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Le minoranze del mondo viste da Gerard Russel

La commessa del supermercato parla con un cliente in una lingua incomprensibile. Suona come l’ebraico. Sembra arabo. Ma non è né l’uno né l’altro. Non è neanche la parlata criptica di una setta segreta. Quella lingua è aramaico.

15 Aprile 2017
Stefano De Matteis

La commessa del supermercato parla con un cliente in una lingua incomprensibile. Suona come l’ebraico. Sembra arabo. Ma non è né l’uno né l’altro. Non è neanche la parlata criptica di una setta segreta. Quella lingua è aramaico. “In un grande magazzino della periferia americana, tra succhi di frutta sintetici e musichina di sottofondo, avevo udito la lingua di Cristo”. Tutto questo accade a Detroit. Ma perché proprio lì? Perché nell’area metropolitana della città ci sono più di mezzo milione di persone provenienti dal Medio Oriente. E questa è una delle tante controprove che assieme alle persone viaggiano le lingue e le regole di vita. Concrete quanto impalpabili. Al di là del bagaglio e delle masserizie, dei libri sacri e degli altari che riescono a portare con sé, le persone hanno a disposizione culture e religioni: queste vivono nella loro mente e nel loro comportamento, nel pensiero e nelle azioni. Si muovono con loro. A differenza dei bagagli è più difficile togliergliele.

E spesso lingue, religioni e culture, grazie ai loro portatori, ai loro “supporti” umani, si spostano non solo nello spazio, ma permettono di navigare anche nel tempo, superando l’oggi per attraversare le generazioni e camminare nella storia. È per queste ragioni che magari ci si può trovare quasi all’improvviso davanti a una lingua di duemila secoli fa o a un rito oscuro e misterico. E tutto questo sopravvive, nonostante le interdizioni e i divieti, i tentativi di cancellazione e le violenze operate su di loro.

Violenze che hanno spesso assunto la dimensione di veri e propri conflitti. O sono state presentate come tali.

Forse l’esempio che sto per fare è il più appropriato. Volgiamo lo sguardo indietro, di appena qualche decennio, o apriamo le ultime pagine di un libro di storia o di un manuale di antropologia (oppure leggiamo il bellissimo quanto introvabile La guerra in casa di Luca Rastello) e proviamo a trasferirci negli anni novanta. Ecco che ci troviamo nel cuore del conflitto della ex Jugoslavia. Questa guerra viene descritta come uno scontro che riguarda unicamente due etnie, croati contro serbi o viceversa. Ne è artefice primo il dittatore Slobodan Milošević.

Ed è proprio a partire da questa guerra che si conia il termine conflitto etnico. Ma fin da subito gli osservatori più attenti hanno evidenziato il “trucco”: con quell’espressione si tendeva a coprire una violenza mossa e guidata da interessi locali e internazionali fortissimi ma che aveva ben poco a che vedere con l’etnia. Una controprova l’abbiamo a pochi anni di distanza, quando esplode un nuovo conflitto etnico, quello tra hutu e tutsi che assume le sembianze di una carneficina in quasi tutto il Ruanda e che rappresenta, nel suo tragico orrore, un eccellente caso “da manuale” cui non manca quasi nulla: il colonialismo, i tempi lunghi della storia che sedimentano appartenenze facilmente infiammabili, la forza dei valori simbolici tanto duraturi quanto manipolabili… e a far da fondamento gli interessi economici che si muovono a livello internazionale e che hanno una ricaduta locale in un paese utilizzato come macelleria. Inutile dirlo, in entrambi i casi l’ultima cosa che conta sono le vite umane, le persone, le donne, gli uomini, i bambini…

Allo stesso modo delle guerre etniche di allora, è di recente entrata in vigore una nuova etichetta, una nuova categoria di guerra divenuta una sorta di giustificazione quasi onnicomprensiva e che risulta ingannevole come quella di un tempo. È quella di guerre di religione che viene tirata in ballo per definire il livello mondiale dei nuovi conflitti che muovono dal Medio Oriente. In questo caso i protagonisti sono: noi occidentali da una parte, loro, mondo arabo, musulmano e in genere mediorientale, dall’altra. E la religione c’entra quanto le etnie c’entravano con le guerre di allora. È solo la maschera tragica che serve a coprire interessi, politiche, poteri, supremazie…

Ma a differenza di quanto si possa supporre, il problema religioso della contrapposizione dell’Occidente nei confronti del mondo arabo e musulmano è stato posto in forme conflittuali solo di recente. A comprendere la questione dalle fondamenta ci aiuta un bellissimo e recente libro di Gerard Russell, Regni dimenticati. Viaggio nelle religioni minacciate del Medio Oriente (traduzione di Svevo D’Onofrio, Adelphi 2016).

Gerard Russel è un diplomatico inglese mosso da una straordinaria passione per il Medio Oriente dove è stato impegnato su alcuni dei fronti più difficili (Gerusalemme, Mosul, Baghdad e Gedda). In seguito è stato portavoce del governo britannico per i canali di informazione in lingua araba, della quale ha una conoscenza perfetta. Russell si è poi distaccato tanto dagli incarichi diplomatici quanto da quelli universitari assunti successivamente (ad Harvard), per entrare a fare parte di quella esigua schiera di scrittori che sono anche studiosi, un po’ storici un po’ etnografi, accomunati tutti dallo studio dal vero e dal vivo in presa diretta, il cui rappresentante più famoso è stato di certo Bruce Chatwin.

Viaggiando tra le religioni minacciate del Medio Oriente Russell incontra i mandei, i zoroastriani, i drusi, i copti… ricostruendo il tessuto vivo e pulsante di una storia fatta di relazioni, scambi e intese… E questo nonostante i rappresentanti di queste religioni siano oramai ridotti a ben esiguo numero a causa della difficile convivenza con i monoteismi.

Di quasi tutte queste religioni Russell compie un’analisi profonda, dal presente al passato o viceversa. E non solo lo fa senza pregiudizi personali, il suo intento è anche raschiare via i nostri pregiudizi, quelli che l’Occidente nutre e alimenta nei confronti di quelle culture.

E così Russell si è messo sulle tracce, ha seguito, ha incontrato molti rappresentanti di quelle comunità. Che hanno un valore (anche) emblematico, soprattutto per quel che (ancora) rappresentano di un mondo che non c’è più. E, proprio per questo ci permettono di capire la storia, cioè le origini e l’evoluzione tanto dei singoli culti quanto delle grandi religioni. Nel confronto con queste religioni antiche e quasi disperse, radicate e sparse per il mondo, Russell ci guida alle fonti dei grandi monoteismi – cristianesimo, ebraismo e islam – trovandone la radice in tradizioni ancestrali che le grandi religioni hanno tentato di cancellare per imporsi come una forza nuova e inedita.

E la comparazione elaborata dall’autore tra mondi originari e singole evoluzioni ci permette di capire la nostra stessa modernità, in quanto ci mette a confronto con “identità complesse, radicate nella storia e nel territorio, ma anche (con) sistemi di credenze che sono mutati sensibilmente nel corso del tempo, hanno incorporato religioni rivali, sono stati trapiantati in nuove terre”.

Culti e credenze che sono sopravvissuti grazie all’isolamento – scelto o forzato –, spesso nascondendosi nelle zone più impervie del Medio Oriente per rendere ancor più difficile il contatto. E questo non solo per la distanza, la separazione e l’arcaicità della lingua. C’è da considerare anche le regole stesse di ogni singola religione che ne stabiliscono l’esclusione dal mondo, la scelta del silenzio, l’esoterismo che ne regola il culto… o i principali interdetti che riguardano proprio la parola e la comunicazione, il dire e il raccontare, accettando le formule e i rituali più oscuri e inspiegati proprio per rendere impossibile cogliere i valori e il significato di quella particolare credenza. Una sacralità che regge e istituzionalizza il segreto per difesa anche dalle persecuzioni e che spesso alimenta diffidenza verso gli estranei o verso i curiosi, studiosi o ricercatori che siano.

Russell con racconti, storie e documenti, ci mostra come ogni religione sia costruita con i mattoni di altre e numerose fedi, siano esse scomparse o in continua trasformazione. E opera scavando, selezionando e, soprattutto, cancellando pregiudizi in modo da evitare di cadere nella faziosità di molte interpretazioni. Perché proprio su questo argomento e non solo nei riguardi della religione, ma nei confronti del Medio Oriente in genere, pesa un’idea di modernità del tutto falsata. Ancora oggi – o forse bisogna dire oggi più di un ieri vicino o lontano che sia – questo concetto di modernità si suppone essere, esclusivamente, “nostro”, collegato cioè allo sviluppo dell’Occidente e ai conflitti tanto simbolici quanto materiali che la nostra (unica ed esclusiva, ovviamente) ragione ha cercato di imporre sul resto del pianeta. Costruendo così una logica per cui le altre culture, tutte quelle non allineate, risultano “arretrate”.

Al contrario Russell ci spiega – in modo ammirevole – la nascita di molte delle religioni che prende in esame e ci dice che hanno origine negli stessi luoghi di formazione storica delle istituzioni culturali indoeuropee: Iraq, Afghanistan, Siria. (Da questo punto di vista una tanto affasciante quanto indispensabile lettura resta ancora quella del Vocabolario delle istituzioni indoeuropee di Émile Benveniste); che sono le aree fondamentali per lo sviluppo e l’evoluzione culturale del mondo intero, ma sono oggi relegate nelle pagine di cronaca, perché vittime dello strapotere degli Stati Uniti, dell’Arabia Saudita o della Russia… i quali tendono a dipingere questi luoghi e queste culture nuovamente come “barbari”, arretrati, bisognosi del nostro soccorso di “civiltà”. Il tutto solo per giustificare ancora una volta il nostro intervento.

Tutte le religioni “delle origini” sono state definite pagane e per questo i suoi rappresentanti sono stati perseguitati spingendo i fedeli all’esodo, alla fuga… Solo che, come si accennava in apertura, quando scappa o è costretta a fuggire la gente se nulla può portare con sé sarà comunque accompagnata da quanto il proprio corpo ha acquisito: comportamenti, modi di fare, regole, usi, gusti e fedi con annessi e connessi rituali. E proprio perché è possibile che per “la maggior parte i fedeli siano già emigrati in Occidente come rifugiati – scrive Rory Stewart nell’introduzione al volume – un ritratto accurato di una religione contemporanea implica la descrizione non solo di un tempio vecchio di tremila anni e del suo anziano sacerdote, ma anche di un cinema riconvertito a Londra, o di un centro culturale a Detroit, tutti ugualmente assediati dalle fantasie concitate e opprimenti dell’odierna cultura occidentale”.

Ma Regni dimenticati non è archeologia o studio delle religioni antiche. La bellezza e l’importanza del libro sta anche nella ricaduta sull’attualità: infatti l’autore ci tiene a sottolineare in particolar modo quella sorta di inversione, se non di falsità storica che viene operata negli ultimi anni dall’Isis nel momento in cui autoproclamano uno “Stato Islamico” retto da una rigorosa obbedienza a un califfo, intollerante nei confronti di ogni diversità di opinioni religiose, oppressivo nei confronti degli ebrei, dei cristiani e spietato nello sterminio degli idolatri. E giustificano tutto questo affermando di imitare la forma e la sostanza della prima comunità islamica. Ma eccoci a confronto con quella che possiamo chiamare una comunità islamica costruita per l’occorrenza e immaginata e rappresentata per il fabbisogno attuale: nei confronti delle altre religioni e culture, l’islam delle origini fece tanti e più compromessi di quanti se ne vogliano riconoscere oggi. Il tutto senza il facile ricorso alle armi o alla spettacolarizzazione televisiva e mass mediologica delle loro scenografie sanguinarie.

Al contrario basti cominciare col dire che gli stati islamici, che oggi hanno fama di ferocia e di discriminazione che si esprime principalmente sul versante fondamentalista della religione, furono in realtà molto più tolleranti verso le altre religioni di quanto non lo fu lo stesso Occidente cristiano il quale provvide, non solo in Europa, a eliminare e a estirpare tutte le forme di paganesimo e operò con tale efficacia e rapidità da cancellare ogni traccia delle precedenti stratificazioni.

La grandezza e l’intelligenza di alcuni sovrani islamici si misurò invece sull’abilità e la capacità di utilizzare al meglio le competenze e le conoscenze degli altri, cioè di quelle minoranze, in questo caso religiose, che vivevano al loro interno. E Russel ci tiene a puntualizzare che la maggiore “intolleranza dell’islam nei confronti delle altre fedi (…) coincise con l’epoca della massima povertà e arretratezza della civiltà islamica”.

Per buona parte del Novecento, i paesi a maggioranza musulmana praticavano politiche progressiste nei confronti di tutte le minoranze, religiose e non. Con le quali cercavano di stabilire un dialogo che mettesse le basi per costruire una partecipazione che potremmo chiamare solidale, in modo da fare barriera al controllo degli stessi imperi islamici cui facevano parte e, nello stesso tempo, di ostacolare le colonizzazioni cristiane.

Una storia che non giustifica il fanatismo degli ultimi decenni, retto invece dall’ortodossia religiosa, da un generale declino culturale e da tutte le forme di barbarie che hanno riempito i giornali e il web delle peggiori efferatezze. E da questo punto di vista, Russel è esplicito: “L’Isis è l’apice di questa involuzione”. Anche l’Isis compie una doppia strumentalizzazione della storia: vuole riscrivere il passato dello stesso islam cancellando il ricordo di quei califfi lungimiranti che legittimarono e protessero le comunità non islamiche e i religiosi islamici che erano tolleranti verso coloro che erano fedeli alle antiche religioni o le accomunavano ai culti islamici creando sincretismi eterodossi. Ma l’Isis, aggiunge l’autore, vuole anche cancellare l’orgoglio che sopravvive in molti musulmani verso il passato preislamico.

Da questo punto di vista Gerard Russel è riuscito appieno nel suo intento: quello di “rammentare ai lettori quei fatti che i terroristi vogliono farci dimenticare”.

Questo libro serve inoltre a correggere una pesante distorsione che accompagna la nostra immagine, la nostra rappresentazione, che si concretizza in quello che forse è lo stereotipo dominante. I più sono abituati a credere che le culture del Medio Oriente e dell’Occidente moderno siano distanti se non addirittura contrapposte. Le une arretrate e chiuse, le altre moderne e aperte. In realtà Russel ci dimostra che tra questi due mondi apparentemente separati c’è una grandissima vicinanza fatta da reciproci “legami storici”. Ciò che ci ha separato sono state solo delle “mere fatalità” e nulla di più. Ma non basta, perché Russel ci dimostra che quelle religioni “dell’altro mondo” hanno profondamente influenzato non solo la vita, ma soprattutto la storia della società occidentale.

Certo, in quanto minoranze, hanno subito secoli di discriminazioni, persecuzioni, e minacce e queste hanno prodotto però un effetto contrario: sono servite a rafforzare tali comunità, ne hanno cementato l’identità.

In realtà la lezione che viene fuori è molto più estesa, in quanto non si limita alle religioni ma riguarda la funzione assolutamente positiva che le minoranze ricoprono nell’avanzamento, nell’apertura e nella fertilità dei sistemi sociali: sono una indiscutibile ricchezza e rafforzano le culture se queste sono capaci di dialogare e di incentivare la moltiplicazione delle differenze.

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