutezza e violenza contro ogni narrazione alternativa. Bisogna ricordare che il mondo è come ce lo raccontiamo, che anche quella della soluzione con distanziamento e mascherine è una costruzione culturale, legittima, ma non l’unica possibile, e non esente dalle criticità che venivano sottolineate in quella piazza.

Si possono avere visioni più o meno concordanti con quelle ufficiali, ma bollare come “negazionisti” questo insieme di sensibilità differenti è da ingenui nel migliore dei casi, da conflitto d’interessi nel peggiore. Eppure è da febbraio che viene fatto sistematicamente. Tutte le principali testate giornalistiche fanno da megafono alle direttive del governo, e categorizzano come “complottismo” o “negazionismo” qualsiasi lettura diversa del reale. Viene da chiedersi perché.

E’ un Paese, questo, dove il gruppo Gedi della famiglia Agnelli controlla la Repubblica e La stampa, nonché numerosi quotidiani locali e settimanali come l’Espresso, Limes, National Geographic Italia. Controlla inoltre Radio Deejay, Radio Capital e M20, mentre la Rai non si è più ripresa dal ventennio berlusconiano.. Il gruppo Fininvest della famiglia Berlusconi controlla non solo la Mediaset, ma anche Radiomediaset, gruppo editoriale che controlla Radio 105, R101, Virgin Radio, Radio Subasio e Radio Montecarlo.

La famiglia Agnelli, fin da inizio Novecento, è stata promotrice della modernizzazione selvaggia del Paese, la quale ne ha deturpato il territorio, distrutto le tradizioni e svuotato le campagne, ridisegnando le città a misura di macchina e non di uomo. La Fca, evoluzione della Fiat dopo l’accordo con la Chrysler, ha ricevuto l’appalto maggiore per la produzione di mascherine: 27 milioni di mascherine al giorno. Per questo in piazza si manifestava anche contro l’obbligatorietà delle mascherine; perché la puzza del conflitto di interessi è enorme. Questo mentre l’OMS ha cambiato tre volte idea sull’utilità delle mascherine all’aperto, tanto che Alberto Villani, presidente della Società italiana di pediatria e membro del Cts, è arrivato ad affermare che “non importa se ha scientificamente senso o no [indossare la mascherina all’aperto], ma è un segnale di attenzione per noi stessi e la comunità”.

“Segui i soldi e troverai la mafia”, diceva Falcone. Mai nella storia dell’umanità si era verificato un tale accentramento di potere nelle mani di poche persone come in questo momento storico, e non solo a livello italiano, eppure tale è il controllo su ogni aspetto dell’esistenza che si fa fatica a rendersene conto. Adorno definiva il capitalismo come il sistema più totalitario che fosse mai stato concepito, e l’industria culturale la sua arma di “distrazione di massa” e condizionamento.

Il conflitto d’interessi tra informazione e potere economico e politico non è una questione soltanto italiana, ma globale. I gruppi di potere transnazionali influenzano le decisioni a livello globale per interessi privati (a meno che non si voglia credere che Bill Gates abbia a cuore le sorti dell’umanità). Non soltanto i problemi sono globali, ma anche le narrazioni, le soluzioni. Si delegittima ogni narrazione alternativa con categorie di comodo: “negazionisti” e “complottisti”.

Informarsi solo sui media ufficiali: radio, tv e giornali, rischia di portare a fare proprie le battaglie di un capitalismo che moltiplica le diseguaglianze e i conflitti sociali. Sabato, in quella piazza non ho visto solo violenza o negazionismo, ma anche la volontà di affermare una narrazione diversa, basata sul principio fondamentale che la socialità non è separabile dalla salute e che le decisioni che stiamo subendo passivamente potranno avere ripercussioni sul tessuto sociale forse più gravi del Covid, specialmente per le nuove generazioni.

Me ne sono andato con la sensazione che ci troviamo in un momento storico critico, in cui le divisioni sociali si stanno intensificando e le parti non si parlano più, non si capiscono, o peggio, iniziano a odiarsi. L’isolamento ci sta portando verso un individualismo ancora più capillare, per usare una fortunata locuzione dell’ antropologo Ernesto De Martino, ci troviamo sull’orlo di un’apocalisse culturale: eventi che accadono ciclicamente e che portano a rivoluzioni nel modo di concepire la realtà e di organizzare la società.

Nella prossima apocalisse diverrà necessario prendere posizione per affermare i valori di una nuova società, capire se essere uomini o macchine. Smettere di rimanere passivi, ignavi, o peggio vendere la propria onestà intellettuale per qualche spicciolo come un Saverio Tommasi qualunque. Uscire dalla bolla del proprio tornaconto personale e ricominciare ad aggregarsi, a fare politica, cultura e società con ogni gesto. Rimanere vicini, perché come diceva il compianto David Graeber, siamo il 99%.

(tre letture per approfondire:
D. Graeber – Burocracy
E. De Martino – La Fine del Mondo
I. Illich – Nemesi Medica)

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