Luoghi, storie e corpi nel nuovo fumetto
Il mercato editoriale del fumetto negli ultimi anni fiorisce di proposte di nuovi autori.
Le strade e il ruolo delle case editrici sembrano in continuo mutamento, e la crisi che André Schiffrin già descriveva a fine anni Novanta nel suo saggio Editoria senza editori si è certamente acutizzata: la proposta di nuovi titoli è molta a fronte di un bacino di lettori che non è certo numeroso, mentre la fidelizzazione a un’impronta editoriale – come la definirebbe Roberto Calasso – è nella maggior parte dei casi sostituita da una relazione lettore-autore mediata principalmente dai social che creano un cordone ombelicale, un rapporto presumibilmente intimo e quotidiano che influisce anche sulle narrazioni.
Non è un caso che l’autobiografismo sia tanto praticato e di così grande successo fra gli autori che hanno esordito negli ultimi anni, ma già Gipi nel 2008 con La mia vita disegnata male (Coconino Press – Fandango) poneva al centro del racconto il rapporto conflittuale con il proprio corpo, proponendoci una forma di fumetto vicina a quella di un diario intimo, dove la ricerca di una spontaneità linguistica si concilia con un segno rapido, che mostra tutta l’“urgenza” del raccontarsi.
Le fumettiste di maggior impatto culturale negli ultimi anni capaci di varcare i piccoli confini dell’ambiente fumetto, Fumettibrutti e ZUZU, hanno entrambe lavorato intorno a quest’idea di fumetto, nonostante le sostanziali differenze formali.
Fumettibrutti, aka Josephine Yole Signorelli, fin dal suo esordio Romanzo esplicito (Feltrinelli 2018) propone un’estetica vicina alla pop art, lavorando su un segno estremamente semplice e abbozzato dove i corpi, ridotti a bianche silhouette, resi anonimi e confondibili, si stagliano su sfondi monocromo, spesso retinati.
Fumettibrutti ha portato all’interno del suo lavoro alcuni temi cardine della contemporaneità, tra cui la ridiscussione dei ruoli di genere e, di conseguenza, quella del sesso e l’idea di rapporto di coppia, creando nei propri canali social un’area di confronto aperto.
In Romanzo esplicito sono presenti molti degli elementi delle storie che pubblicava settimanalmente online avvalendosi della forma del racconto breve, della didascalia e di un laconismo spesso efficace. Il montaggio dei racconti, ambientati a Bologna e incentrati sul trovare un proprio posto, sulle sue esperienze sessuali, sui rimorsi, le serate a ubriacarsi, prova a replicare il ritmo delle tracce di un Ip post-punk. Con il successivo P. la mia adolescenza trans (Feltrinelli 2019) la posta in gioco si alza cercando la strada del romanzo di formazione, una formazione che passa attraverso la scoperta tipicamente adolescenziale del proprio corpo e il ripensamento di esso.
La storia di P., la presa di coscienza della propria identità in uno spaccato scolastico connotato da pregiudizi e violenza di genere, ha alcuni elementi strutturali simili alla fiaba: la Catania descritta è un luogo universale nel suo essere indefinito, abbozzato ancor più della Bologna di Romanzo esplicito, dove il rapporto fra percezione di sé e condizionamento esterno è “risolto” attraverso tappe e prove da superare. Una storia così incentrata sui corpi, soprattutto sul corpo di P. che è continua orbita del desiderio altrui, colpisce per la scelta di omologare la rappresentazione dei personaggi: i caratteri sessuali sono soprattutto simboli e si rinuncia all’estetizzazione del sesso, tanto che le vignette sembrano spesso immagini sovraesposte nelle quali i personaggi scompaiono nel bianco della carta. L’oggetto magico proprio della fiaba, ne La mia adolescenza trans, assurge al ruolo di simbolo di emancipazione sotto forma di tacchi, calze a rete o rossetto e la trasformazione del corpo di P. che nel grido finale “ho le tette!” mostra dei rimandi alla metamorfosi in bambino di Pinocchio ribadita anche dalla didascalia: “Questa è la storia di Yole, che voleva essere una bambina vera, che non sapeva di esserlo già, ma doveva prima cambiare il suo punto di vista”.
Anche ZUZU, dal canto suo, nella sua opera prima Cheese (Coconino Press – Fandango 2019) trova in una maschera grafica simile a un dipinto primitivista che nasconde gli occhi e a tratti de-enfatizza le emozioni un modo per raccontarsi. Lo stile grafico è più accogliente di P.: virtuoso, pur conservando una forte freschezza esecutiva, influenzato anch’esso dal lavoro sul bianco e nero di Gipi, ma con una forte identità. Nella foga narrativa ZUZU parla visceralmente di amicizia, ma soprattutto propone un’idea di disegno che è autoanalisi. La possibilità dell’autoritratto come strada per osservarsi, capirsi, nel migliore dei casi, in uno slice of life, che nella ricerca di spontaneità guarda alla nouvelle vague citando espressamente il film manifesto Bande à part.
Se l’autobiografismo si è a più riprese dimostrato un genere particolarmente adatto al linguaggio fumetto – da Chester Brown a Pazienza, da Robert Crumb a David B. –, il contesto attuale ha determinato, come accennato, una relazione autore-lettore differente. Ci troviamo ora di fronte a autrici-influencer che hanno anche altri spazi di dialogo rispetto ai loro libri. L’autorappresentazione social amplia questi testi cartacei, ribadendo l’identità dell’autore dietro la maschera della narrazione.
Il volto che ZUZU mostra su Instagram è iconica quanto la maschera grafica che l’autrice usa nel suo racconto, così le storie di Instagram potrebbero aggiungere racconto, trovando coincidenze fra testuale ed extratestuale. Il rapporto autrice-personaggio problematizza poi la tesi di Barthes secondo cui la morte dell’autore permette la nascita del lettore, proponendoci un modello diverso dove l’autrice-influencer incontra il lettore-follower.
Se per Fumettibrutti e ZUZU il corpo è centro della narrazione, un corpo sempre affondato in spazi marginali e periferici di cui è protagonista narrativo, altre autrici e altri autori sembrano percorrere la strada inversa: l’ambiente, che diventa protagonista in un apparente rifiuto dell’autobiografismo, si fa tramite per l’esplorazione di sé e della realtà che il sé contiene. Potremmo quindi guardare alla provincia come la vera protagonista di molto fumetto attuale. Buona parte della recente generazione di autori ha trovato nel racconto del prossimo e nel vernacolare la propria poetica. La provincia come luogo dell’anima, come spazio emotivo ancor prima che fisico.
Un ottimo esempio di questa tendenza è Malibù (BeccoGiallo 2017) di Eliana Albertini, racconto delle vite che si arrabattano lungo una strada del Polesine: la Romea. La linea chiara di Albertini è estremamente precisa nel restituire un paesaggio padano di rotonde, strutture industriali e guardrail, di cartelli stradali e anonimi paesini, esplicitando la centralità della provincia rovigotta che detta i tempi e i rituali nelle vicende rappresentate. Il fumetto si apre mostrandoci la strada deserta, la Romea appunto, poi una processione religiosa tra volti tirati e la banda musicale del paese, il prete accompagna i fedeli predicando al microfono. Il punto di vista si sposta e la processione diventa oggetto delle attenzioni di una bambina che la spia dalla finestra della sua cameretta. Stringe un peluche, il letto alle sue spalle ne accoglie molti altri. La bambina è sorpresa dalle pellicce delle signore anziane. Molto del racconto di Albertini è in questa relazione, fra il dentro e il fuori, chi osserva e chi viene guardato, spostandosi fra le diverse generazioni e offrendoci soprattutto l’occhio, apparentemente neutro, della strada che accoglie queste vite, richiamando – seppur in tono più privato e intimista – il Sacro Gra di Francesco Rosi.
Un realismo provinciale che viene introdotto dalla stessa autrice attraverso una citazione da Americana di DeLillo: “il pericolo che incombe sulla vita della gente tranquilla è che quando arriva il momento fatale, quando la bocca si socchiude, il suono che ne scaturisce è destinato a ridurre in pezzi qualsiasi cosa si muova nel raggio di chilometri.” Albertini è abile a descrivere le tensioni crescenti degli abitanti del non-luogo che è la Romea, tensioni incarnate più dalle grida dei clacson e dalle code improvvise che dalle voci dei personaggi che agiscono più per non detti e silenzi.
Silenzi che riempiono anche le vignette di Bambino Paura (Rizzoli 2021) esordio di Juta, che costruisce un racconto di omissioni, di rapporti tra età diverse, come già faceva Albertini in Malibù. La provincia questa volta però non ha più coordinate geografiche riconoscibili: è un borgo che riecheggia alcuni elementi della narrazione gotica, il paesaggio è collinare e un’alta torre osserva le case del paese.
Anche in questo caso si parla di tensioni sopite, scosse dall’arrivo di una troupe cinematografica, come accadeva del resto in Le Meraviglie di Alice Rohrwacher, dove la routine di un piccolo mondo di provincia è rotta da un’intrusione esterna. Così il piccolo Giulio, che interpreta il bambino fantasma protagonista del film che dà il titolo al volume, viene visto dai suoi concittadini in modo diverso ora che ha interpretato quella parte. A volte sembrano ammirati, altre volte spaventati, mentre la sorella, già adolescente, teme ci sia qualcosa che non va in lui: da quando ha girato Bambino le uova in cucina hanno il tuorlo nero e la sera i gatti randagi si radunano intorno alla loro casa…
Le atmosfere perlopiù notturne e le tavole che si strutturano per rapporti di volumi tra i bianchi e i neri, ombre dai contorni sfumati che incombono continuamente sui protagonisti, sono organiche a una narrazione lacunosa, nella quale silenzio e non detto, visibile e invisibile, sono ugualmente portatori di significato.
“Cosa fa paura?” chiede Giulio alla madre mentre fanno colazione, e aggiunge: “tipo, il buio fa paura se uno non vede niente perché magari si immagina le cose… no?” al che la madre: “qui da noi non ci sono le cose che fanno davvero paura, per esempio senti un rumore di notte e magari ti fa paura e la paura ti sprona a controllare e alla fine è solo il vicino che sta chiudendo il bagagliaio”. Se l’invisibile è per il bambino-fantasma Giulio uno spazio di possibilità da riempire di immagini e di fantasie, per la madre l’invisibile si riduce a ciò che non è visibile, nel senso più neutro del termine. In quest’approccio divergente di adulto e bambino c’è tutta l’alterità dell’infanzia, la suggestione del bambino come mostro, la fanciullezza come età del possibile che trasforma la realtà di provincia in un affresco cittadino che echeggia di realismo magico. Se infatti Juta condivide alcuni luoghi con Malibù (la discoteca chiusa, le strade vuote, i motel…), l’autore attraverso gli occhi generativi del suo bambino-protagonista lascia aperto uno spazio di fuga dalla provincia cronica e dalla sua estetica anestetica. Per usare le parole dei Baustelle: il soprannaturale.
Il padovano Miguel Vila, che quanto Juta pone la provincia e un rapporto tra l’età adulta e ciò che la precede al centro della narrazione, segue un approccio diametralmente opposto: le sue paiono storie sempre illuminate dal sole, senza alcuno spazio per il soprannaturale né per il magico. Non concedendo spazio all’ultraterreno né all’immaginifico, Vila mostra una provincia padovana in piena luce: gli accesi colori digitali delineano in modo chiaro i volumi, e i paesaggi sembrano diorami, approfittando di panoramiche e inquadrature dall’alto. Osserviamo scampoli di vite con occhio clinico e voyeuristico che studia i personaggi con distacco, offrendoci in Padovaland (Canicola 2021) uno spaccato di ruvida verosimiglianza.
Attraverso le vite di Irene, ventenne commessa in un Megastore, e della sua amica – o forse no – Giulia, che sta per laurearsi con una tesi sulle costruzioni industriali della provincia padovana, Vila ci mostra piccole meschinità di paese: i pranzi di laurea, il sesso quasi sempre prevaricante e sgradevole, gli sgarbi fra colleghi, l’impossibilità nell’essere riconosciuti dall’altro, la fatica giornaliera nel sopportare tutto questo. L’architettura delle tavole è influenzata da Chris Ware e da Paolo Bacillieri, moltiplicando le vignette per restituire l’idea di movimento, come in un libro flip-flop, per poi concedersi dei primissimi piani sui personaggi, invitandoci a studiarne il volto in dettaglio. Ma Vila ha una cifra molto personale nel trovare spazi vergini allo sguardo, restituire un’estetica dell’architettura industriale, delle palazzine popolari e dei villini kitsch, mostrandoci spesso ambienti asettici abitati da corpi nei quali viceversa abbonda l’enfasi su ogni venuzza, neo, eczema. Tanto gli ambienti sono anonimi, quanto il lavoro grafico sui personaggi ci restituisce un’unicità organica che combacia narrativamente con la loro solitudine, restituendo la fragilità e il conflitto, a volte manifesto e a volte no, ma comunque sempre presente, tra i suoi protagonisti e il corpo che abitano.
Un approccio simile al disegno lo aveva mostrato anche Paolo Cattaneo, autore già veterano, che ha influenzato diversi dei fumettisti emersi negli ultimi anni. Come in Vila, anche in Cattaneo il racconto del personaggio passa attraverso la “morfologia” del suo aspetto. In L’estate scorsa (Canicola 2015) guarda a Il corpo di Stephen King e racconta l’avventura di un manipolo di adolescenti, ambientata negli anni Novanta in un bosco. Il segno a grafite riporta acne e apparecchi, denti storti e peli fuori posto, ma anche un’attenzione maniacale all’oggettistica, ai vestiti e ai dettagli d’epoca che attraversa tutta la produzione dell’autore.
Più di recente, per esempio, in Non mi posso lamentare (Rizzoli Lizard 2019) Cattaneo ha raccontato la parabola di Danilo, malato terminale, e della compagna Tanya, in attesa di una figlia che forse Danilo non potrà mai vedere. Anche in questo caso il racconto passa attraverso le vite comuni di sconfitti con un feticismo per console, marche di abbigliamento, automobili, pupazzetti e la cultura di massa in generale che l’autore condivide con i suoi protagonisti. Questa sovrabbondanza visiva quanto narrativa accomuna Vila e Cattaneo, ma se per il primo genera un senso di distacco, in Cattaneo diventa gancio emotivo di vicinanza. In Non mi posso lamentare c’è un’ironia che non è sarcasmo, ma reale confidenza con il microcosmo che l’autore descrive con indulgenza e sincero affetto per le idiosincrasie dei suoi personaggi e dell’epoca che vivono o hanno vissuto e che non riescono – né vogliono – lasciarsi davvero alle spalle.
Di Cattaneo forse è passato soprattutto, alla generazione successiva di autori, l’approccio grafico come mezzo di indagine di personaggi e spazi: il design caricaturale e eccessivo, che a sua volta trovava nell’illustratore genovese Macchiavello un modello, la capacità di restituire un’estetica del trash e del marginale, l’attenzione al reale e al kitsch unita alla tendenza al grottesco e al parodistico.
L’immaginario di Martina Sarritzu porta in sé molti riverberi di Cattaneo, ma sposta l’attenzione al paradossale. La riviera riminese riecheggia dell’horror vacui di Jacovitti, strabordando di grandiose feste in spiaggia o balere dimenticate, di personaggi sgradevoli e subdoli, di corpi segnati, sgraziati e imperfetti, ma comunque eroticizzati e provocanti. C’è in questo gioco il cortocircuito tra realtà e rappresentazione, tra i corpi reali che abitano questi luoghi e quelli raccontati dall’immaginario camp delle cartoline delle edicole della riviera protagoniste di Vacanze in scatola (Canicola 2020), una storia a fumetti sceneggiata da Tuono Pettinato nella quale l’autrice esplora il proprio immaginario declinandolo e dedicandolo all’infanzia. Si sente l’eco perturbante dell’illustratrice svedese Emelie Östergren, che lavora sull’immaginario della fanciullezza e sulla fluidità di quell’età, la possibilità di mutare e trasformarsi.
Sarritzu prosegue poi quest’esplorazione da autrice unica nell’antologia A.M.A.R.E., sempre per Canicola, dove recupera la provincia riminese ma in chiave meno grottesca, rinunciando al colore in favore di un disegno a matita meno pop. Il tema del passaggio dell’adolescenza coincide con la perdita di un’amicizia, la stessa perdita dell’innocenza attraverso l’esperienza che ha dovuto affrontare anche P. e il gruppo di ragazzi de L’estate scorsa. Spesso il racconto della provincia è anche il racconto del suo abbandono, dell’emancipazione da essa.
Albertini, Juta, Vila e Sarritzu non sono che una parte di una scena ben più ampia che, con i dovuti distinguo, condivide linee di dialogo contenutistico e estetico. Una scena che ha trovato ampio consenso critico: basti l’esempio recente di A.M.A.R.E., che è stato premiato con il Gran Guinigi nella categoria miglior fumetto breve all’ultima edizione di Lucca. L’influenza di Canicola sugli autori di formazione bolognese, come quella di Cononino, soprattutto tramite l’opera di Gipi, ha indirizzato la tendenza verso volumi principalmente di realtà e di forte taglio biografico, ma non mancano altre spinte e un fumetto che sia sì d’autore ma più apertamente fantastico: il surrealismo di Andrea De Franco, il gioco divertito di Lorenzo Mò, la riflessione metanarrativa di Fabio Tonetto o l’estetica shonen-punk di Davide Minciaroni sono solo alcuni esempi.
Ma questa proposta mi sembra che non abbia la sistematicità di una scena, sia perlopiù affidata a iniziative personali, meno codificate all’interno del contesto editoriale e quindi inevitabilmente più sparse, attraverso le quali è difficile ipotizzare delle traiettorie comuni e definire un orizzonte coerente.
La provincia, che sia gotica e misteriosa come in Bambino paura, glamour-kitsch come in A.M.A.R.E. o algida come in Padovaland è, almeno ai miei occhi, un topos centrale della narrativa contemporanea a fumetti, uno spazio di dialogo e confronto per molti autori. Forse la sua fortuna svela anche la difficoltà o l’apparente rinuncia a una narrazione di grande respiro e apertamente trasversale in favore di un intimismo che risponde a una necessità d’analisi identitaria e dell’identità del luogo d’appartenenza: il racconto in ultima del conosciuto e conoscibile, che oggi più di ieri risulta il privato.
Questo si intreccia con un fenomeno cardine della contemporaneità il passaggio da un concetto ampio come quello di massa, che ha caratterizzato il Novecento, a quello ristretto di nicchia, questo vale sia per l’autore che può sentirsi più monade rispetto ad esempio agli anni ‘70, che hanno visto la nascita di movimenti e gruppi organizzati come Frigidaire o Métal Hurlant, che per il lettore, che come detto in apertura del pezzo intreccia in diversi casi un dialogo quasi privato con l’artista anche attraverso i social. D’altra parte il personale e soprattutto il corpo, e in questo senso Fumettibrutti è un esempio emblematico, conserva un’ambivalenza centrale: è lo spazio di racconto dell’intimità per eccellenza, ma al tempo stesso un luogo politico fondamentale dell’oggi.
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