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L’Africa nel nostro futuro

La recente denuncia, a Ventimiglia, di tre cittadini francesi colpevoli, secondo l’ordinanza voluta dal sindaco Enrico Iaculano, di “aver dato da mangiare” a dei migranti ci mette di fronte a una serie di interrogativi urgenti e profondi.
15 Maggio 2017
Alessandro Jedlowski

La recente denuncia, a Ventimiglia, di tre cittadini francesi colpevoli, secondo l’ordinanza voluta dal sindaco Enrico Iaculano, di “aver dato da mangiare” a dei migranti ci mette di fronte a una serie di interrogativi urgenti e profondi. Da prerogativa principale di estremismi religiosi e movimenti neofascisti e xenofobi, la paura e il rigetto dell’altro, dello straniero, del passante, del viaggiatore o del migrante, sta guadagnando a grandi passi il cuore delle istituzioni che regolano la nostra società, trasformando in legge i postulati indifendibili di quelle che il filosofo camerunese Achille Mbembe chiama “politiche dell’inimicizia”.

L’islamofobia, l’antisemitismo e il razzismo sono ormai le basi ideologiche più o meno esplicite di movimenti politici maggioritari in regioni ai poli opposti del pianeta, dall’India di Narendra Modi, nella quale episodi di violenza razziale contro studenti africani residenti nel paese stanno diventando di allarmante regolarità, agli Stati Uniti di Donald Trump, dove la violenza xenofoba di un veterano dell’esercito che viaggia da Baltimora a New York per “compiere un gesto” e uccidere un passante afro-americano non fa nemmeno più notizia; dal Sud Africa di Jacob Zuma, nel quale gli attacchi contro gli stranieri, in particolare nigeriani, si sono moltiplicati negli ultimi mesi, all’Italia della Lega Nord e di Forza Nuova, dove l’omicidio a sfondo razziale di Emmanuel Chidi Namdi a Fermo e l’accoltellamento pochi giorni fa a Rimini di un giovane richiedente asilo sono confinati alle pagine delle testate locali – a testimonianza di come la violenza razziale sia diventata oggi nel nostro paese un’abitudine che l’opinione pubblica e le autorità non considerano più degna delle reazioni forti che scatenava una ventina d’anni fa, quando l’uccisione di Jerry Masslo a Villa Literno aveva provocato un’ondata di indignazione nazionale.

Di fronte a questa realtà, viene da chiedersi: in cosa consiste, oggi, la nostra comune umanità? Quali sono i suoi confini, le sue forme? Come definirla e come affermarla di fronte alla chiusura identitaria del mondo di oggi?

Come Achille Mbembe suggerisce nel suo libro più recente, Politiques de l’inimitié (La découverte 2016), viviamo oggi in un’epoca di riaffermazione planetaria delle logiche coloniali, un’epoca di “mondializzazione dell’apartheid” (planetarization de l’apartheid). È quindi fondamentale guardare alla storia e alle esperienze che emanano dal continente africano, così come da altre antiche province di quelli che furono gli imperi coloniali europei, per capire cosa sta succedendo nel mondo e trovare risposte in grado di risollevarci dall’abisso nel quale stiamo sprofondando.
È necessario guardare al passato della schiavitù e della colonizzazione per trovare nuovi spunti di riflessione e porre, in nuovi termini, a partire dalle condizioni concrete del nostro tempo, “la questione di come liberare il potenziale rivoluzionario degli sfruttati”. E dunque creare logiche di alleanza politica trasversali che ci permettano di superare l’illusione identitaria che dilaga nel mondo di oggi e sviluppare “un pensiero della complementarietà invece che della differenza”.

Per lungo tempo, antropologi, romanzieri e giornalisti occidentali hanno inscritto l’Africa in una temporalità differente rispetto al mondo occidentale, una temporalità fatta di un passato ancestrale ormai perduto e di un presente incompiuto e frammentato, collage di disastri, carestie e guerre. Oggi però si pone a noi la sfida, sulle tracce del lavoro di alcuni degli intellettuali e degli artisti africani più brillanti, di prendere l’Africa come spunto per riflettere sui destini dell’umanità intera, in termini filosofici e politici, ma anche artistici e culturali. Ciò non vuol dire cadere nella retorica dell’ottimismo neoliberista intento a costruire l’immagine di un’Africa nuova frontiera della crescita economica planetaria. In molti hanno mostrato la violenza delle ingiustizie e delle diseguaglianze che si nasconde dietro le cifre prodotte dalle agenzie internazionali che pubblicizzano la rinascita del continente per attirare investimenti e moltiplicare le fortune di una ristretta cerchia di oligarchi locali e di imprenditori stranieri. Al contrario, prendere l’Africa come spunto per pensare al futuro vuol dire, seguendo i passi di Achille Mbembe (ma anche di altri filosofi e artisti africani contemporanei come il senegalese Felwine Sarr, i sudafricani Jean e John Comaroff, il camerunese Jean-Pierre Bekolo, il ghanese Jonathan Dotse e molti altri) interrogare il mondo da un punto di vista africano per trarre insegnamenti di portata globale, capaci di suggerire delle alternative al ripiegamento identitario che l’Italia, l’Europa e molte altre regioni del mondo attraversano.

Nel pensiero di alcuni degli intellettuali che hanno ispirato la lotta anticoloniale, come Frantz Fanon e Aimé Césaire, il progetto umanista occidentale, nella sua vocazione universalista e positivista emersa nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, è abitato da una pulsione distruttiva, una pulsione di morte, rappresentata dal fantasma del corpo martoriato dello schiavo, del soggetto colonizzato – un fantasma nascosto negli interstizi del pensiero filosofico e politico occidentale degli ultimi tre secoli, che continua a riemergere sotto nuove spoglie nel discorso politico delle destre xenofobe così come nell’umanitarismo tecnocratico delle istituzioni internazionali e delle ong. Come gli studi postcoloniali ci insegnano, l’ombra macabra di questo passato si proietta ineluttabilmente sul presente, partecipando a definirne i contorni, a delimitare lo spazio d’azione e di pensiero all’interno del quale ci muoviamo. Non è impresa difficile trovare le tracce di questo passato traumatico e della sua persistente capacità di riprodursi nella maggior parte dei conflitti e delle tensioni che tormentano il mondo di oggi. Questa persistenza è direttamente proporzionale al tentativo cieco, da parte di governi e opinione pubblica occidentali, di nascondere le responsabilità passate ed evitare un confronto diretto con le ramificazioni presenti di fenomeni di lunga durata quali la schiavitù e il colonialismo.

Se un confronto aperto con i crimini del passato, con le loro logiche e le loro tecniche, è vitale per riscattare il nostro futuro, è al tempo stesso fondamentale tenere conto del modo in cui il mondo si è trasformato nel corso degli ultimi decenni e quali metamorfosi tali trasformazioni hanno provocato nelle logiche di funzionamento del capitale. Se il volto nascosto della nascita del capitalismo moderno è lo schiavo imprigionato nel ventre del battello negriero, nell’epoca del capitalismo finanziario contemporaneo quest’ombra si è allargata, espandendo la logica della schiavitù al di là dei confini all’interno dei quali era emersa. Assistiamo oggi, nelle parole di Achille Mbembe, “a un’universalizzazione della condizione che era un tempo riservata ai Negri (Nègres)”, secondo la quale un essere umano poteva essere ridotto a oggetto di scambio, essere venduto, comprato, posseduto. Siamo testimoni dell’apparizione di quella che il filosofo camerunese definisce come la categoria dei “Nègres de fond”, una categoria non più identificata e discriminata esclusivamente in base al solo colore della pelle (Nègres de surface), ma piuttosto un genere di umanità subalterna trasversale, “parte superflua e quasi in eccesso, della quale il capitale non ha alcun bisogno, e che sembra essere destinata a una definitiva marginalizzazione e espulsione”.

Una nuova massa di schiavi affolla dunque il nostro mondo, ma si tratta di schiavi che paradossalmente sembrano non avere padrone, mentre il mondo si organizza in modo sempre più strutturato intorno alle ricchezze di un numero limitato di padroni, che di schiavi pretende non averne. Secondo Mbembe si cela qui la trappola che impedisce di innescare la valvola di sfogo della ribellione. Le dinamiche del nuovo capitalismo automatizzato illudono gli schiavi di poter diventare padroni di sé stessi. L’antica dialettica servo-padrone è interrotta grazie a un gioco di specchi che insiste sul “potenziale mimetico degli individui assoggettati”, inducendoli a imitare il padrone invece che a tentare di sovvertirlo. Le formule vuote di un linguaggio basato sull’identità, sulla religione, sulla purezza si inseriscono in questo gioco di riflessi per inventare comunità chiuse in conflitto le une contro le altre, e annullare così il potenziale per l’emergenza di fronti di lotta comuni.

Si tratta di un quadro cupo, di fronte al quale non esistono risposte semplici. Ma è proprio in questo senso che l’invito a guardare il mondo da una prospettiva africana acquisisce tutto il suo valore. Dall’epoca delle indipendenze in poi, filosofi e artisti africani si interrogano sulle possibilità di far dialogare il sapere occidentale, imposto dall’occupazione coloniale con le sue scuole, le sue chiese e le sue istituzioni politiche ed economiche, e i saperi africani prodotti nel continente nell’arco di millenni di storia precoloniale. Attraverso un esercizio complesso, nella coscienza di voler evitare le trappole di un essenzialismo culturalista che finirebbe per riprodurre le scorciatoie identitarie delle destre fondamentaliste, filosofi africani provenienti da differenti regioni del continente (come Jordan Kush Ngubane, Kwasi Wiredu, Asmaron Legesse e Alexis Kagame) si sono impegnati nella ricerca dei concetti filosofici ed etici racchiusi nelle lingue africane, concetti in grado di aiutarci a definire i lineamenti di un nuovo umanesimo, una filosofia che possa aiutare ognuno di noi a riconoscere sé stesso nel volto dell’Altro. Il tratto comune ai concetti sui quali si fondano queste filosofie, che si tratti dell’ubuntu di matrice Bantu (Sud Africa), dell’onipa di provenienza Akan (Ghana), o del gadaa di origine Oromo (Etiopia), è il fatto che prima dell’essere viene la relazione, o meglio, come riassume in modo chiaro la celebre formula usata per esprimere il concetto principale della filosofia dell’ubuntu, “una persona è una persona attraverso altre persone” (a person is a person through other people).
In sostanza, esistiamo solo nella misura in cui siamo in relazione con gli altri. E non solo con l’Altro umano, ma anche, e questo è un punto altrettanto importante, con l’Altro inteso come ambiente vegetale, animale e minerale nel quale viviamo.

L’ottica che questo nuovo umanesimo africano propone è quella di una filosofia etica, ma non moralista. Lungi dall’essere una semplice tirata buonista, quest’orientamento filosofico mette la dimensione etica al centro della natura umana, non come obiettivo ma come origine. L’etica viene prima dell’ontologia. La relazione prima dell’essere. Nel far ciò, questa filosofia permette di includere la questione ecologica al centro delle nostre preoccupazioni, aiutandoci a farne fonte primaria per la creazione di un nuovo fronte di impegno comune. Seppure produca solo il 5% delle emissioni di gas serra del pianeta, l’Africa sta subendo per prima le conseguenze del cambiamento climatico in tutta la loro violenza. È a suo modo inevitabile che da questo continente venga dunque un appello forte a fare dell’ecologia la base del nostro divenire politico. Come Mbembe sottolinea, se un minimo denominatore comune a partire dal quale creare nuove alleanze trasversali per lotte comuni esiste, va trovato nella coscienza del fatto che c’è una cosa che ci accomuna tutti, qualsiasi sia il colore della nostra pelle, la nostra fede o la nostra estrazione sociale: condividiamo un unico Pianeta, un unico ambiente, un unico grande ecosistema. Questa è la comune condizione di esistenza all’interno della quale, in quanto esseri umani, operiamo. A partire da essa, ci suggeriscono filosofi e artisti africani contemporanei, non solo possiamo, ma abbiamo il dovere di creare un futuro comune.

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