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Il colpo di stato in Myanmar

Foto di Marco Gualazzini
29 Aprile 2021
Ivan Galli Laforest

Il primo febbraio 2021 doveva essere un giorno di festa, un ulteriore passo verso la “democrazia”, una data da ricordare per l’insediamento del nuovo governo in Myanmar, dopo le elezioni tenutesi nel novembre scorso con un clamoroso 83% a favore del Nld (National league for democracy), il partito guidato da Aung San Suu Kyi. 

Ricordo bene i giorni prima di quelle elezioni. Ero in Myanmar da quasi due anni, nell’est del paese, più precisamente a Hpa-An, capitale del Karen State, a poche centinaia di chilometri dal confine con la Thailandia e i campi profughi (quasi 100.000 i rifugiati dalla ex Birmania, per la maggior parte di etnia Karen, che da più di trent’anni vivono lì). Si percepiva un leggero clima di paura, la preoccupazione di qualche possibile azione violenta, sommato ai timori per il Covid e alla richiesta da parte delle autorità di non uscire e di non riunirsi per evitare il diffondersi della pandemia (o forse, visto il basso numero di casi ufficiali, per allarmare la popolazione per spingerla a non votare); alcuni ordigni erano esplosi in qualche sede elettorale nello Shan State, e c’era la consapevolezza che non si trattava comunque di elezioni davvero democratiche perché a tante minoranze era stato precluso l’accesso alle urne. Il giorno del voto si avvertiva l’elettricità e il fervore nell’aria, era evidente la fierezza delle persone che mostravano il dito “sporco” di inchiostro, come prova del voto effettuato, e della libertà di averlo fatto. 

Ora ho la chiara sensazione che, quello che sarebbe successo tre mesi dopo, il mattino del primo di febbraio, giorno dell’insediamento del nuovo governo, fosse tutto già pianificato da tempo: il colpo di stato, la giunta militare che prende il potere, arresta il presidente Win Myint e tanti altri esponenti del partito a capo dei vari distretti in tutto il Myanmar, compreso il consigliere di stato Aung San Suu Kyi (con capi di imputazione ridicoli: il possesso di walkie talkie, e in seguito violazioni sulla gestione delle catastrofi naturali), l’esercito piazzato intorno ai Palazzi della capitale Naypyidaw, per chiudere e difendere il centro del “potere”; il tutto nel blackout generale e nel silenzio assoluto in tutto lo stato delle telecomunicazioni: internet, social media, telefoni, tv… il buio. 

Quella avrebbe dovuto essere una settimana importante per me: con la mia organizzazione di volontariato avrei finalmente iniziato il nuovo progetto nel villaggio di Hpa-Gat, assieme ad un paio di miei vecchi studenti. Avevamo giusto qualche giorno prima parlato con il leader del villaggio e ottenuto il via libera per creare ed aprire un Centro educativo per i bambini e ragazzi della zona: una biblioteca, lezioni di inglese, attività sportive, arte, musica, divertimento…

Non vedevo l’ora di ripartire ufficialmente con una nuova avventura: l’anno appena passato era stato abbastanza intenso tra l’arrivo del Covid, le preoccupazioni per un sistema sanitario tra gli ultimi al mondo, la conseguente chiusura della Summer School che avrei dovuto seguire, gli spostamenti, il profilo basso che per ovvi motivi dovevo mantenere, e le classi informali con i molti bambini che, non ufficialmente, continuavo a portare avanti: alcune volte ero ospitato al monastero, con il letto del monaco a due passi dai ragazzi, altre eravamo all’aperto, con i bambini seduti su cartoni ed assi di legno appoggiate su casse della frutta come tavoli. Una meraviglia.

Il giorno del voto si avvertiva l’elettricità e il fervore nell’aria, era evidente la fierezza delle persone che mostravano il dito “sporco” di inchiostro, come prova del voto effettuato, e della libertà di averlo fatto. 

Ma i piani a quanto pare erano altri. Quei primi giorni dopo la notizia del coup d’etat sono stati decisamente strani, impressi in un’atmosfera tra novità e déjà-vu, e conditi dal mio essere palesemente straniero. Al tea shop dove ogni mattina mi recavo per colazione tutti erano sempre abbastanza tranquilli, e tra i vari “no good” e “democracy”, gli adulti che conoscevo, alla mia domanda “cosa ne pensate?” rispondevano con un’alzata di spalle: “already, we know already, army no good”, facendo riferimento alla recente storia del paese ed alle rivolte del 1988 prima e del 2007 poi, un qualcosa che avevano già vissuto e conoscevano. 

La novità veniva invece dalle dimostrazioni: migliaia i giovani che a Hpa-An ogni singolo giorno protestavano e sfilavano con bandiere, cartelli e canti. Chiunque faceva parte della dimostrazione: se non sfilavi eri ai bordi delle strade a incitare e a seguire quella fiumana di persone, a donare loro bottigliette di acqua per rinfrescarsi dalle temperature birmane, frutta, uova, bevande energetiche… a ogni incrocio c’era qualcuno che aiutava i dimostranti con un qualcosa, in tutto il Myanmar. L’unità, la solidarietà, la forza e l’energia che sprigionavano era incalcolabile, una meraviglia che purtroppo ho potuto vivere solo in parte: l’unico straniero in paese era facile da trovare e vedere, soprattutto se in mezzo alle dimostrazioni: un forestiero fa sempre notizia, nel bene o nel male, e passare da “volontario con un progetto per bambini ed adolescenti” a giornalista scomodo agli occhi delle autorità poteva essere immediato, tanto più dopo la chiusura degli aeroporti e di ogni accesso dall’esterno. 

E così sono trascorsi quei primi giorni, tra la sana euforia delle proteste e del voler essere parte di quel movimento e la preoccupazione per il futuro e per l’escalation delle violenze. Nella mente continuavo ad avere immagini di quello che poteva accadere dopo, sui possibili drammatici sviluppi del colpo di stato: saranno state le letture, i documentari o la reale consapevolezza che un accadimento come quello non sarebbe certo passato nel dimenticatoio presto. Decisamente no. La violenza e la brutalità con cui i militari avevano represso le manifestazioni degli anni precedenti non lasciavano presagire nulla di buono. A tutti i miei fratelli e sorelle (amici, studenti, conoscenti… in Myanmar tutti ci si chiama così, e a volte è quasi impossibile capire i veri gradi di parentela tra le persone) che incontravo dicevo che ero molto fiero di quello che facevano, ma anche di fare attenzione, e le loro risposte mi lasciavano sempre di stucco “yes, yes, we fight for our future, if we die we die for our people and our country”…

In attesa, chiuso a scuola, senza uscire troppo, vedevo le giornate passare, con i social media, quando internet era disponibile, come sfondo, scandite dai cori delle proteste durante il giorno, e dallo sbattere di coperchi e pentole alla sera, come segno di protesta al coup, per eliminare il male dal paese: è usanza diffusa nei villaggi della ex Birmania di fare rumore e sbattere coperchi quando è buio per allontanare spiriti maligni, fantasmi e malvagità. 

Tutto quasi divertente, curioso ed incoraggiante; fino a quando sono iniziate ad arrivare le prime voci sulle prime violenze, i primi arresti, ed il primo sangue. Da quel giorno le notti sono iniziate ad essere motivo di preoccupazione, paura e spavento.

“Tutto accade sempre nel cuore della notte, nella Birmania governata dai militari. Questo è il momento in cui le autorità fanno irruzione nelle case private in cerca di ospiti non denunciati; il momento in cui i dissidenti vengono arrestati e condotti nelle centrali di polizia per essere interrogati senza mandato” scriveva nelle Lettere dalla mia Birmania Aung San Suu Kyi un quarto di secolo prima, e questa è la drammatica realtà ancora oggi: con il buio ed il silenzio, i militari si muovono. Nelle città si moltiplicano gli arresti perpetrati verso i leader di alcuni gruppi politici, poi verso gli attivisti e gli insegnanti, poi verso dottori, banchieri, ingegneri e funzionari statali che avevano aderito al Cdm (Civil disobedience movement) per bloccare in maniera non violenta il paese. E aumentavano sempre più le scorribande notturne dei “teppisti”, delinquenti scarcerati appositamente per creare danni, confusione e caos, pagati 5000 kyat, l’equivalente di poco più di 3 euro e poi drogati, con l’ovvia conseguenza di creare terreno fertile per le autorità per agire e reprimere con la violenza: pozzi d’acqua avvelenata, edifici in fiamme, cavi elettrici tagliati e lasciati di proposito liberi agli angoli delle strade.

Se ti beccano a sbattere le pentole ti arrestano; se risalgono a te dai video che loro stessi girano durante le proteste, ti arrestano; se ti prendono per strada, ti arrestano. Gruppi di 5, 10, 15 militari e poliziotti ti accerchiano e ti picchiano, calci, pugni, legnate con le mazze o con il calcio dei fucili… una volta arrestato non sai dove verrai portato, né tu né la tua famiglia sanno poi quando tornerai, in che condizioni e se lo farai… 

Nei villaggi invece torna l’incubo dei “porter”: ho iniziato a sentire ripetutamente quella parola per la prima volta nelle discussioni dei ragazzi alla scuola, proprio in quei giorni; alcuni dei loro padri e nonni avevano vissuto e raccontato di quando l’esercito birmano arrivava nei loro villaggi per prendere maschi giovani e di media età da utilizzare come facchini durante i loro spostamenti nella foresta. Brother Kyaw, voleva tornare al villaggio il giorno prima, per prendersi cura della madre sola; era preoccupato per il pozzo e per l’eventualità dell’acqua avvelenata, mi raccontava. Ma la madre al telefono lo aveva pregato di non muoversi e di rimanere in città proprio perché l’esercito girava per il villaggio e tutti gli uomini erano già fuggiti a nascondersi nella foresta da un paio di giorni ormai. Altri ragazzi poi mi hanno confermato delle fughe nelle foreste: “Mio padre era stato preso come portatore tanto tempo fa, ma era riuscito a fuggire e a rimanere nascosto nella foresta per un po’, cosi è poi riuscito a tornare a casa. In molti non sono mai tornati”, mi raccontava Marian, una mia studentessa.

Questo nelle prime due settimane. Poi qualche cosa è cambiato. 

Il Myanmar è un paese fortemente tradizionalista e legato alla sua cultura, in cui la divinazione ha sempre influenzato fortemente importanti momenti della vita del paese. La costruzione di città, l’inaugurazione di edifici, la scelta dei nomi, date e ore di buon auspicio: per secoli, tali credenze sono state profondamente radicate nella società birmana e hanno influenzato atteggiamenti e comportamenti a quasi tutti i livelli e non è un segreto che i leader militari birmani hanno sempre profondamente creduto nelle superstizioni e nell’astrologia. Tutti i governanti del paese dell’epoca moderna hanno consultato degli indovini e seguito i loro suggerimenti; per esempio l’Indipendenza del paese dall’Inghilterra del 4 Gennaio 1948 è stata dichiarata alle 4.20 del mattino perché l’orario era stato considerato favorevole da un astrologo locale. Ed ancora nel 1962, dopo la presa del potere, il Generale Ne Win aveva fatto forte affidamento su astrologi e numerologi per consigli politici. Nel 1970 la decisione di cambiare la guida dalla sinistra alla destra era stata decisa perché l’astrologo del Generale sentiva che il paese si era troppo spostato sulla sinistra, politicamente parlando. Nel 1987, addirittura, Ne Win introdusse la carta-moneta da 45 e 90 kyat per via del 9, suo numero fortunato.

Tutto accade sempre nel cuore della notte, nella Birmania governata dai militari.

E ora si dice che le azioni del generale Min Aung Hlaing e la prese di potere, abbiano anch’esse in un qualche modo seguito dei “suggerimenti astrologici” da parte di un famoso monaco, che aveva parlato di quale fosse il periodo migliore per la riuscita, da dove iniziare e come continuare: Tabaung è il mese finale del calendario birmano, che all’incirca cade a cavallo tra Febbraio e Marzo… la città di Mandalay è l’antica capitale reale dove avevano vissuto i re birmani, e inizia con la lettera M: secondo l’astrologia birmana il proprio segno astrologico è determinato dal giorno della settimana in cui si nasce e di conseguenza viene scelta anche la lettera propiziatoria per il proprio nome: al giovedì vengono associate le lettere P, HP, B e M. Il generale Min Aung Hlaing è nato di giovedì, e cosi perché la presa di potere potesse considerarsi fruttuosa, le prime città in cui avrebbe dovuto imporsi, secondo i suggerimenti del “veggente”, erano soprattutto quelle fondate di giovedì o con lettera M: Mandalay, Myitkina, Myeik, Mawlamyine, Myaung Okkalapa. E qui è dove sono effettivamente iniziate le prime vere violenze di massa.

Così da quando la macchina ha iniziato a muoversi, la spirale di violenza non si è mai fermata anzi, ogni giorno maggiori erano le brutalità e la ferocia perpetrate dagli uomini del governo: cannoni ad acqua e proiettili di gomma prima, armi automatiche e cecchini con munizioni vere poi; il movimento Cdm ha portato alla chiusura di molte banche ed attività governative, e quindi la mancanza di fondi ha portato il nuovo governo a stampare denaro falso prima, a rubare le offerte dai templi e l’oro dalla pagoda poi; dai semplici black out notturni si è passati a non avere più le reti internet (ad oggi solo chi ha il Wi-Fi può comunicare); i dottori sono stati arrestati e spogliati dei loro camici, poi utilizzati dai militari per intrufolarsi in mezzo alle proteste, capirne i movimenti e provocare il caos; in alcune zone anche il solo uscire di casa è tutt’ora un forte rischio: ti sparano, ti prendono, ti picchiano e ti portano via. E della stragrande maggioranza delle persone arrestate settimane fa, ancora non si sa nulla… addirittura i corpi dalle strade vengono trascinati via dall’esercito ed il sangue viene subito lavato per “nascondere” i numeri e le prove alle comunità internazionali. Tante le foto dove vengono mostrati i corpi ed i volti degli arrestati che hanno rimandato a casa gonfi, pieni di lividi e bruciature, ma in vita; ma tante anche quelle che mostrano i corpi senza vita, ricuciti alla meglio e peggio da tagli lungo tutto il tronco: continue si rincorrono anche, infatti, le orribili voci di traffico di organi. Così come costanti sono state le voci, soprattutto nelle prime settimane dopo il colpo, di quotidiani voli notturni dalla Cina al Myanmar trasportando “seafood” (come era indicato nelle casse): armi per il regime.

Le brutalità e la malvagità rendono però ancora più forte ed intenso il movimento di protesta. Dal primo di febbraio, ogni singolo giorno, decine di migliaia di birmani continuano a scendere nelle strade per dimostrare contro il colpo di stato, per chiedere la liberazione dei loro leader eletti, per la democrazia, per la libertà dalla paura, per un futuro nuovo e più luminoso. Negozi ed uffici sono ancora chiusi, per scelta di chi ha aderito al Cdm, nonostante le minacce dell’esercito. Ragazzi, ragazze, adulti, anziani, buddisti, cristiani, musulmani: le proteste hanno dimostrato l’unità, il coraggio e la resilienza del popolo birmano che si ritrova con fionde, cerbottane, archi e pentole sulla testa a proteggersi contro chi ha giurato di proteggerli. 

E questa è la nota positiva: le persone. Le loro proteste sono uniche, belle, diverse, colorate, geniali, danno energia. Un giorno tutti in giro a camminare cantando, uno tutti in silenzio; uno tutti seduti, uno a gruppi separati; un giorno all’alba, uno alla notte, uno con le candele, uno con le pentole, uno con automobili e van che bloccano le strade, uno con gli elefanti, uno tra i templi di Bagan, patrimonio dell’Unesco, ed uno con gli abiti tipici dei gruppi etnici: una meraviglia. E poi la genialità con i simboli culturali, le superstizioni: decine e decine i Pyit Taing Htaung appoggiati sull’asfalto e tantissime poi le gonne delle donne appese su cavi sopra le strade. I Pyit Taing Htaung (“when you throw it, each time it stands up”) sono delle tipiche bambole birmane fatte di carta pesta, a forma di “pera”, arrotondate sul fondo e con un  peso all’intorno di modo che ogni volta che vengono ribaltate, poi subito ritornano in piedi, a simboleggiare la resilienza, la forza ed il coraggio della popolazione; gli abiti femminili invece si sono trasformati nella prima linea di difesa per i protestanti muovendo a loro favore una superstizione birmana per cui per un uomo passare sotto a vestiti da donna appesi può significare sfortuna e perdita del loro “phoun” (gloria e virtù): al giorno d’oggi la maggior parte della popolazione non crede più in questo, ma è noto a tutti quanto le figure dell’esercito siano estremamente superstiziose, e nelle foto e video in rete è stata vista la polizia tirare giù le corde con gli indumenti prima di passare… e questo dava maggior tempo ai dimostranti per fuggire. 

Così da quando la macchina ha iniziato a muoversi, la spirale di violenza non si è mai fermata anzi, ogni giorno maggiori erano le brutalità e la ferocia perpetrate dagli uomini del governo

Si dice che in passato, quando un inviato delle Nazioni Unite o uno straniero di spicco visitava il Myanmar, al personale dell’albergo dove alloggiavano venisse detto di lasciare gonne o biancheria femminile sopra al soffitto delle stanze…

L’allora Birmania, fino agli anni ’60 era riconosciuta come uno dei Paesi più ricchi e con il più alto livello di istruzione e progresso di tutto il sud est asiatico. Dalla prima presa di potere dell’esercito nel 1962 però, ha poi conosciuto un periodo di involuzione totale fino a diventare, al contrario, una delle aree più povere. La parvenza di democrazia con le “prime elezioni libere” del 2015 avevano portato una ventata di speranza ed un piccolo spiraglio, ma a quanto pare il popolo birmano deve ancora attendere e chissà poi cosa queste nuove ferite porteranno. 

Più di due anni trascorsi in questa meravigliosa terra mi hanno decisamente aperto gli occhi e segnato sulla pelle quanto la vera istruzione, il pensiero libero, quello critico ed una aperta mentalità siano non importanti ma fondamentali, per un cambio di passo: per me era un divertimento all’inizio sentire i bambini e i ragazzi cui facevo scuola ripetere a pappagallo per filo e per segno ogni mia singola parola, perfino le virgole e le esclamazioni; poi quel sorriso è diventato un modo per coprire sempre di più la mia disperazione, e il terribile loro silenzio alla domanda “che cosa ne pensate?”, “teacher, a scuola non ci è permesso dire che cosa pensiamo, ripetiamo solamente”…

Nonostante mi sforzassi di vedere e pensare positivo, la situazione era oggettivamente difficile e potenzialmente pericolosa: da una parte non avevo intenzione di gettare al vento la grossa opportunità che mi si era creata per il nuovo progetto tanto atteso, dall’altra gli strascichi della pandemia (che sembrava magicamente sparita dal primo di febbraio) e l’avvento del regime avevano disegnato un quadro decisamente buio; le scuole chiuse ad oltranza, i checkpoint militari sulle strade, la preoccupazione per gli spostamenti verso i villaggi e le news che continuavano ad arrivare… non sapevo proprio come agire. Ogni giorno, e più volte al giorno, l’Ambasciata mandava comunicazioni con aggiornamenti sulla situazione, di prestare la massima attenzione, di non partecipare alle dimostrazioni, di non uscire, di non aprire a nessuno, e news per gli eventuali rari voli di recupero, comunque mai certi. Ho cercato di rimandare e resistere, fino alla mail che non lasciava spazi di manovra “Signor G. L. è da tempo che ci conosciamo. Adesso è proprio venuto il momento di partire.”

Le sei ore di macchina per arrivare a Yangon sono filate lisce: passaporto, documenti, lettere di raccomandazione, tampone… nulla di quanto preparato è servito. Il finestrino abbassato è bastato per passare senza neanche una domanda ai vari checkpoint: “è meglio che lo straniero esca il prima possibile”, questo forse pensavano.

Sono stato poi fortunato con il volo, ho aspettato solo un giorno e sono riuscito ad imbarcarmi. Una volta atterrato in Malesia, unica meta possibile, ho ricevuto un messaggio dall’Ambasciata: mi era andata proprio bene dicevano, perché a quanto pare il mio volo era stato l’ultimo, gli altri erano stati sospesi dopo la chiusura definitiva degli aeroporti.

Ad oggi le notizie sono sempre meno (e purtroppo quasi nulli i contatti con gli studenti), comunque preoccupanti, soprattutto quelle dalle zone di confine: gli scontri tra gruppi etnici ed esercito stanno degenerando e nonostante il regime abbia chiesto un cessate il fuoco in queste aree, ogni giorno i villaggi vengono bombardati da aerei ed elicotteri e la gente, di nuovo, come in passato, è costretta a fuggire e nascondersi nelle foreste e nelle grotte. 

A volte mi sembra che la violenza paghi.

“Bro, in Dawei, 4 people died. First time I got the smoke of tear bomb. Shit, that feeling was too hard.”

“The situation is getting worst. They shot us with tear bombs and they shot with the gun, near the public. It is happening in Dawei. The people got injury.”

“No good. Burmese army. So bad bro. They come and shoot bro. Our village also me we fight too. I don’t know gun name, in my village they made. And they share all of guy. For all of guy. Our village leader told our guy when the Burma army shoot, we can shoot. They die we die is ok. Our leader told me. We need to fight” .


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