Ma io non sono Pasquale!

Viene diffuso dal Cisia (fantomatico Centro interuniversitario sistemi integrati per l’accesso) un perverso, grottesco documento di protocollo per le prove di ammissione alle facoltà universitarie, che per molti, anche quest’anno, si terranno – come si usa dire – da remoto. Migliaia di studenti hanno ricevuto questo documento, a cui dovranno attenersi scrupolosamente se vogliono provare a iscriversi all’università.
Che cosa contiene? Il documento prescrive nel dettaglio tutte le condizioni necessarie al candidato che svolge la prova a distanza: dalla disposizione, calcolata in centimetri, dei mobili nella propria stanza e degli strumenti digitali che dovranno riprendere ogni angolo del perimetro in cui si trova, fino all’abbigliamento che il candidato dovrà indossare, alla luce che dovrà illuminare l’ambiente, al lato della scrivania dove potrà tenere la carta e la penna, e, ovviamente, alla connessione internet che dovrà avere. Se si leggono queste cinque pagine, non prive di generose illustrazioni esplicative, si ha immediatamente chiaro quale sia la principale virtù richiesta allo studente che, dopo soli due anni di didattica a distanza, voglia ancora insistere negli studi: egli deve anzitutto essere obbediente, rispettare alcune regole. Prima ancora di imparare qualcosa – questo sottintende il documento – devi abituarti a rispettare alcune (come si sente dire) “poche, semplici regole”, che sono sempre “per il bene di tutti”. Connesso e obbediente: ecco le due parole d’ordine.
Non solo: allo studente si chiede anche, preventivamente, di farsi controllore di se stesso. Non possono mica fare tutto i professori e i tecnici, ma lo studente deve collaborare, diventando, se necessario, il proprio stesso secondino. In questo documento, infatti, è già espressa una sottile ideologia pedagogica, che a ben vedere è molto diffusa anche in altri contesti. Poiché non abbiamo ancora gli strumenti adatti per controllare, una per una, le case di ogni candidato, e poiché non possiamo altrimenti essere sicuri che lo studente non indossi una felpa con tasche (uno degli indumenti che, secondo il protocollo, è proibito indossare durante la prova), ecco, finché i nostri mezzi saranno ancora così scarsi e carenti (ma dateci ancora un po’ di tempo!), occorrerà che il candidato stesso collabori alla messa in atto del proprio controllo, che misuri l’angolo della propria stanza affinché non vi siano punti ciechi che le telecamere non possano riprendere. Addirittura, occorre che egli usi i propri stessi strumenti, il proprio smartphone o il proprio tablet, per riprendere e controllare se stesso. Tutto ciò renderà l’intrusione più soft, più amichevole, più domestica, simile a un selfie.
Il documento contiene anche alcuni dettagli involontariamente comici, come la proibizione che vi siano testi sacri nella stanza. La Sacra Bibbia, si sa, può risvegliare simpatie o odi furibondi, a seconda dei casi, e già ci si immagina il momento in cui, durante una prova di ammissione alla facoltà di Ingegneria, il professore improvvisamente potrà gridare: “Lì dietro! Eccolo, mi sembra di intravedere un volume del Talmud… Prova annullata!”. Altri dettagli, invece, provocano solo tristezza, come la vignetta che illustra la postura esemplare del candidato, con la tonda capoccia – come chiamarla? – di un manichino, “in posizione centrata davanti allo schermo”.
Questo modello di sorveglianza fondato sull’educazione digitale, così cupo, lugubre, perverso, non è però così sorprendente: basti pensare che da mesi il gruppo Gedi, di proprietà della famiglia Agnelli-Elkann, e di cui fa parte La Repubblica, ha lanciato la campagna di educazione scolastica alla democrazia digitale, intitolata significativamente “Digitali e uguali”, che promuove un futuro in cui, invece che i libri – così diversi tra loro e dunque così antidemocratici – si possa avere sempre più accesso ai computer e ai tablet, veri e sempre più indispensabili strumenti di democrazia.
Ma che tutto ciò non stupisca, non significa che il problema non sussista: la cosa allarmante è che per molti la questione non venga avvertita affatto, tanto siamo abituati da anni a venire controllati – e a controllarci – in ogni istante e circa i dettagli apparentemente più innocui della nostra vita. Una delle frasi che più si sente dire, a questo proposito, a riprova di tale insensibilità diffusissima, è “tanto non ho nulla da nascondere”. Questa frase ricorda una celebre macchietta di Totò, in cui il protagonista (Totò stesso) raccontava a un amico di avere incontrato per strada uno sconosciuto, che ha iniziato a prenderlo a schiaffi e a insultarlo: “Pasquale! Finalmente ti ho trovato!” diceva lo sconosciuto, “Figlio di un cane! Tiè!”, e giù botte al povero Totò. L’amico – credo fosse Mario Castellani – diceva allora: “E tu non hai detto nulla? Non hai reagito?”, e Totò rispondeva: “E che mi frega a me, che so’ Pasquale io?!”. Così ci siamo tutti abituati, negli ultimi anni e decenni, ad accettare con indifferenza di venire controllati e ad essere, se necessario, trattati preventivamente come truffatori, criminali, terroristi, ammalati, nella sicurezza, tutta interiore, che tanto Pasquale (il terrorista, l’ammalato) non siamo noi.


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