L’occhio del critico
Class enemy inquieta perché al cinema nessuno fino a oggi ci aveva sbattuto in faccia con tanto gelido rigore e in maniera così problematica l’assurda impasse nella quale ci troviamo invischiati. Il film di Biček è il trionfo del relativismo nell’epoca in cui i ruoli tradizionali – padri e figli, adulti e adolescenti, maestri e allievi – si sono ribaltati. È un film sull’“umano”, privo di qualsivoglia approccio sociologico e intento moralistico. Lo sloveno Biček si limita a osservare l’esito terminale della Grande Mutazione, senza curarsi di indagarne le cause, raccontando una vicenda nella quale vengono a convergere tutte le linee di forza che quotidianamente ci lacerano e che ci lasciano di fronte allo specchio in una zona d’ombra, incapaci di riconoscerci nei padri e al tempo stesso distanti anni luce dai figli. Non si tratta dei conflitti fisiologici e necessari che hanno contrapposto le generazioni che si sono avvicendate per secoli, ma del prodotto di un momento assolutamente unico nell’evoluzione dell’umano che abbiamo la ventura o la sventura, a seconda dei punti di vista, di vivere in prima persona. La rivolta scatenata dalla classe dopo il suicidio di Sabina non ha niente a che vedere con l’esplosione d’irrefrenabile vitalismo anarchico e antiautoritario che abbiamo visto, dai fratelli Marx a Vigo a Lindsay Anderson, in tanti film sull’istituzione scolastica come sistema-mondo chiuso e repressivo. Da quando le generazioni hanno smarrito, svuotato di senso o pervertito i propri tratti peculiari, la propria identità, lo stesso processo di crescita dell’individuo sembra essersi arenato alle soglie della maturità. L’adolescenza è oggi la mascherata carnevalesca del Divertimento Perenne, di fronte alla quale gli adulti – i maestri – s’arrendono, s’inchinano e depongono le armi, ancora attuali ed efficaci fino a qualche tempo fa, del rispetto e del timore verso l’autorità, dell’educazione intesa come preparazione alle intemperie della vita. Il convergere dell’umano verso l’Eterna Adolescenza, o meglio, verso le sue caratteristiche più conformiste, esteriori e superficiali, ha creato un mondo artificiale e privo di senso, dove il cielo deve apparire sempre più blu e dove tutto è uguale a se stesso, i padri ai figli, gli adulti agli adolescenti, i maestri agli allievi. Ma una società basata sull’appiattimento degli opposti, sull’autoassoluzione, sull’autocommiserazione, sul bisogno consolatorio di sentirsi capiti e accettati, sull’espulsione del tragico – momento fondamentale e strutturale di ogni processo di crescita – e sulla rimozione della scelta – prerogativa distintiva dell’umano dall’animale –, non ha nessuna speranza di evolversi e finisce per avvitarsi su se stessa nell’eterno girotondo degli egoismi, delle ipocrisie, dell’incapacità di affrontare quel “negativo” che presto o tardi la travolgerà, spazzandola via come un fiume in piena.
La scuola è il microcosmo nel quale tutto ciò può essere osservato quasi in vitro. Ed è questa l’operazione compiuta da Biček, che conferisce al suo film una costruzione drammatica pressoché perfetta nel delineare un reticolato di campi di forza che si contrappongono, ma il cui scontro produce un esito nullo. Un falso movimento.
L’arrivo di Robert Zupan, il rigido e austero supplente di tedesco che parla di Thomas Mann, che esige disciplina, impegno e capacità di rielaborazione personale, in una scuola superiore slovena in cui gli studenti sono abituati a essere coccolati, vezzeggiati e blanditi da un corpo docenti che riproduce al suo interno le stesse dinamiche adolescenziali del gruppo classe, rappresenta il capro espiatorio ideale del suicidio della timida Sabina. Il tragico evento funge da detonatore per l’insofferenza degli studenti verso il metodo didattico adottato dal nuovo insegnante, che viene colpevolizzato, accusato di essere un nazista e reso oggetto di provocazioni che finiscono per coinvolgere l’intera istituzione scolastica. Ma ben presto l’insicurezza, l’incapacità di prendere una decisione comune, gli egoismi, le debolezze personali prendono il sopravvento e il fronte degli studenti più esagitati si spacca, mettendo a nudo l’inconsistenza e il generico infantilismo della rivolta.
Il suicidio di Sabina diventa in breve la maschera dietro la quale tutti si nascondono. Nel caso di un evento così tragico, di fronte al quale tutti sono al tempo stesso colpevoli e innocenti, ci si potrebbe chiedere dove stiano il torto e la ragione, e provare a mettere i relativi pesi sulla bilancia. In un film profondamente dialettico, problematico e complesso, così com’è la vita, dove nulla è mai del tutto bianco o nero, chi fa la peggior figura sono i personaggi apparentemente di contorno, e cioè i colleghi insegnanti, la preside e i genitori. Adulti solo per l’anagrafe, in realtà adolescenti mal cresciuti, tutti dediti alle proprie meschinerie e timorosi di salvaguardare interessi personali e rispettabilità. Gli studenti, pronti a strumentalizzare la morte della compagna, della quale non conoscono neanche il cognome, per protestare contro il sistema scolastico, accettato di buon grado fino a qualche tempo prima, quand’era ancora improntato sul permissivismo e sulle moine della professoressa di ruolo, hanno dalla loro la giovane età, il sentirsi costantemente sotto pressione nei confronti dei cosiddetti adulti e la non-colpevolezza di essere allevati ed educati da famiglie e insegnanti eccessivamente indulgenti, che fanno di tutto per giustificarli e per tenerli sotto una campana di vetro, al riparo dalla spietatezza e dalla crudeltà del mondo esterno. Avulsi dalla realtà, di cui tuttavia assorbono inconsciamente tensioni e paure, gli adolescenti vivono un presente posticcio, una finta quiete dorata pronta a deflagrare al minimo turbamento. In un simile contesto, il temibile professore Zupan è l’intruso, l’alieno proveniente da un’altra epoca, l’unico vero “adulto” che osa fare il suo lavoro, e cioè insegnare la sua materia, pretendere che gli studenti si applichino e che, attraverso l’impegno e la riflessione, possano, alle soglie della maturità, trovarsi corazzati nell’affrontare i flutti della vita. La sua colpa non sta nell’aver parlato duramente a Sabina, dandole della potenziale fallita allo scopo di motivarla nel coltivare il proprio talento, ma piuttosto nel non aver colto la sua fragilità, e soprattutto nel non aver compreso la radicale alterità e la non-conciliabilità della propria visione del mondo, e quindi del suo metodo d’insegnamento pre-sessantottino, in relazione al mutato contesto sociale.
Class enemy non offre soluzioni e non giudica ma affonda come un bisturi nel cadavere del corpo sociale, risultando infine impregnato di plumbeo pessimismo. Dopo l’abbandono del professor Zupan, che lascia la classe constatando il fallimento del suo tentativo di far sì che il suicidio di Sabina potesse diventare occasione di maturazione collettiva per la classe, la sequenza finale, con la nave che porta studenti e insegnanti in gita in Grecia, tutti quanti alla deriva, maschere all’insegna del Divertimento Perenne, è attraversata dal fantasma di Sabina. Non vittima, così come vorrebbero i compagni, e neanche carnefice, come vorrebbe l’amica del cuore che l’accusa di averla abbandonata. Ma forse la più umana. L’unica ad aver saputo compiere, nell’annichilimento di sé, una scelta radicale. Giusta o sbagliata che sia, non importa.