Niente è in grado di sostituire la sanità pubblica, nemmeno in Lombardia: note sulla prima settimana di emergenza

Maria Elisa Sartor riflette sulle profonde incongruenze del sistema sanitario in Lombardia, sostanzialmente basato sulle logiche del privato, affermatosi trionfalmente negli ultimi decenni e indicato da molti come esempio e da sostituire al Servizio Sanitario Nazionale italiano, dimostratosi invece inadeguato per la difesa della salute collettiva nell’emergenza da coronavirus. Mentre l’autrice si sofferma sulla logiche di fondo del modello sanitario lombardo, evidenziandone le contraddizioni che rivelano una visione della salute in chiave essenzialmente utilitarista e di mercato, i box inseriti dalla redazione offrono aggiornamenti sul drammatico sviluppo della situazione in Lombardia, la regione italiana più pesantemente colpita dal Covid-19.
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Noi che abitiamo la Lombardia e che siamo i diretti utenti della sua organizzazione sociosanitaria avremmo un compito da svolgere, quasi un dovere verso noi stessi e i cittadini-utenti degli altri SSR del paese. Quello di tentare di conoscere meglio che si può e di far conoscere, senza giri di parole e paludamenti e in estrema sintesi come il Servizio Sociosanitario lombardo sia stato radicalmente trasformato negli ultimi decenni. Per allontanarci poi dal modo di comunicare tipico di questi tempi, dovremmo essere guidati da un ferreo orientamento di fondo: basarci solo su dati di fatto e non utilizzare/ripetere racconti non verificati, a priori elogiativi.
Milano, 2 marzo 2020
Questo contributo cade in un momento in cui tutte le strutture sanitarie pubbliche e private della Regione Lombardia sono chiamate al massimo impegno per cooperare nell’individuare e nel curare le persone colpite dal coronavirus. È nel quadro di questa collaborazione che dovranno essere individuate anche tutte le nuove risorse da mettere in campo, a breve e in futuro. Tuttavia non possiamo non evidenziare fin d’ora una serie di fatti e di problemi che riguardano il “Sistema sociosanitario di Regione Lombardia” e che devono essere oggetto di valutazione nelle sedi e nei tempi opportuni.
Cominciamo innanzitutto col dire che al 29 febbraio 2020, a otto giorni da quando sono emersi i primi casi di contagio da coronavirus in Lombardia, le strutture di ricovero e cura in prima linea nell’emergenza erano tutte pubbliche: Ospedale di Codogno (LO), Ospedale di Casalpusterlengo (LO), Ospedale di Lodi (LO), Ospedale di Crema (CR), Ospedale di Cremona (CR), Ospedale Sacco (MI), Ospedale Niguarda (MI), Ospedale San Paolo (MI), IRCCS Policlinico Ca’ Granda (MI), IRCCS San Matteo (PV), Ospedale San Gerardo di Monza (MB), Spedali civili (BS), Ospedale S. Anna (CO), Ospedale Papa Giovanni XXIII (BG), Ospedale Carlo Poma (MN).
Gli ospedali appena citati sono i presidi ospedalieri o gli ospedali delle ASST Aziende socio sanitarie territoriali – una sorta di organizzazione più ospedaliera che territoriale che ridefinisce e aggrega in genere ex aziende ospedaliere, e che svolge alcune funzioni di servizio che in precedenza erano delle ex ASL lombarde (per esempio, di prevenzione riguardante le vaccinazioni, di prevenzione e cura delle dipendenze tramite i Servizi per le dipendenze patologiche SERD, di servizio ambulatoriale tramite i consultori). Le ASST, secondo la legge regionale di riforma del 2015, sono articolate in POT (Presidi ospedalieri territoriali) e in PreSST (Presidi sociosanitari territoriali), ovvero in unità organizzative con sedi distaccate per servizi ospedalieri e territoriali. In realtà tali articolazioni territoriali, cui è consentita una ibridazione con il privato, sono ancora un numero molto esiguo a cinque anni dalla loro formale istituzione. È così che i partiti di opposizione del Consiglio regionale lombardo, considerando l’impatto sui cittadini di tale carenza, fra la fine del 2019 e il gennaio 2020 si sono attivati ufficialmente per sollecitare il governo regionale sia ad incrementare notevolmente il numero dei PreSST, in modo da distribuirli capillarmente sul territorio, sia a definirne meglio il ruolo. In teoria le ASST dovrebbero anche avere nozione e coordinare i servizi erogati dai privati del territorio su cui agiscono, facenti parte di quella che con una delibera del 2016 viene denominata Rete integrata di continuità clinico assistenziale (R.I.C.C.A.). Ma sarebbe più corretto affermare – secondo le testimonianze degli operatori – che tentano di coordinarsi con tali servizi.
Detto ciò, fra le strutture di ricovero e cura pubbliche in prima linea nell’emergenza coronavirus fino alla fine di febbraio 2020 si contavano 11 ASST sulle 27 totali e 2 IRCCS pubblici (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, uno a Milano e uno a Pavia) sui 4 IRCCS pubblici della regione1.
L’informazione circa la “natura pubblica” delle strutture in prima linea nell’identificazione e nella cura dei contagiati dal coronavirus è quindi la prima notizia rilevante su cui soffermarsi. È stata ricavata dall’elaborazione delle frammentarie informazioni circolanti, in quanto non è stata esplicitamente fornita dai media, almeno fino alla fine del mese di febbraio. La seconda notizia, dedotta specularmente dalla prima, è l’assenza sostanziale nel periodo considerato – la prima settimana della emergenza in Lombardia – di un ruolo rilevante della sanità privata. Una vacanza che si constata essersi prolungata fino ai primissimi giorni di marzo.
Con l’inasprimento della crisi, il 14 marzo sono poi partiti i lavori per una nuova terapia intensiva da campo dedicata all’emergenza Covid-19 all’Ospedale San Raffaele di Milano, grazie una campagna fondi lanciata dagli influencer Chiara Ferragni e Fedez. Il 16 marzo 2020 il governatore Attilio Fontana ha avviato l’iter per la realizzazione di un grande ospedale da campo in Fiera Milano, dedicato interamente all’emergenza Covid-19 chiamando come consulente l’ex responsabile della Protezione civile Guido Bertolaso.
Solo dopo l’istituzione della zona Rossa per l’intera Lombardia una delibera regionale, approvata il 4 marzo, ha stabilito l’impiego straordinario del personale sanitario e degli ospedali privati accreditati, individuati dalla direzione generale Welfare lombarda ““per il periodo strettamente necessario a fronteggiare l’emergenza Covid-19 e comunque non oltre 60 giorni dalla sottoscrizione del protocollo d’intesa, rinnovabili in caso di ulteriore necessità”. Gli uffici della Regione non hanno ancora fornito un elenco completo delle strutture private coinvolte nella situazione di emergenza coronavirus. Secondo l’Associazione italiana degli ospedali privati (Aiop) nelle loro strutture dislocate in Lombardia, dove sono a disposizione 2.621 posti letto per la degenza e 270 posti in terapia intensiva, Il 13 marzo, risultavano ricoverati più di 700 pazienti affetti da Civid-19 dei quali quasi 100 in terapia intensiva N.d.R.
Queste sono notizie di particolare importanza perché ci troviamo nella regione che ha fatto della cosiddetta “partecipazione paritaria della sanità privata al servizio sanitario della Lombardia (SSL)” il punto di forza e l’elemento distintivo del suo modello.
Qualcuno non si sarà sorpreso, forse perché aveva già da tempo presupposto che le affermazioni di principio dei governi della Lombardia sul ruolo paritario del privato rispetto al ruolo del pubblico non potessero corrispondere alla realtà. Ma altri, che vi hanno da sempre creduto, si sarebbero dovuti per la prima volta – proprio in questi giorni – legittimamente porre la seguente domanda: che ne è del ruolo “paritario” delle strutture private accreditate della sanità nell’emergenza del coronavirus in Lombardia?
Richiamiamo a questo punto sinteticamente il percorso delle riforme sanitarie nazionali e lombarde perché pensiamo possa aiutare a spiegare con compiutezza i fatti di oggi.
Prima della riforma sanitaria di Formigoni del 1997, il Servizio sanitario di questa regione, come tutti gli altri in Italia, si articolava in strutture locali organizzate in distretti (in USSL, inizialmente su base comunale, poi, ridimensionate nel numero e divenute, nei primi anni ’90, ASL). Strutture che svolgevano direttamente al proprio interno, attraverso le proprie unità organizzative (uffici amministrativi, unità di prevenzione, presidi ospedalieri, ambulatori, consultori, ecc.) le funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione diretta dei servizi e di controllo delle attività svolte. Si trattava di un governo diretto della sanità in tutti i suoi aspetti (che in Lombardia si estendeva anche al socio-assistenziale), con un sistema organizzativo regionale che presentava una struttura di tipo modulare (che si ripeteva cioè secondo lo stesso modulo nelle diverse aree), una gestione strategica regionale unitaria, riconducibile a una linea di comando definita, che rispondeva, per lo più con efficacia, alle esigenze immediate e di medio-lungo periodo dei territori, attraverso l’integrazione delle funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione e controllo su una base locale.
La prima svolta nella configurazione del SSN, che ha prodotto un significativo cambiamento, si è avuta in ambito nazionale nei primi anni ’90, con la cosiddetta controriforma sanitaria. Quelle che poi saranno identificate come le principali precondizioni della privatizzazione del SSN in generale e dei SSR sono state introdotte già da allora: 1) aziendalizzazione: metodi e strumenti manageriali tipici delle aziende profit venivano applicati alle strutture pubbliche; 2) regionalizzazione: misure che consentivano libertà di definizione delle politiche sanitarie a livello regionale e facilitavano quindi il differenziarsi delle finalità e delle politiche nelle diverse parti del paese. Il frazionamento del SSN e il decentramento legislativo, non solo amministrativo, avrebbero quindi di fatto offerto la possibilità anche di eventuali sperimentazioni creative riferite ai processi di privatizzazione; 3) a metà degli anni Novanta, introduzione di un nuovo sistema di pagamento dei servizi sanitari attraverso la definizione a livello regionale di tariffe per le singole prestazioni sanitarie. Un sistema di retribuzione che offriva ai nuovi potenziali entranti privati nel SSR – per riferirsi alla sola componente privata del Servizio sanitario regionale – la possibilità di commisurare l’entità potenziale del business, consentendo loro anche di stimare i compensi futuri.
Su questa base normativa nazionale, nel 1997, la Lombardia dà una sterzata decisa verso un modello pensato per facilitare il più possibile l’entrata dei privati nel SSR. Il modello da cui il governo della Lombardia trae ispirazione è quello scaturito dalla riforma britannica di qualche anno prima (1991), che introduceva i quasi-mercati nella sanità di quel paese, cambiando consistentemente il modello Beveridge originario (1948). Il governo di Formigoni, al pari dei governi conservatori oltremanica, sceglie anche in Lombardia di separare fra loro le funzioni che prima erano integrate, in modo che la funzione di erogazione potesse essere contesa dal privato e affidata sempre più ad esso. La Regione, a partire da quel momento, programma – lo fa tuttavia sempre meno nelle modalità della pianificazione storicamente intesa – ma soprattutto fa da committente e quindi compra servizi dai soggetti erogatori, sia dalle strutture pubbliche del SSR – che diventano nella pratica “aziende” gestite via via in modo sempre più manageriale, e impropriamente, in modo contraddittorio, definite “autonome” dalla normativa – sia dai soggetti privati, che entrano nel quasi-mercato della sanità con orientamenti profit e una certa vis concorrenziale. In un primo momento, fra il 1997 e i primi anni del 2000, la Regione tralascia di accreditare i suoi fornitori in ambito sanitario, estendendo le convenzioni preesistenti e consentendo la fornitura dei servizi del SSR a strutture private che si auto-valutavano come idonee e che, per un certo lasso di tempo, di fatto non verranno controllate.
Ma non basta. Per far sì che questa riforma radicale in senso privatistico del modello organizzativo della sanità lombarda venisse accolta e approvata con il massimo del consenso della opinione pubblica, si è fatto ricorso a concettualizzazioni teoriche che legittimassero questa scelta, supportate da elaborazioni accademiche di pari orientamento ideologico. Le parole chiave maggiormente utilizzate nel corso dei decenni dal governo di centro destra per consentire al processo di privatizzazione di svilupparsi sono state: “sussidiarietà” (nella versione orizzontale), e – venendo al punto che più ci interessa qui, con riferimento alle strutture di erogazione sia pubbliche sia private – “pariteticità” di partecipazione al SSR e “parità” delle condizioni nella fornitura dei servizi sanitari.
La condizione di sostanziale parità degli erogatori pubblici e privati di servizi sanitari, accreditati e a contratto, secondo la Regione, andava considerata sotto diversi profili:
1) parità di diritti: l’autonomia organizzativa, gestionale, amministrativa, tecnica delle strutture pubbliche, affermata dalla normativa, voleva corrispondere all’autonomia dal soggetto pubblico naturalmente esistente per le strutture di natura privata. Ma se questa caratteristica risulta presente ed evidente per quanto riguarda il privato, nel caso del pubblico, l’autonomia – pur supposta e richiamata dalle delibere – è sempre stata solo apparente, e non poteva che essere così in un SSN dai caratteri pubblicistici, in particolare se la nomina dei direttori generali delle aziende pubbliche derivava da scelte politiche dell’Ente Regione. Anche da parte dei rapporti OASI della Bocconi in Lombardia si è constatata l’esistenza di una sorta di neocentralismo su base regionale, che non poteva lasciare molta autonomia alle strutture pubbliche facenti parte del sistema. Ossia, in Lombardia, mentre si combatteva il centralismo statalista, si realizzava un centralismo regionalista.
2) parità di doveri delle strutture. Anche questo profilo di parità non può essere confermato: la committenza pubblica dei servizi vale sì sia per l’erogatore pubblico sia per il privato, ma è più cogente per il soggetto erogatore pubblico, che deve garantire una gamma di funzioni e di servizi molto più estesa, anche se questo volume di attività corrisponde a volumi di ricompense per prestazioni mediamente unitariamente meno cospicui. A differenza del pubblico il privato sceglie da sé quali servizi intende offrire, e normalmente sono quelli che costano unitariamente di più al SSR; le strutture pubbliche inoltre devono sottoporre all’approvazione della Regione le loro decisioni strategiche, organizzative e di bilancio, che non sempre vengono approvate. Il che dimostra senza ombra di dubbio anche la non pari autonomia di gestione rispetto alle strutture della sanità private. Per la gestione delle strutture serve disporre dei fattori produttivi (risorse finanziare, risorse di personale, risorse tecnologiche), che non sempre sono a disposizione delle strutture pubbliche, in quanto il loro livello dipende dalle scelte delle istituzioni regionali e nazionali.
3) parità di trattamento da parte della Regione: modalità di pagamento, interazioni, formalizzazione del rapporto tramite la negoziazione e il contratto fra committente pubblico ed erogatori privati e pubblici non sono gli stessi (schemi contrattuali uguali non comportano un pari trattamento contrattuale). Si riscontrano notevoli differenze nella realtà fra i trattamenti rivolti al settore pubblico rispetto al settore privato, a detta degli operatori. Un’area di differenziazione del trattamento riguarda le pratiche di accreditamento e di controllo.
4) pari orientamento valoriale. La meno dimostrabile di tutte, e forse la più evocata, è la supposta sostanziale parità di orientamento valoriale o della finalità ultima fra i due soggetti pubblico e privato: l’utilità pubblica, affermazione che nega la fondamentale rilevanza del profitto per la sanità privata, anche nelle vesti di fornitore del SSL.
5) pari dignità dei soggetti pubblici e privati, un modo per dire che al soggetto pubblico non dovrebbe mai essere assegnato – in automatico – un ruolo sovraordinato nei confronti del privato, senza verificare cosa è in grado di fare il soggetto privato.
Le teorie della parità pubblico e privato, che fanno ritenere coincidenti di fatto i due tipi di soggetti, perché quindi non dovrebbero farci naturalmente presupporre anche una pari disponibilità a priori dei due soggetti a farsi carico delle emergenze sanitarie?
Ma questo SSR della Lombardia – il quasi-mercato – è davvero paritario riguardo ai comportamenti attesi dei soggetti erogatori? Da quanto detto in precedenza pare proprio di no. Alla prova della prima emergenza, dovuta ad una minaccia epidemica, la realtà sembra smascherare del tutto l’ideologia. Soprattutto oggi le teorie appena richiamate risultano prive di ogni fondamento. E quindi lo sono anche le domande che ne vengono stimolate. Ma dove stanno i soggetti erogatori privati? Gli innumerevoli IRCCS privati e le strutture di ricovero di eccellenza private? In quale modo gli erogatori privati hanno contribuito fino ad oggi alla soluzione dell’emergenza coronavirus?
Ma ci sono altre importanti considerazioni da fare strettamente collegate a quanto appena detto. Qui vengono in evidenza le contraddizioni di un modello di servizio sanitario regionale misto pubblico-privato, affiancato da un mercato diretto solo privato, retti sia quello interno al SSL (quasi mercato) sia quello diretto (mercato diretto tout court), dagli stessi operatori privati, che sono i fornitori del Servizio sanitario regionale e del libero mercato.
Evidentemente uno dei due soggetti non risponde subito, prontamente. Il che corrisponde a dire che la sua disponibilità è incerta ed è quindi da richiedere. La presenza di una disponibilità è sempre quindi da verificare. E il SSR deve sottostare – di conseguenza – alla volontà dei soggetti privati. La disponibilità poi ad offrire servizi extra-contratto costa ancora di più al SSR; si hanno quindi costi elevati di transazione: risorse di tempo spese nella negoziazione e risorse finanziarie aggiuntive per il carico straordinario del servizio richiesto.
Insomma il modello del “Sistema sociosanitario di Regione Lombardia”, come viene denominato nella normativa regionale per sottolineare la sua diversità rispetto a qualsivoglia altro Servizio Sanitario regionale del nostro SSN, caratterizzato in questa regione da una sanità privata a contratto che tende a sovrastare per ruolo il soggetto erogatore pubblico, mostra una certa rigidità, lentezza di risposta, ed è più costoso di un servizio sanitario regionale con soggetti erogatori pubblici ampiamente prevalenti e sovraordinati ai privati.
Proviamo ora a considerare il probabile punto di vista dell’erogatore privato, per intenderci, il grande gruppo della sanità privata. Innanzitutto ricordiamo che non si è reso disponibile fin da subito, dall’inizio della crisi (molto più probabilmente può essersi di fatto trovato a ricoverare pazienti che sembravano affetti da polmonite ma che erano invece contagiati dal coronavirus). Come si spiega questo fatto? Prima considerazione: ciò che fa la sanità privata per il SSL è formalizzato in un contratto e in un budget di fornitura. Si dirà che la contrattualizzazione vale anche per il soggetto pubblico, ma in questo caso si tratta di accordi che possono più facilmente essere rimessi in discussione. E questo di per sé significa dover riconsiderare da parte dei due contraenti, Regione e strutture della sanità privata, gruppo per gruppo, struttura per struttura, gli accordi già stabiliti. La sanità privata è un interlocutore che non si mette al servizio spontaneamente, ma contratta sempre le condizioni del suo servizio, naturalmente quanto più possibile a suo favore.
Ma un altro aspetto è che la sanità privata si sta trovando di fronte al fatto che la partecipazione all’emergenza sanitaria finisce per generare ed enfatizzare una delle più grandi contraddizioni del modello appena descritto. Contrappone per la prima volta in modo netto tipi diversi di beneficiari. Il cittadino/paziente colpito dal coronavirus vs il cliente pagante. I due beneficiari del servizio sono su fronti opposti. L’ospedale privato, fornitore del SSR e player sul mercato libero, perché autorizzato a esserlo dalle istituzioni pubbliche, quale fra i due beneficiari citati dovrebbe principalmente servire? Il cittadino paziente del SSR, eventualmente portatore del coronavirus, o i propri clienti paganti, che proprio perché pagano di tasca loro, o attraverso i loro intermediari (assicurazioni, mutue, ecc.), non intendono correre rischi di salute ulteriori? Con ogni probabilità non può servire congiuntamente l’uno e l’altro all’interno della stessa struttura senza pregiudicarsi una quota del suo mercato, principalmente quello diretto (quello al di fuori dal SSN). In altre parole, se partecipasse all’emergenza mettendo a disposizione le sue strutture correrebbe il rischio di perdere la sua clientela privata. È per questo, e non solo quindi per motivi strettamente medico-clinici, che la collaborazione che si prospetterà per risolvere l’emergenza del coronavirus avverrà probabilmente in modalità tali da non mescolare i due ambiti del servizio nei confronti delle due diverse classi di pazienti.
Ecco un’altra evidente differenziazione fra pubblico e privato che è esplicativa di un impedimento di fondo dato dal modello.
Il modello della separazione delle funzioni (il cui effetto principale è stato di restringere il numero delle macrofunzioni attribuite al solo soggetto pubblico) alla base della privatizzazione spinta del SSR lombardo, con il suo corollario della supposta – ma non dimostrata – parità fra erogatore pubblico e privato, mette la Lombardia nelle condizioni di operare pienamente utilizzando ogni componente del suo sistema, pubblica o privata che sia? No.
In situazione analoga lo scorso 16 marzo il governo spagnolo ha messo l’intera sanità privata al servizio del Sistema Nacional de Salud, il sistema sanitario nazionale della penisola iberica. Le aziende con materiale sanitario hanno avuto 48 ore di tempo per informare l’esecutivo su cosa avevano a disposizione mentre le comunità autonome spagnole, corrispondenti alle nostre regioni, potevano disporre di “tutti i mezzi” necessari del sistema privato per far fronte all’epidemia comprese apparecchiature mediche come maschere chirurgiche, guanti e occhiali protettivi tenuti in stock da aziende o individui.
La messa a disposizione dei posti letto della sanità privata in Lombardia si è avuta solo tardivamente, con un importante lasso di tempo dopo l’avvio della emergenza da coronavirus, e obbligata di fronte all’opinione pubblica, con la situazione già fuori controllo N.d.R.
Le ricadute in termini di gestione del SSL sembrano essere quelle di un non funzionamento pieno del modello, in certi casi. Soprattutto nelle emergenze di salute pubblica, ovvero durante eventi straordinari e drammatici che riguardano tutti noi cittadini. E questo, nonostante le aspettative della opinione pubblica. Il cittadino lombardo infatti “vede” (ha visto fino ad ora) il privato (accreditato e a contratto) come fosse davvero “pari” al pubblico – e quindi parimenti coinvolto per principio e nella realtà nella sanità istituzionale regionale – anche perché è così che le istituzioni lo descrivono sui media. È emblematica la dichiarazione, all’interno di un programma televisivo di informazione del 1 marzo, pronunciata da un viceministro che lavora per il principale gruppo economico italiano della sanità privata: “La sanità privata (intendeva quella accreditata e a contratto, N.d.A.) è il SSN.” Ma è proprio così? Se fosse davvero così, bisognerebbe chiedersi perché il governatore della regione Lombardia, Attilio Fontana, nello stesso giorno, ha ringraziato pubblicamente la sanità privata e le sue strutture per essere “entrate” con la loro disponibilità nel “nostro” sistema, quando una componente della sanità privata dichiarava la propria disponibilità a “collaborare” mettendo a disposizione del SSR lombardo 14 medici (Dire, Roma, 18:15 01 03 20).
D’altra parte, la “sanità privata” si autocelebra in tutti i modi invece come “settore privato”, in quanto è proprio quella privata in realtà la sua natura, ed è quella anche la sua prospettiva di espansione per quanto riguarda il business. Tanto è vero che anche in piena emergenza si occupa molto e bene del suo marketing strategico.
L’emergenza del coronavirus è una cartina di tornasole. Ma, se si va un po’ oltre potremmo anche ammettere che ci sono altre considerazioni che ci fanno esprimere preoccupazione dal punto di vista del paziente cittadino. Quanto ci rassicura la consistente presenza della sanità privata di fronte ad iniziative che per la loro criticità e gravità devono essere imposte da una istituzione pubblica agli erogatori e che richiedono, da parte del management e del personale sanitario, una abnegazione e una forte motivazione deontologica più che un orientamento al profitto. Non vorrei essere male interpretata. Sono considerazioni queste che non riguardano in il personale sanitario che opera nelle strutture della sanità privata.
La garanzia della salute pubblica sembra venire da una sanità pubblica finanziata, integrata, ben organizzata e controllata, insomma ben governata. Esattamente la politica sanitaria opposta a quella realizzata nel corso degli ultimi decenni, basata sulla “governance”, cioè su un governo e un controllo laschi sugli aspetti maggiormente critici del sistema. Serve allora un altro modello organizzativo: molto integrato. Va decisamente invertita la rotta del SSR della Lombardia.
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1. Le ATS nel territorio delle quali lavorano gli ospedali pubblici in prima linea sono 7 sulle 8 totali: ATS della Città metropolitana di Milano, ATS della Val Padana, ATS della Brianza, ATS di Pavia, ATS di Brescia, ATS della Insubria. Nell’elenco manca l’ATS della Montagna. Si tratta di strutture che in altre regioni potrebbero essere associate non del tutto propriamente alle ASL, in quanto delle ASL svolgono le funzioni di prevenzione medica e veterinaria, le funzioni di convenzione e organizzazione della medicina di base e delle farmacie. Ma oltre a ciò, svolgono in buona parte le funzioni di regolazione istituzionale connesse all’autorizzazione all’esercizio e all’accreditamento delle strutture sanitarie, e le funzioni di committenza dei servizi da acquistare presso gli erogatori pubblici e privati a contratto con il SSR, di negoziazione delle condizioni del contratto, e di controllo sia della permanenza nel tempo dei requisiti autorizzativi e di accreditamento sia di controllo del regolare svolgimento delle attività delle strutture a contratto, quindi parte del SSR.