Le macerie del cinema italiano
Che Italia, che realtà, che cinema ci arriva dai film italiani? Giunti a uno dei punti più bassi del nostro cinema, che nella seconda metà del 2016 non è stato capace di sfornare nemmeno un cinepanettone degno di questo nome (e non parliamo del cinema “serio”), viene da chiedersi se davvero abbiamo toccato il fondo o se tocca aspettarci anche di peggio. Un perverso combinato disposto tra rendite di posizione – la distribuzione italiana è il regno dei soprusi e delle diseguaglianze, con le grandi catene di multiplex che impongono le loro regole e i piccoli cinema che invece devono subire diktat e ricatti, costretti a teniture estenuanti o a titoli inadatti – e meccanismi produttivi che hanno innescato un gioco di finanziamenti e detrazioni capaci alla fine di evitare il confronto reale con le leggi del mercato – nel senso che gli scarsissimi esiti al botteghino non incidono in maniera determinante sui conti economici e l’insuccesso non è mai sinonimo di fallimento o bancarotta: c’è sempre una televisione o un tax credit che salva baracca e burattini. Così questa situazione di compromesso, che nessuno vuole davvero modificare e che la nuova legge in via di attuazione non intaccherà se non in maniera marginale, finisce per favorire soprattutto le ambizioni autoriali di chi autore non è e perpetuare uno stato di compiaciuta autoassoluzione del sistema.
Difficile aspettarsi qualcosa di meglio, se non in sacche di resistenza marginali e marginalizzate, da un cinema che ha ancora e sempre la sua testa “pensante” (si fa per dire) a Roma, in un mondo cioè dove il qualunquismo politico e il populismo ideologico vanno sempre più a braccetto, e dove il cinismo (im)morale sembra essere l’unico collante capace di tenere insieme un ambiente sgangherato e sfaldato. La lezione maldigerita della commedia all’italiana, che avrebbe insegnato ad affrontare i vizi della nazione con ironia e umorismo, si è trasformata nella contaminazione di qualsiasi tema, sfruttato solo per costruire un qualche tipo di attenzione sul film che, invece di “farsene carico”, lo banalizza.
Non è mai stato compito del cinema risolvere i problemi della società o aprire i dibattiti, ma affrontare dei temi reali per farne capire la complessità o le implicazioni politiche o anche solo metterne in evidenza l’importanza è quello che il cinema migliore ha sempre cercato di fare. Oggi in Italia quell’approccio è diventato lo scudo dietro cui si nasconde il vuoto intellettuale e l’opportunismo commerciale di chi vuole solo sfruttare i temi diventati d’attualità. Dov’è la complessità e la credibilità del bullismo omofobo in un film come Un bacio di Ivan Cotroneo, dove le buone intenzioni si perdono in un susseguirsi di luoghi comuni, di cliché, di retorica? O le perverse tentazioni della popolarità social in Che vuoi che sia di Edoardo Leo dove i due protagonisti si sforzano solo di dare un’apparenza razionale al voyeurismo anonimo della rete? O ancora il bisogno di mettere fine agli stereotipi sulle donne in Qualcosa di nuovo di Cristina Comencini, incapace invece di liberarsi dai più beceri luoghi comuni sulla frigidità e la voluttà femminile? E abbiamo citato tre film che la vulgata voleva che si considerassero “d’autore”, lanciati sul mercato con tanto di dibattiti e incontri pubblici, preceduti dalle inevitabili interviste esplicative che spiegavano l’importanza sociale del tema trattato. Non parliamo cioè del vergognoso “sfruttamento” di temi come il razzismo e lo scontro di civiltà, oppure l’ignoranza e l’invidia sociale diventati addirittura materia da cinepanettoni (rispettivamente in Non c’è più religione e Poveri ma ricchi) e trasformati in questo modo in giustificazioni per sguaiataggini, doppi sensi e beceraggini varie.
Il problema vero è che di questi titoli nemmeno se ne dovrebbe parlare, ma si dovrebbero abbandonare al loro scarso successo commerciale e alla vergogna che dovrebbe impossessarsi di chi ha messo il proprio nome sopra (produttori, sceneggiatori e attori compresi), se non fosse che questo è quello che passa il convento da parte di un cinema che ambirebbe essere adulto e internazionale (e che occupa gli schermi italiani con due o trecento copie per volta, finendo così per convincere qualche illuso a buttarci uno sguardo).
Poi c’è un altro cinema, quello più “d’autore” – le virgolette sono un obbligo – che cerca i suoi quindici minuti di gloria sulle ribalte dei festival nazionali, dove un red carpet ormai non si nega a nessuno e accende qualche fiammella di interesse dichiarando ambizioni che spesso non vanno al di là delle pie illusioni. Una situazione di cui l’ultimo Festival di Venezia ci ha restituito un quadro più che esauriente, con due film nella selezione ufficiale di vergognosa pochezza (Piuma di Roan Johnson e Questi giorni di Giuseppe Piccioni, entrambi sonoramente fischiati e, alla loro uscita nei cinema, immediatamente dimenticati) e con quelli presenti nelle sezioni parallele che sembravano tutti contagiati da uno strano morbo, quello dell’incapacità – paura? – di usare delle proprie idee (o di quelle degli sceneggiatori) per offrire ai film verità e originalità. Kim Rossi Stuart sognava un film sulla doppia impasse che può colpire un attore, quella artistica e quella privata, epperò nel suo Tommaso (fuori concorso) finiva per ripetere sempre le stesse battute e le stesse scelte, inchiodando il film a un’inutile coazione a ripetere. Edoardo De Angelis con Indivisibili (Giornate degli autori) incrociava i sogni di due gemelle siamesi con un mondo che sembrava capace solo di sfruttarle, ma per mandare avanti il film sceglieva la strada dell’eccesso (il ridondante bordello galleggiante) e perdeva di vista la lucidità cui voleva ispirarsi. Invece alla Ragazza del mondo (ancora Giornate degli autori) di Marco Danieli mancava il coraggio della coerenza: dopo aver trovato un tema inedito e affascinante – la rigidità insospettata dei testimoni di Geova – abbandonava quel mondo per rifugiarsi in un universo derivativo (una Gomorra all’amatriciana), più scontato perché più di moda. Un po’ l’opposto di quello che faceva Irene Dionisio in Le ultime cose (Settimana della critica), dove la vaghezza sui destini dei personaggi che ruotano attorno a un banco di pegni finiva per rivelare una mancanza di fiducia nel cinema come sguardo sulla realtà, un’ammissione di impotenza che si vorrebbe spacciare per “modernità” e invece era solo una resa alle vacuità dei nouveaux cinephiles.
Uno sguardo sul reale che non si trova nemmeno in quei film che proprio dal reale traggono la loro fonte d’ispirazione, come La verità sta in cielo di Roberto Faenza, che finisce per trasformare il caso Orlandi in un bigino dei fatti nemmeno tanto chiaro (con giornalisti improbabili e personaggi approssimativi), limitando a una semplice didascalia finale che mette la coscienza in pace con le reticenze e i misteri che invece il film avrebbe voluto denunciare. E che stende l’ultima definitiva pietra tombale su un cinema nemmeno più capace di far ridere o di commuovere.