Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Lo Scugnizzo Liberato: svegliarsi,
essere “bussati”, rispondere

9 Novembre 2022
Cristiano Ferraro

Io vengo da una realtà che a breve si accinge a fare sette anni, lo Scugnizzo Liberato.
Lo Scugnizzo fa parte degli spazi che sono stati occupati nella stagione politica del sindaco De Magistris, una stagione segnata da diverse occupazioni. Noi come gruppo venivamo da una campagna di riappropriazione urbana che ci aveva portato in giro per diversi quartieri di Napoli e ci interrogavamo se ci fosse o no una ventata di voglia di partecipazione oltre le retoriche che stavamo vivendo in quel periodo.


I nostri alleati in questo percorso sono stati principalmente le bambine e i bambini: quando siamo intervenuti in una villetta a Marianella o in un altro spazio abbandonato alla Sanità abbiamo trovato sempre alleanze con i ragazzini che vivevano in quei territori, che si rendevano conto che erano posti in cui non si stava bene e si poteva fare altro.
Ci siamo mossi per diverse tappe finché non siamo arrivati al centro di Napoli, a Montesanto, dove c’era stata una lunghissima storia di attivazione degli abitanti.
Io penso che alle volte le cose richiedano molto tempo per produrre effetti visibili. Quando abbiamo occupato la struttura dell’ex carcere Filangieri, che era stato a lungo il carcere minorile di Napoli, ci hanno aiutato quelli che erano stati i bambini della “Mensa dei bambini proletari” di Napoli e che nel frattempo erano diventati adulti proletari e quelli che erano stati da ragazzini nell’esperienza del centro sociale del quartiere cioè il DAMM. Ci siamo quindi ritrovati ad incontrarci con una serie di persone che avevano attraversato esperienze del genere nella loro storia personale e sapevano quello che provavamo a fare e che tipo di realtà eravamo.
Allo Scugnizzo alcuni di noi venivano da esperienze di laboratori politici ma quando ci siamo trovati ad avere a che fare con un posto così grande – parliamo di un edificio di 14mila metri quadri – e con tutta una serie di difficoltà sociali, questa complessità ha rotto gli schemi ideologici dei gruppi pregressi di cui avevamo fatto parte.


Ci siamo fatti delle domande, alcuni temi ti bussano alla porta dalla realtà che incontri e su questi ti devi interrogare insieme agli altri. Un giorno ad esempio avevamo ridipinto e risistemato una grande parete dello spazio ed eravamo tutti contenti, ad un certo punto entrano questi ragazzini e bam! Schiacciano delle uova su questo muro che avevamo appena fatto!
Questo episodio è stata una prima svegliata per noi sulla necessità di coinvolgerli nelle cose. Da lì in poi con le bambine e i bambini del quartiere abbiamo stretto forti legami iniziando ad ospitare le loro feste.

Il budda delle periferie
Lo Scugnizzo è un posto che ha una collocazione particolare, è al centro di due quartieri diversi: da un lato dà su Montesanto, un quartiere dove c’è una forte comunità capoverdiana, dall’altro sul Cavone dove c’è la più forte densità abitativa in Europa di abitanti srilankesi.
Questa collocazione ci ha spinto a metterci in relazione con comunità che portavano prospettive e bisogni diversi da quelli che noi ci immaginavamo.
Ad esempio ad una assemblea sono venute alcune persone srilankesi e ci hanno detto “noi vorremmo pregare e vorremmo un posto”. Apriti cielo! Fra di noi c’erano le posizioni più diverse: alcuni erano più o meno anarchici, più o meno comunisti, tutti poco inclini a fedi religiose. Da questa richiesta è nata una lunga discussione politica che è durata fino a quando le persone ci hanno chiesto “volete venire a vedere dove preghiamo?” e ci hanno invitato in un basso dove non riuscivamo nemmeno ad entrare, dove c’erano moltissime persone e molti bambini, senza nessuna norma di sicurezza, e loro ci dicono “noi preghiamo qua”. Così abbiamo ripensato a tante cose che dicevamo senza aver visto la realtà. Seduti là nel basso ci hanno spiegato un po’ della loro religione, molti di noi onestamente non sapevano nulla del buddismo e delle sue sfaccettature. Ho riflettuto allora che era la prima volta che eravamo noi ad ascoltare persone che venivano da un’altra parte del mondo e che loro ci insegnavano qualcosa, non eravamo noi ad insegnare agli altri le nostre certezze. È stato un passaggio importante. Questa è una delle tante lezioni che abbiamo imparato in questi anni facendo attivismo nel quartiere.

Trovare un posto per il lavoro
Un’altra “bussata” che abbiamo ricevuto è stata quella degli artigiani del territorio che ci hanno detto “noi abbiamo lo sfratto, ci date uno spazio per continuare a lavorare?”. Questi artigiani venivano sull’onda di un problema storico a Napoli.
La nostra economia, che era stata in passato molto basata sull’artigianato, è stata stravolta da un periodo di cambiamento economico e produttivo che ha portato alla costruzione di grandi fabbriche. Queste fabbriche hanno significato tanto per le famiglie che ci sono andate a lavorare: io ad esempio sono cresciuto con mio nonno che era un metalmeccanico e questa cosa ha rappresentato per la mia famiglia la possibilità di un certo benessere. Ma quando la fabbrica è venuta meno con la stagione delle grandi dismissioni, era stato già distrutto anche il piccolo artigianato locale che ci aveva tenuto in vita prima di quella stagione.


A ciò si sono aggiunte anche le trasformazioni urbane: negli ultimi tempi i quartieri dove c’erano storicamente produzioni artigianali hanno avuto un forte aumento degli affitti perché si è preferito favorire attività commerciali per il turismo. Quindi anche chi continuava a fare il restauro, la vetrata classica napoletana, etc. etc., non aveva più la possibilità di mantenere la propria bottega a causa della gentrificazione e della brandizzazione della città.
Bisogna stare attenti a certe nuove narrazioni di Napoli. Io ho fatto parte di una generazione che aveva la necessità di scrollarsi di dosso una certa immagine della città. Quando eravamo ragazzini e andavamo in altre città ci dicevano che eravamo sporchi, che tenevamo l’immondizia, che facevamo schifo. Tutto questo ha portato nella mia generazione la voglia di creare un immaginario diverso ma non è un processo che abbiamo potuto controllare nelle sue contraddizioni che hanno portato a una narrazione che nega i problemi di una città nascondendoli dietro una immagine da vetrina.
La presenza degli artigiani ci ha posto il problema di costruire spazi condivisi fra molte attività e nei quali le persone hanno la necessità di lavorare e farlo insieme.

Da vicino
Abbiamo capito che nel quartiere c’era una grossa diffidenza verso la comunità srilankese, dovuta anche alla paura di mostrarsi e a una non conoscenza reciproca.
Abbiamo sentito l’esigenza di fare delle feste che non fossero solo di natura religiosa ma momenti per passare del tempo insieme e per mangiare insieme. Questa cosa ha funzionato, siamo riusciti a scardinare alcune rappresentazioni sociali che si erano andate creando. Alcune di queste rappresentazioni le abbiamo scoperte stando con i ragazzini. Io l’ho capito giocando con un ragazzino a biliardino che mi diceva “eh, gli srilankesi sono tutti ricchissimi, c’hanno i soldi” descrivendoli quasi come i nazisti descrivevano gli ebrei.
L’incontro ha scardinato le distanze, così come il lavorare materialmente insieme. Ci teniamo molto che ci sia un momento, solitamente il sabato mattina, dove si lavora insieme per il posto, al di là delle nostre differenze e delle differenti attività che svolgiamo dentro lo Scugnizzo.
Abbiamo ospitato degli incontri su temi profondamente divisivi, ad esempio sulla pandemia, dove si sono presentate persone di ogni genere, ma si è riusciti a parlare nonostante la polarizzazione fortissima della società in altri spazi.


Abbiamo cercato di favorire forme di incontro in cui ognuno mette in gioco pezzi di sé.
Spesso si dice anche con disprezzo che la Meloni parla alle emozioni delle persone, però bisogna anche capire come parlare alle persone su questo piano, perché per quanto possiamo fare analisi importanti o anche diverse, è fondamentale riuscire anche ad incontrarsi sul piano delle emozioni e non solo cercare di convincere gli altri a stare sulle nostre ragioni.

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