Naval’nyj: i giorni della vendetta

Alla dura vendetta di Putin si è consegnato Aleksej Naval’nyj rientrando in patria dopo l’avvelenamento di Tomsk e i quattro mesi trascorsi in Germania per le cure e la convalescenza. Era consapevole del fatto che a Mosca l’attendeva l’arresto immediato e sbrigativi “processi” con già scritte sentenze di condanna a lunghi anni di colonia penale: un atto di grandissimo coraggio che Naval’nyj ha compiuto all’insegna di due fondamentali imperativi: “non vivere secondo menzogna” (Aleksandr Solzhenitsyn) e “non avere paura”.
Un primo procedimento, celebrato irritualmente in un posto di polizia, subito dopo l’arresto, legittimava il suo arresto a seguito della richiesta della Polizia penitenziaria di rinviarlo a giudizio per non aver ottemperato all’obbligo di comparizione davanti a quella stessa polizia. È evidente che trovandosi in cura in Germania ne era impossibilitato.
Naval’nyj, infatti, nel 2013 era stato condannato per truffa ai danni della succursale russa della società di cosmetici Yves Rocher a tre anni e otto mesi, con la sospensione condizionale. La condanna era stata giudicata infondata dal Tribunale Europeo per i Diritti Umani e Mosca aveva riconosciuto valida e vincolante questa sentenza, come membro del Consiglio d’Europa. Nel procedimento del 2 gennaio, la sentenza veniva confermata in appello, la condizionale tolta e la pena dichiarata immediatamente esecutiva.
Il terzo processo era stato costruito di sana pianta per una nuova condanna, sia pure una multa in denaro (87 mila rubli), inflittagli su querela per calunnia mossagli, apparentemente, da un 94enne veterano della Grande Guerra Patriottica firmatario assieme ad altri di una lettera favorevole alla putinesca riforma costituzionale che annullava il limite ai mandati presidenziali, così da permettere a Putin di poter partecipare, come minimo, alle elezioni presidenziali del 2024 e – età e salute permettendolo – anche alle successive. “Lacchè, traditori”, aveva definito Naval’nyj i firmatari. Il “caso del veterano” in realtà serviva per imbastire una campagna politico-propagandistica di stampo stalinista-goebbelsiano contro di lui. Aleksej veniva trasformato in un apologeta del nazismo, in quanto calunniatore di un combattente della vittoriosa Grande Guerra Patriottica.
Non basta. Il “principale oppositore di Putin”, come lo definiscono i suoi seguaci e molta parte dei media occidentali, è atteso da un nuovo processo per “corruzione di grandi proporzioni”, un reato del tutto inventato, ma che prevede pene fino a 10 anni di colonia penale.
Naval’nyj era stato vittima di un avvelenamento prodotto da una sostanza neurotossica, chiamata Novychok, arma chimica proibita dalle leggi internazionali sottoscritte anche da Mosca. Un’inchiesta internazionale condotta dai giornalisti del progetto BellingCat e dallo stesso Naval’nyj accertava la responsabilità diretta di agenti speciali della polizia politica della Federazione Russa (FSB).
Il “caso Naval’nyj” è una cartina di tornasole che definisce lo stato della legalità nella Russia, dove i processi sono determinati dal controllo sui tribunali da parte del potere esecutivo. Nella Russia di Putin non esiste la separazione dei poteri. Nel paese e fuori di esso (vedi i casi Litvinenko e Skripal’) si muovono, liberi e impuniti, “squadroni della morte”, come quello che ha avvelenato Naval’nyj a Omsk. C’è da ricordare che nel ventennio putiniano sono stati assassinati trentasei tra giornalisti, politici e difensori dei diritti umani e civili. Ricordiamo i più noti: i giornalisti e scrittori Jurij Shchekochikhin e Anna Politkovskaja; un leader dell’opposizione ed ex-vicepremier, Boris Nemtsov; e meno noti come gli attivisti per la difesa dei diritti civili nord caucasici come Timur Kuashev, Farid Babaev, Magomed Evloev. Con il veleno sono stati colpiti il responsabile dell’associazione “Russia aperta” Vladimir Kara-Murza e l’attivista libertario Petr Verzilov: entrambi sono scampati alla morte. Nella maggior parte dei casi non sono stati trovati né esecutori, né mandanti.
Le inchieste da parte dei giornalisti del progetto internazionale BellingCat e dello stesso Naval’nyj hanno individuato gli avvelenatori di Tomsk: una squadra di agenti dell’Fsb con tanto di nomi, cognomi e foto. Putin negò che si fosse trattato di agenti, commentando così l’avvelenamento fallito: “Se avessero voluto, sarebbero andati fino in fondo”. Lo disse ridacchiando davanti ai giornalisti. “Il Presidente, colui che dovrebbe essere il primo garante della legalità, scherza con la vita e la morte… e ritiene possibile l’uccisione di propri concittadini in nome della sicurezza dello stato”, ha scritto su “Novaja Gazeta” (10 febbraio 2021) il regista cinematografico Andrej Zvjagintsev (“Il ritorno”, “Elena”, “Il leviatano”).
Il “caso Naval’nyj” è una cartina di tornasole che definisce lo stato della legalità nella Russia, dove i processi sono determinati dal controllo sui tribunali da parte del potere esecutivo.
Passiamo alle manifestazioni per la liberazione di Naval’nyj, promosse dai suoi collaboratori nei giorni 23 e 31 gennaio e 2 febbraio. Hanno avuto luogo in oltre 100 città russe. I fermati sono stati undicimila, una cifra record nella storia della Russia post-sovietica. I centri delle città, specie Mosca e Pietroburgo, erano stati occupati dalle truppe degli interni, OMON e Rosgvardija, uomini in caschi e divise mimetiche e nere (ribattezzati “cosmonauti”). Mai in precedenza la repressione di quelle manifestazioni era stata tanto brutale. Sguinzagliati in colonne con manganelli e scudi, o in piccoli gruppi, picchiavano i manifestanti inermi e pacifici, con manganelli, pugni e calci. Ragazzi e ragazze, gente visibilmente non violenta, studenti, spinti in vicoli chiusi, addossati al muro, con le braccia alzate, selvaggiamente percossi e poi caricati nei cellulari posteggiati vicino. Uno spettacolo sinistro: i “cosmonauti” sembravano i nuovi oprichniki (le guardie di Ivan il Terribile). I fermati venivano condotti nelle celle dei posti di polizia o per mancanza di posto erano trattenuti nei cellulari, spesso in condizioni degradanti, chi per pochi giorni, chi per una o due settimane, chi fino a un mese. Sono stati denunciati casi di percosse, maltrattamenti, persino torture. Poche decine andranno in tribunale e in carcere. La stragrande maggioranza se la caverà con una multa. Ma tutti i nomi dei fermati saranno registrati e segnalati per provvedimenti come licenziamenti dal lavoro, espulsioni dagli istituti di istruzione superiore ed università.
Lo stato di non-diritto di Putin
È evidente come sia stato deliberatamente violato l’articolo 31 della Costituzione, che recita: “I cittadini della Federazione russa hanno diritto a riunirsi pacificamente, senza armi a organizzare raduni, incontri, dimostrazioni, cortei, picchetti”. È stata data mano libera a polizia, truppe antisommossa, a magistrati ligi al potere, nel quadro di una recentissima legislazione che rafforza i poteri delle diverse polizie.
Da segnalare i più recenti casi clamorosi di non-giustizia. Per esempio: a ben sei anni di colonia penale, con l’accusa di aver rotto la finestra di una sede del partito del Presidente “Edinaja Rossija” (Russia Unita) e avervi gettato dentro un fumogeno, è stato condannato, senza prove, un giovane matematico dell’Università di Mosca, Azat Miftakhov, simpatizzante anarchico. Oppure la condanna a tredici anni di colonia penale inflitta in appello, dopo che in prima istanza era stata di tre, a Jurij Dimitrev dal tribunale di Petrozavodsk, Carelia. Si tratta di uno storico legato alla società “Memorial”. Gli osservatori e i conoscenti di Dimitrev sono unanimi nel definire del tutto fabbricata l’accusa di pedofilia. La colpa di Dimitrev è stata quella di aver cercato, scoperto e raccontato le fosse comuni in cui venivano sepolte nei boschi della Carelia negli anni del Grande Terrore staliniano le migliaia di vittime dell’Nkvd. A Mosca, di recente, è stato proposto di rimettere al suo posto, nella piazza della Lubjanka, il monumento a Feliks Dzerzhinskij, fondatore della prima polizia politica bolscevica, la Ceka.
Torniamo alle manifestazioni: si capisce che Putin non ama i manifestanti. Scendono nelle strade e gridano lo slogan navalniano: “Putin vor”, Putin ladro, oppure “Abbasso il regime dei zhulikì i dvory”, i “mascalzoni e i ladri”. Questi due slogan epitomizzano l’asse attorno a cui ha ruotato l’attività politica di Aleksej Naval’nyj, giurista e uomo politico, uno stage all’Università di Yale. Partendo da una sistematica denuncia della corruzione quale elemento sistemico del potere di Putin, Naval’nyj ha per obiettivo strategico la conquista per via democratica del potere politico e la creazione in Russia di uno stato realmente di diritto, dove i cittadini possano votare in elezioni libere e nel pieno rispetto della legalità. Naval’nyj ha creato attorno a sé una squadra di giuristi preparatissimi, tecnici della comunicazione dell’informazione in rete, pubblicisti, politici sperimentati, uniti nel FBK, ovvero Fondo di lotta alla corruzione, e nel suo partito politico, “Russia del futuro”. Da qui sono nati sia i notiziari quotidiani in rete sul canale “Naval’nyj Live”, che conta almeno quattro milioni di followers , sia oltre un centinaio di documentari di varia lunghezza, anch’essi in rete. Vi si descrivono, con ironia, sarcasmo e sdegno civile (è la cifra di Aleksej), i personaggi, i fatti e le forme della corruzione, i nepotismi, le cifre, i fantastici arricchimenti , gli abusi e le illegalità dei chinovniki, ovvero i funzionari pubblici, dai capi dello stato e del governo a ministri, deputati, governatori, sindaci, procuratori, capi della polizia etc. Accanto ai chinovniki, compaiono in qualità di compari, complici ed elargitori di tangenti, gli “oligarchi”: sia quelli emersi dalle truffaldine privatizzazioni dei “tremendi anni novanta”, sia quelli arrivati successivamente nel grande business e alla guida delle corporation di stato grazie ai loro rapporti personali con Putin. Si tratta, in particolare, di vecchi colleghi di KGB e FSB o di amici di infanzia e colleghi di palestra di judo. Infine vengono i “clarinetti” (in senso orwelliano), ovvero i portavoce , i giornalisti o meglio, i “propagandisti” delle TV di stato. “Gente che mente e sa di mentire … personaggi per me passati allo stato di non esistenze, come non fossero neppure mai nati” – scrive di loro Zvjagintsev nell’articolo citato sopra. Nei documentari grandissimi, grandi e meno grandi chinovniki, oligarchi, “propagandisti” sono passati attraverso la lente di Aleksej e dei suoi collaboratori (Milov, Alburov, Ljubov’ Sobol’, Volkov, Zhdanov etc). Ville – alcune a forma di fortezze-castelli, altre con tetti a pagoda; palazzi; ampi terreni con parchi o vigneti; appartamenti di prestigio; hotel di lusso; orologi Richard Mille; e un bel numero di yacht, alcuni con pista per elicotteri. Sono la grande passione degli oligarchi: il re dell’alluminio Potanin ne ha addirittura tre, in tutto valgono quasi un miliardo. Naval’nyj e i suoi producono prove difficilmente confutabili, documenti catastali e fiscali.
Alcuni di questi documentari hanno ottenuto visualizzazioni record: 13 milioni il film (2015) dedicato ai figli del Procuratore generale della Federazione russa Jurij Chajka, con il loro hotel extra-lusso in Grecia e la villa in Svizzera. All’ex-premier, ex-capo dello stato (2008-2012) e da poco vice-presidente del Consiglio di stato, Dmitrij Medvedev, è stato dedicato il film “Non lo chiamate Dimon” (diminutivo di Dmitrij). Le visualizzazioni sono state oltre 43 milioni. Si viaggia tra ville, castelli, pregiati terreni da Mosca all’Altai, da Sochi ad Astrakhan. E si parla dei suoi rapporti stretti con oligarchi, soprattutto con uno dei più ricchi, Alisher Usmanov (magnate della metallurgia, dei media, da quelli cartacei ai digitali, telefonia). Questi possedimenti, come quelli degli altri chinovniki rappresentati da Naval’nyj, non sono giustificabili con i loro redditi.
I fermati sono stati undicimila, una cifra record nella storia della Russia post-sovietica. Mai in precedenza la repressione di quelle manifestazioni era stata tanto brutale.
Non potremmo mancare di soffermarci su un personaggio romanzesco come il cosiddetto “cuoco di Putin”: il sessantenne Evgenij Prigozhin. Nove anni di colonia penale per reati come banditismo, truffa, prossenetismo, in tempi sovietici. Poi, negli anni postsovietici, nella “banditesca Pietroburgo” costui da venditore di hot-dog si trasforma in rinomato ristoratore di lusso, tanto che Putin, di Pietroburgo vicesindaco, gli commissiona un gran pranzo, invitato d’onore Jacques Chirac. Grande successo. Da allora la carriera di questo personaggio non conosce né limiti, né frontiere. Da imprenditore della società di catering “Konkord” (mense per le scuole di Mosca) passa, non si sa come, all’alta politica. Crea una “Compagnia Militare Privata Wagner” (la legge non lo consentirebbe), “fornisce” mercenari russi in Siria, in Libia. Lo fotografano assieme al ministro delle difesa Shoigu e al leader libico Haftar. E la “Wagner” appare anche nella inquieta Repubblica Centroafricana: qui la Russia, oltre ad addestrare le truppe del presidente Faustin-Archange Taoudéra, è interessata allo sfruttamento di miniere d’oro e di diamanti. Nel luglio 2018, due giornalisti e un operatore TV, vanno a Bangui per poi inoltrarsi verso nell’interno e documentare la presenza russa. I tre – Orkhan Dzhamal’, Kirill Radchenko e Aleksandr Rastorguev – vengono trovati uccisi due giorni dopo. La colpa è attribuita sbrigativamente alle milizie anti-Taoudéra.
Infine, vale ricordare un altro personaggio, Viktor Zolotov, anch’egli fuori di tutte le classificazioni. Agente dell’FSB, è passato da guardia del corpo di Putin, a generale comandante in capo della Rosgvardija, 340mila uomini, di truppe anti-sommossa, incaricate di mantenere l’ordine pubblico (i “cosmonauti”). Anche lui si è fatto un palazzo, di marmo rosa, fuori Mosca. Ha sfidato Naval’nyj a un duello a pugni, dicendo che lo avrebbe trasformato in una “succulenta cotoletta”.
Il “Palazzo di Putin”
Il documentario più esplosivo è l’ultimo, mandato in rete da Naval’nyj poco prima di tornare in Russia dalla Germania. Titolo: “Il Palazzo di Putin”, sottotitolo “La grande tangente”. Dopo il sintetico racconto della carriera di Putin – da Dresda a Pietroburgo a Mosca – viene rappresentato il suo “Palazzo”, la sua Versailles sulle coste del Mar Nero, presso Gelendzhik, nel territorio di Krasnodar’. Le visualizzazioni superano i 113 milioni. Un record.
Si tratta di un palazzo italianeggiante formato da quattro grandi edifici disposti a quadrilatero , con due porticati all’interno, attorno a una grande corte centrale con giardini e cipressi. Oltre 17,7mila metri quadri di superficie abitabile. Su un territorio di 68 ettari recintatissimo, e con varie dépendances, parco con arboreti, vigneti, orangerie, pista di ghiaccio sotterranea, anfiteatro, pista per elicotteri, e persino una policroma chiesetta ortodossa, trasportata lì, mattone per mattone, dalla Grecia. Importanti gli interni, tra cui un’enorme camera con un “lettone” baldacchinato , poltrone e sofà (dono dell’amico Berlusconi?); un teatro; una sala da “narghilè” (kal’jan) con pedana e asta per lap-dance; una grande sala da gioco tipo casinò; una sala per video-giochi e slot-machines. Nessuna biblioteca. Il progetto è dell’architetto italiano Lanfranco Cirillo. Anche gli zar impiegavano architetti italiani: Rastrelli, Rossi, Quarenghi…
È una bomba. Putin, servito dal coro iratissimo dei suoi portavoce e dei “propagandony” televisivi, è costretto a difendersi e nega che il “Palazzo” sia suo o dei suoi familiari. Per fortuna, l’amico di infanzia e di palestra Arkadij Rotenberg, cui sono andati appalti statali miliardari (come il “Ponte di Crimea” che attraversa lo stretto di Kerch) , ha rivendicato a sé la proprietà di quel “Palazzo”. Ne farà un Hotel-Apart. Putin non c’entra nulla. È una menzogna. Architettata, come l’avvelenamento di Omsk, da Naval’nyj e dai servizi segreti occidentali.
È strano, tuttavia, che “il Palazzo” sia ben custodito da un bel numero di agenti dell’FSB, e che non lo si possa avvicinare né via mare, né via aerea (come no-fly zone). La notizia di un “palazzo di Putin” era uscita fuori già nel 2010, ma non aveva avuto grande risonanza mediatica. La ha avuta ora, esplosiva. Quel “Palazzo”, con quelle dimensioni e quelle caratteristiche, pone inquietanti interrogativi non solo sui redditi e sul patrimonio, secondo molte fonti plurimiliardario, ma anche sulla personalità e la salute mentale del Presidente russo. Il quale da molti mesi, terrorizzato dal Corona-virus, lavorerebbe lontano dal Cremlino e quasi esclusivamente in video-conferenza, chiuso nelle sue residenze-bunker di Novo-Ogarevo e di Sochi e dell’Altai. “Il nonnetto del bunker” – lo chiama beffardamente Naval’nyj.
Limiti di Naval’nyj e del navalnismo
La corruzione è il collante che lega tutti i beneficiari del regime. Ben ha fatto Naval’nyj a metterla al centro della sua attività di informazione e di agitazione politica. Tuttavia, ha lasciato in ombra altri temi di gran rilevanza, sotto il profilo politico e sociale. Sono quelli legati alla crisi economico-sociale del paese , colpito sia dall’abbassamento dei prezzi del petrolio, sia dalle conseguenze della pandemia specie sui settori tradizionalmente deboli della piccola e media industria e del commercio, cui sono andati insufficienti aiuti e stimoli governativi: la politica economica putiniana privilegia le grandi corporation delle materie prime e il settore industriale militare. È aumentato il numero dei cittadini sotto la soglia della povertà (il 20-25% della popolazione). Sono cresciuti i già abnormi dislivelli sociali. Alla fine del 2018 è stata promulgata una legge che innalza di cinque anni l’età pensionistica. È stata una misura oltremodo impopolare che ha abbassato il rating di Putin. Il quale ha vinto ugualmente il referendum del luglio 2020 sugli emendamenti costituzionali, tra cui quello che azzera il limite ai mandati presidenziali. Sono diminuiti in valore reale salari e stipendi, mentre i prezzi sono aumentati sensibilmente, specie dei beni di consumo e dei macchinari che la Russia importa prevalentemente dall’Europa. Sono ancora arretratissime le infrastrutture, specie quelle della sterminata “profonda provincia” del Nord e dell’Est del Paese. Solo un terzo di esso è stato toccato dalla gassificazione. Nei centri minori e rurali è stato ridotto il numero di ambulatori e ospedali e le abitazioni sono prive di acqua corrente e toilette. Interi quartieri urbani di tante grandi città sono marcescenti.
Al tempo stesso, è cresciuta la spesa militare (corsa agli armamenti e costosissime avventure militari come quelle in Siria e Ucraina). Si è intensificato il credito elargito da Mosca sia a paesi ex-sovietici sia a paesi in via di sviluppo (Africa, Latino-America) in nome di una politica estera “di grandezza”.
Le condizioni di arretratezza e miseria diffusa in un paese di enormi risorse sono strettamente legate alla corruzione al nepotismo, all’assenza di uno stato di diritto. Ma Naval’nyj ha privilegiato solo questo secondo aspetto del regime putiniano. Non uno slogan né un documentario sono stati imperniati sul primo. La denuncia della corruzione via Internet e le manifestazioni di strada non bastano. I milioni di visualizzazioni su Internet non si trasformano in milioni di persone che scendono in piazza. Massimo in centomila, in tutto l’immenso paese.
La pur eccellente e coraggiosissima opera di Naval’nyj ha avuto un’impostazione fondamentalmente liberale ed etica. Sicuramente ha fatto presa su settori di classe media, prevalentemente quelli giovanili e istruiti. Ma ha abbandonato alla propaganda di regime goebbelsiana e omnipervasiva o alla tipica rassegnazione russa le vaste masse popolari in cui esistono oggettive ragioni di forte scontento. Tuttavia, proteste popolari ci sono state e hanno avuto carattere di massa. Quelle, ad esempio, del 2018-2019, contro una grande centrale di lavorazioni di rifiuti progettata da Mosca nella regione di Arcangelo, presso la stazione di Shies. O quelle a sfondo socio-ecologico di Ekaterinburg (2018) e di Baskiria (2020). Per non parlare di ben tre mesi consecutivi – dall’agosto all’ ottobre del 2020 – di proteste e cortei con migliaia e migliaia di persone nella città di Khabarovsk, provocate dal brutale arresto del suo popolarissimo governatore Furgal’ dopo indagini opache su crimini risalenti a più di quindici anni prima. Da sette mesi è in carcere di isolamento a Mosca.
Si vedrà ora se e come, privati del loro leader, i “navalnisti” proseguiranno l’azione del FBK e, magari, potranno avviarla su linee più ampie e ipotesi di coalizioni con altri settori liberal-democratici e magari con settori del Partito comunista capaci di rompere, finalmente, con il loro immarcescibile leader, il conservatore nazional-stalinista Gennadij Zjuganov, finora, di fatto, stampella del regime. Penso al Comitato regionale comunista di Mosca, guidato da Valerij Rashkin o a quello di Saratov, la cui figura di spicco è il giovane Nikolaj Bondarenko, deputato della Duma regionale, blogger con un milione di follower che racconta i suoi durissimi interventi in quell’assemblea, i suoi frequentissimi incontri con cittadini e lavoratori che gli espongono le loro realtà e i loro problemi. È stato multato per la partecipazione alle dimostrazioni pro-Naval’nyj e minacciato di denuncia “per corruzione” (cioè per la sua attività di blogger). Il potere fa di tutto per impedirgli di presentarsi alle elezioni della Duma di stato, l’autunno prossimo, con molte probabilità di vincere. Nello stesso distretto elettorale si presenterà niente meno che l’attuale presidente della Duma di Stato, Vjacheslav Volodin, di cui è celebre la frase: “ Non c’è Putin senza la Russia, non c’è la Russia senza Putin”. Il suo rating, dicono i sondaggi, è ora inferiore a quello di Bondarenko.
Naval’nyj sconterà la pena in una colonia penale, la IK-2 di Pokrov nella regione di Vladimir, non lontana da Mosca, ma giudicata durissima per i suoi regolamenti e realmente segregante. “Una colonia fatta per spezzare il prigioniero” – si è detto. Ovviamente saranno del tutto interrotti i rapporti con i suoi collaboratori. È la vendetta di Putin: per l’avvelenamento fallito, la denuncia naval’niana dei colpevoli e – quel che è peggio – per il racconto sul Palazzo di Gelendzhik.
Solo l’aggravamento più che possibile della crisi economico-sociale, l’isolamento internazionale e, finalmente, un costo più alto delle sanzioni potrebbero rompere gli equilibri del regime e provocare mutamenti. Ma potrebbero, più verosimilmente, accentuare l’attuale indirizzo autoritario e repressivo. Magari aggiungendo ai manganelli le armi da fuoco.
Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini.