L’isola dei fucili. Migranti di ieri, migranti di oggi

di Amitav Gosh
incontro con Anna Nadotti e Norman Gobetti
(disegno di Armin Greder tratto da Noi e loro, Else edizioni 2019)
Nei tuoi ultimi libri (e forse non solo negli ultimi), anche ne L’isola dei fucili (Neri Pozza 2019), il meticciato linguistico è un tratto molto evidente. È chiaro che non si tratta solo di pastiche lessicali. È come se nelle tue opere le lingue assumessero un corpo e diventassero protagoniste. Ci sembra una scelta oggi di grande rilevanza politica e culturale.
Sebbene io scriva in inglese, la mia sensibilità linguistica si è forgiata nel pluralismo linguistico del subcontinente indiano. Tali circostanze, con il loro potenziale creativo, hanno avuto un’influenza profonda, anzi direi formativa, sulla mia opera. Il problema di come riprodurre in un’unica lingua una realtà multilinguistica sottostà in un modo o nell’altro a tutta la mia opera, e a seconda dei periodi ho raccolto questa sfida in modi diversi.
Per me è sempre stato evidente che non può esserci alcuna soluzione naturalistica, e tanto meno “realista”, ai dilemmi letterari posti dalla fluidità del paesaggio linguistico del subcontinente. Cercare di restituire sulla pagina l’intero spettro delle lingue in gioco è semplicemente impossibile. Ne consegue che le uniche soluzioni possibili sono di tipo formale: vale a dire che la pluralità linguistica dev’essere suggerita retoricamente e non naturalisticamente. All’inizio, ad esempio quando stavo scrivendo il romanzo Le linee d’ombra, ho adottato un approccio influenzato da Proust. Ho cercato di rendere la narrazione completamente interiore, e così è diventata un collage di ricordi frammentari; le scene e anche la conversazioni venivano raccontate come brandelli di memoria in cui il tessuto linguistico è stato smussato dal tempo.
In seguito mi è parso di poter trovare soluzioni migliori, ovvero più stimolanti o eleganti, in altre dimensioni della lingua, ad esempio la prosodia, la lingua e il metro. Con i tre romanzi della Trilogia della Ibis – Mare di papaveri, Il fiume dell’oppio e Diluvio di fuoco – mi sono mosso in una direzione del tutto diversa. Questi romanzi sono ambientati in molti luoghi nell’area dell’Oceano Indiano, e presentano una molteplicità di personaggi eterogenei come quelli che realmente all’epoca popolavano i “mondi fluttuanti” dei mari orientali. In questo universo riccamente multilinguistico quasi ogni singolo personaggio aveva un’identità linguistica complessa.
Oggi questi esperimenti letterari sono più che mai necessari, perché ci troviamo in una nuova era, l’Antropocene. L’intensificarsi del riscaldamento globale negli ultimi decenni è di per sé un effetto dell’accelerazione generale: nel movimento di merci, persone, macchinari e informazioni, nonché nel ritmo delle estinzioni, dei dislocamenti forzati e del collasso ecologico. Tutti processi che hanno già avuto un impatto profondo, sebbene largamente ignorato, sulla lingua e sulle pratiche letterarie.
L’opinione pubblica europea assiste con grande apprensione all’ascesa economica e politica della Cina. Leggendo la trilogia della Ibis si ha modo di conoscere il retroterra storico dei rapporti fra Europa e Cina, un tema poco presente nella consapevolezza dei cittadini europei, e che forse ci aiuta a comprendere meglio come si è giunti alla complessa situazione attuale.
Ci sono molti curiosi paralleli fra la la bilancia commerciale odierna e quella del Settecento e dell’Ottocento: allora, come oggi, il mondo occidentale aveva un enorme deficit commerciale con la Cina. Fu per questo che la Compagnia delle Indie orientali britannica cominciò a esportare oppio verso la Cina su larga scala, con conseguenze catastrofiche per quel paese. Alla fine naturalmente gli inglesi dichiararono guerra alla Cina in nome del Libero Mercato, ma il principale prodotto che loro esportavano, l’oppio, veniva prodotto nella Bengal Presidency in regime di monopolio di stato! Mi meraviglia che oggi i politici e i loro consiglieri continuino a usare lo stesso linguaggio ottocentesco quando parlano di Libero Mercato: è come se questa idea non avesse un passato, non avesse una storia.
L’Occidente ha sempre avuto un grande talento nel dimenticare le proprie malefatte e nel ricordare quelle degli altri. Questa amnesia ha, io credo, un costo terribile. Poche persone oggi rammentano che le guerre dell’oppio vennero combattute in nome del Libero Mercato. Talvolta mi chiedo se gli ideologi che disquisiscono delle virtù del Libero Mercato siano consapevoli degli orrori provocati da questo complesso di idee. Per quanto gli occidentali non siano gli unici che hanno preferito dimenticare questo capitolo della storia. Anche gli indiani hanno completamente dimenticato il proprio ruolo nel commercio dell’oppio. Le sofferenze inflitte alla Cina attraverso l’oppio indiano rappresentano uno dei più grandi crimini della storia dell’umanità, e io ritengo che gli indiani debbano fare i conti con questo aspetto del loro passato. Rabindranath Tagore, il poeta indiano cui fu attribuito il premio Nobel nel 1913, una volta scrisse: “È diventato sempre più evidente che al di là dei confini d’Europa la fiaccola della civiltà non intendeva portare luce ma appiccare incendi. Così è accaduto che pallottole di oppio sostenute da palle di cannone fossero dirette al cuore della Cina, un’atrocità di cui la storia non aveva mai conosciuto l’eguale…”
Tra la guerra in Iraq e la guerra dell’oppio ci sono chiari parallelismi, soprattutto nei discorsi che le hanno giustificate. C’è tutta questa retorica evangelica, queste presunte buone intenzioni: “Stiamo agendo per il bene del mondo”. Ma sotto tutto questo c’è una mostruosa violenza, una mostruosa avidità e cupidigia. Ho scritto la Trilogia della Ibis in un periodo in cui questo tipo di ideologia capitalista era allo zenit, e si era convinti che il mercato fosse Dio. In tale contesto, mi colpiva che nessuno si rendesse conto che per i liberisti il primo e più importate banco di prova era stato l’oppio. Tutto ciò è stato cancellato dalla memoria.
Anche i rapporti fra India e Cina sono al centro della trilogia della Ibis. Oggi in Europa l’ascesa dell’India appare molto meno minacciosa di quella della Cina. Si sottolinea come l’India sia una democrazia mentre quello cinese viene considerato un regime dittatoriale. Ma c’è davvero una differenza sostanziale fra l’autoritarismo degli attuali governi cinese e indiano (nonché di molti governi occidentali)?
Sì, è vero che la “comunità globale” tende a vedere più favorevolmente l’India che la Cina. Ciò ha molto a che fare con la storia del nazionalismo indiano e in particolare con l’eredità di Gandhi. Ed è fuor di dubbio che l’India appaia all’Occidente molto meno minacciosa della Cina. Anche questa visione ha una lunga storia. Già nel Settecento gli inglesi consideravano i cinesi come i loro unici seri concorrenti per il ruolo di “razza superiore”. Il fatto che la Cina fosse un impero unitario è uno dei motivi per cui non ci fu alcun serio tentativo di conquistarla da parte dell’Occidente. Gli indiani invece furono sottomessi con grande facilità e finirono per essere considerati “docili”. Questa è una delle ragioni per cui gli inglesi ritenevano che fossero particolarmente adatti al lavoro coatto. Oggi il fatto che l’India venga spesso definita la più grande democrazia del mondo gioca potentemente in suo favore. Ma di fatto, come è sempre più evidente, l’India sta diventando una sorta di dittatura della maggioranza molto repressiva e intollerante. È una situazione difficile e minacciosa.
Una delle aree in cui più si concentrano gli investimenti (non solo economici, ma anche culturali e formativi) cinesi è il continente africano, che è stato a lungo uno dei poli del colonialismo europeo e oggi è il luogo di provenienza di una gran parte dei migranti che cercano di arrivare in Europa. In questo scenario in continuo mutamento gioca un ruolo fondamentale anche il cambiamento climatico, che è al centro dei tuoi due ultimi libri, il saggio La grande cecità e il romanzo L’isola dei fucili. Un groviglio quasi inestricabile.
Europa e Africa sono inestricabilmente connesse fin dal periodo ellenistico e dall’epoca dei faraoni. L’eredità di cinquecento anni di interventi europei in Africa, dalla tratta degli schiavi al colonialismo e, più di recente, l’apartheid e il neocolonialismo, hanno profondamente destabilizzato l’intero continente. Quando si guarda a questa realtà è difficile distinguere i diversi fattori. Per esempio, una prolungata, terribile siccità ha colpito il Sahel e la Somalia. Nello stesso periodo, l’eccesso di pesca nel Mare Arabico ha portato alla drastica diminuzione delle riserve ittiche privando dei mezzi di sostentamento moltissime persone, che di conseguenza hanno dovuto ripiegare sulla pirateria. Ma questa è anche la regione in cui le potenze europee hanno scaricato tonnellate di scorie radiottive. L’insieme di questi fattori ha creato un letale circolo vizioso, influendo sulla vita di milioni di persone. Solo una piccola percentuale tenta di attraversare il Mediterraneo, per la maggior parte si riversano nei paesi confinanti. Ma col passare del tempo è inevitabile che gli effetti di questi dislocamenti forzati si ripercuotano su tutto il mondo. Oggi ci sono città della Cina che hanno centinaia di migliaia di lavoratori immigrati africani.
La migrazione verso l’Europa è il tema centrale del tuo ultimo libro, L’isola dei fucili. È evidentemente un argomento all’ordine del giorno, ma il modo in cui tu lo affronti è molto peculiare. Da un lato trai ispirazione da, e ti attieni a, avvenimenti di stretta attualità, dall’altro l’impianto romanzesco si sviluppa intorno a snodi narrativi (presagi, coincidenze, apparizioni, eventi quasi miracolosi) in cui è presente una dimensione di mistero e trascendenza inafferrabile con gli strumenti della razionalità.
Sì, la migrazione verso l’Europa, e l’Occidente nel suo complesso, è uno dei temi centrali del libro. Scrivendone ho ampiamente attinto alle mie conversazioni con migranti arrivati n Italia attraverso il Mediterraneo. Per me queste conversazioni sono state esperienze davvero rivelatrici. Ho scoperto che i processi migratori sono molto più complessi di quanto avessi immaginato. Dietro ogni viaggio c’è una molteplicità di cause: il clima, necessità economiche, coincidenze, dinamiche famigliari, fantasie, tecnologia, amicizie, inimicizie, solidarietà… Ogni storia è un’epopea.
Una volta, a Roma, stavo camminando dietro un italiano in sedia a rotelle spinto da un badante bangladese. L’italiano parlava delle sue “avventure”, che consistevano fondamentalmente in viaggi turistici in vari paesi del mondo. Mi venne da pensare che le avventure del badante sarebbero state molto più interessanti…
L’isola dei fucili si svolge in buona parte in Italia, paese che negli ultimi anni frequenti abitualmente e di cui ormai parli benissimo la lingua. La tua attenzione al nostro paese un po’ ci lusinga e un po’ ci sorprende.
Be’, Anna, la ragione per cui nel corso degli anni ho continuato a venire in Italia è che fin dal mio primo libro ho ricevuto un’accoglienza molto calorosa. Di ciò, tu sei in non piccola parte responsabile, sia perché mi hai dato una voce che gli italiani apprezzano, sia perché la nostra amicizia è stata un grande dono (e per questo il mio ultimo libro è dedicato a te, e a Irene Bignardi, anche lei mia amica da trent’anni). Devo dire che ho quasi altrettanti amici in Italia che in India! Credo fosse inevitabile che prima o poi scrivessi qualcosa ambientato in Italia.
Una delle cose che più ci ha colpito in L’isola dei fucili è il fatto che non temi di esporti a possibili accuse di “ingenuità”. Nel tuo libro ci sono buoni e cattivi, mentre, almeno in Italia, nel trattare questo tipo di argomenti si tende a rifugiarsi dietro una maschera di distacco, se non di cinismo. Il tuo è un approccio che impone di riflettere e interrogarsi. Sottolinea il dovere di farsi le giuste domande oltre che cercare delle risposte.
Se il mio approccio sembra ingenuo è perché la scrittura occidentale contemporanea è ormai intrappolata in gabbie sovrapposte di ironia e cinismo. Io non voglio avere assolutamente nulla a che fare con questo tipo di scrittura. Quindi è inevitabile che per contrasto una voce narrante come quella dell’Isola dei fucili susciti sconcerto. Una volta si poteva credibilmente sostenere che l’ironia fosse sovversiva, un mezzo per criticare il potere, ma oggi vediamo che in tutto il mondo l’ironia è ormai un’arma in mano alla destra, ai conservatori e ai razzisti. Sono davvero riusciti a perfezionare l’arte dell’ironia: l’universo digitale della destra pullula di ironia violenta. In questo contesto credo sia estremamente necessario che gli scrittori trovino altre voci.