“L’innocenza”: salvare il domani nell’ultimo film di Kore-eda Hirokazu
Arriva nelle sale italiane l’ultimo film del regista Kore-eda Hirokazu insignito del premio alla miglior sceneggiatura nell’ultimo Festival di Cannes 2023. Sui cartelloni appare titolato “L’innocenza” mentre in originale è “Monster”. È a partire da questo incastro traditore che può avviarsi la lettura di un’opera notevole, commovente, significativa. Chi è innocente non ha nuociuto e non nuocerà, non ha fatto o non conosce il male mentre mostro è per ciascuno colui che ti spaventa, minaccia, pare abnormale. Nel film di Kore-eda tutti i personaggi sono un mostro per qualcun altro, fanno male a un altro in maniera per lui o lei inesplicabile e gli o le appaiono spaventosi e fondamentalmente incomprensibili o equivoci. L’innocenza è solo l’aspirazione a ricrearsi, a tornare indietro per riaccedere a uno stato originario di pace e di intesa.
Questo complesso discorso non è dimostrato in una narrazione di rigorose corrispondenze come in un giallo à la Rashomon ma trasmesso musicalmente, in una composizione della sceneggiatura che attraversa movimenti molto diversi.
Il film si apre nella casa di Saori e Minato, madre e figlio preadolescente che hanno affrontato assieme la scomparsa precoce del papà e tra i quali, si intuisce anche dal disordine vivo, vero e tollerabile degli ambienti domestici, c’è intesa, capacità di scherzare e di godere della reciproca compagnia. Ma sulle soglie della fine dell’infanzia tutto questo si adombra, crescono zone di silenzio, tempi e relazioni sottratti al vincolo comune. Minato inizia a stare male, si taglia i capelli, perde una scarpa, si ferisce, piange, pone domande inquietanti.
La mamma è piena di tatto, ha un modo sapiente e commovente di stare accanto e infine affronta con coraggio la scuola, quando pare che tutto questo malessere dipenda dal nuovo maestro. Forse è un mostro che insulta e picchia; di certo mostruosa appare la scuola nei suoi meccanismi di autotutela, omertà, ritualità e nell’incapacità di facilitare un dialogo per la costruzione congiunta del consenso sul significato degli avvenimenti.
L’impossibilità di convenire su una visione sensata degli eventi crea sempre più inquietudine nelle spettatrici e spettatori e va crescendo man mano che scopriamo l’impotenza della mamma, l’ambiguità della preside e delle azioni intraprese dalla scuola. All’acme del disagio la storia s’interrompe e ripercorriamo il nastro del tempo da un altro punto di vista, quello del maestro: allora mostruosi ci paiono altri e altre, lo stesso Minato, il suo amico o i suoi compagni, la preside, i ragazzini nell’uso dei social e una fidanzata tanto amata quanto frivola.
E poi non si può dire altro, per non guastare il piacere del turning point quando ancora una volta il nastro del tempo riprende a tutt’altra velocità, in un terzo movimento che tocca altri passaggi e snodi, dove il film si fa degno e voluto omaggio al grandissimo maestro giapponese della narrazione dell’infanzia e dei mondi possibili Hayao Miyazaki.
La morte nel film è onnipresente – morte del burattino ossia del bambino diverso; morte della complicità in famiglia “allo scoccar del vero”; morte dell’innocenza stessa – e però è anche ogni volta rimandata e sconfitta, allontanata dagli slanci di desiderio generoso di evadere dal punto di vista limitato e costretto dal campo di esistenza in cui siamo finite come adulti che hanno avuto esperienze affettive, sociali, istituzionali che ci hanno strutturato, amputandoci e limitandoci, inevitabilmente definendoci.
Guardiamo la realtà ciascun attraverso un cannocchiale ereditato dalla storia personale e familiare, possiamo vedere nettamente solo un momento e uno spicchio del quadro e ciò fa sì che l’interpretazione della scena generale e del ruolo di ciò che ci entra sia parziale, allucinata, mostruosa. Da questa parzialità, emotivamente e socialmente costretta, possiamo uscire soltanto con uno sforzo di amore e di ascolto, solo la mamma e solo il maestro – un professionista bistrattato e umile e fallibile – possono assieme trovare la strada per arrivare forse comprendere che siamo tutti mostri, in misura e modo diverso non innocenti ma un tempo di certo bambini.
Fuori, lontano dalla scuola, dagli appartamenti, dalle strade; nella natura e tra le colline che Miyazaki ha disegnato e qui sono riprese, nei tunnel franati sulle porte del tempo e della verità, si accede finalmente allo scioglimento di gangli esistenziali e generazionali, si riesce a immaginare una possibilità di diventare grandi, non innocenti o felici ma migliori di chi è venuto prima.
Illuminano le scene due attori poco più che bambini straordinari e si fa tangibile l’indicazione a lasciare all’’infanzia luoghi riparati e oscuri agli occhi degli adulti ma da loro protetti e salvaguardati, luoghi in cui divenire senza essere brutalmente segnati. A questo proposito la scuola è l’ambiente rappresentato in maniera più enigmatica e grave, dove inevitabilmente si subiscono assassini e amputazioni ma anche iniziazioni a universi simbolici e a codici espressivi senza i quali non si può riscattare nessuna colpa. Questa è perlomeno una lettura possibile per un’opera che consente, nella bellezza degli attori degli spazi e del ritmo, una riflessione musicale, tanto sentimentale e emotiva quanto intellettuale.
Si può ricominciare da capo e cambiare, soprattutto quando tutti tocchiamo con mano la crisi dello stato comune che condividiamo. Infine è un film sulla preadolescenza, su quella condizione inaccessibile e brevissima in cui convivono il gioco, l’immaginazione, la virtù di dilatare il tempo dell’infanzia con la percezione travolgente, come incisione su carne viva, dei limiti che le determinazioni sociali e le scelte individuali comportano. Fase aurorale – in cui l’intensità immaginativa e il dramma sociale si intrecciano – dalla potenzialità evolutiva straordinaria che trattata con sapienza e rispetto consentirebbe la nascita di gruppi e società, oltre che di individui, capaci di novità salvifiche.