La vera mafia e la vera politica. Gli Usa di Martin Scorsese

(disegno di Tommy Gun)
Gli eroi di Scorsese hanno sempre sfidato la morte, protetti da una comunità che sembrava assicurare loro se non l’immortalità almeno qualcosa vicino all’invincibilità, regalando loro una sicurezza spavalda e intaccabile. Con The Irishman queste certezze si sgretolano, mostrano i loro limiti e le loro fragilità. “Volevo fare un film” ha detto Scorsese “dove il passare del tempo andasse di pari passo con il senso della nostra mortalità, che mettesse in risalto la finitezza dei nostri amori, dei nostri sentimenti, che facesse risaltare le perdite e il rimorso”. Per questo, accanto ai nomi di Robert De Niro, di Al Pacino e di Joe Pesci, nei titoli ce ne dovrebbe essere almeno un quarto, quello della Morte, che accompagna le tre ore e mezza del film come qualcosa di incombente e inesorabile. Non è per caso se ogni volta che un nuovo personaggio attraversa la strada dei protagonisti, una didascalia ci informa di come è morto: ucciso in casa sua, saltato in aria con la sua auto, crivellato per strada, morto con otto pallottole in corpo…
“Volevo fare un film dove il passare del tempo andasse di pari passo con il senso della nostra mortalità”
È in questa atmosfera che ascoltiamo il racconto di Frank Sheeran (Robert De Niro), costretto su una sedia a rotelle in un ospizio: in gioventù era stato un camionista irlandese di Filadelfia la cui destrezza nell’alleggerire i carichi di carne che trasportava (e la sua omertà nel non fare nomi) gli avevano procurato l’amicizia e la protezione di Russ Bufalino (Joe Pesci), all’apparenza commerciante di stoffe e gioielli ma in realtà pezzo grosso della mafia. Per lui Frank finirà per fare l’“imbianchino”, ossimoro gergale per indicare chi i muri li sporcava col sangue delle vittime uccise. Taciturno, svelto, fidato, Frank viene spinto da Russ nelle braccia di Jimmy Hoffa (Al Pacino) il potentissimo presidente del sindacato autotrasportatori. Di cui diventerà la scorta e il braccio destro, accompagnandolo nella sua scalata al potere e nelle sue alleanze con la mafia (cui prestava i soldi del fondo pensioni per costruire casinò e alberghi), finendo per essere il suo più stretto e fidato amico. Almeno fino al giorno in cui i suoi boss gli chiesero di tradire quell’amicizia.
Costruito con fluidi salti avanti e indietro nel tempo, tra gli anni Novanta, i Cinquanta e i Settanta (il montaggio è di Thelma Schoonmaker), il film sfrutta le tecnologie digitali della Industrial Light & Magic per ringiovanire i tre protagonisti: “non volevo usare altri attori per mostrarli in età differenti. Volevo sempre Bob, Al e Joe. Abbiamo iniziato a lavoraci cinque anni fa, ma alla fine il risultato è arrivato”. Facendo però lievitare il costo del film a 160 milioni di dollari, che solo Netflix ha voluto pagare. “Le condizioni erano chiare: a me il finanziamento e una totale libertà creativa, a loro il diritto di mostrare il film in contemporanea con la programmazione in sala. Io penso che per vedere i film bisogna prima farli e un film così Hollywood non me lo avrebbe permesso. Se penso che Re per una notte è rimasto in sala due settimane e poi è sparito, non mi sembra un cattivo scambio”.
Ripercorrendo la carriera criminale di Sheeran, Scorsese però non ne enfatizza le azioni né ne sminuisce le responsabilità morali, lasciando molto più spazio ai silenzi di chi vorrebbe sapere e non ha il coraggio di chiedere, come la figlia Peggy che scopre da subito come il padre usi la violenza per risolvere le cose. Ma soprattutto la sceneggiatura di Steve Zaillian, tratta dall’omonimo libro di Charles Brandt (Fazi editore) che di Sheeran aveva raccolto le memorie, è molto chiara nell’allargare il quadro al contesto in cui quella storia si dipana, aprendo l’obiettivo su un’America dove i legami tra la Politica e la Mafia sono raccontati senza infingimenti. Ecco cosa fa davvero la differenza nella lunga carriera di Scorsese: a partire da Mean Streets, passando per Quei bravi ragazzi e Casinò fino a Gangs of New York, il suo sguardo di regista si era sempre fermato all’apparenza delle cose, alla registrazione della violenza, delle complicità, dell’avidità. Si capisce che a muovere quei sentimenti e quelle passioni c’erano tensioni razziali, interessi e ideologie contrastanti, ma il regista sembrava interessato soprattutto a descrivere il caos che ne risultava, affascinato dagli scontri, dalla rabbia e dal sangue. In The Irishman questo fascino sparisce, la rassegnazione e la malinconia hanno il sopravvento e con loro entrano in campo i veri burattinai di quelle azioni: i padroni della Politica.
il suo sguardo di regista si era sempre fermato all’apparenza delle cose, alla registrazione della violenza, delle complicità, dell’avidità
Scorsese non è mai stato un regista politico, si è sempre tirato indietro di fronte a quel tipo di cinema, ma qui per la prima volta non lo può fare. Per spiegare come i suoi personaggi non sono altro che delle marionette in mano a burattinai più potenti, deve fare un passo indietro, allargare il suo sguardo. E così entra in gioco Joseph Kennedy, il potente (e discusso) padre del presidente John Fitzgerald: non si vede mai in faccia, sempre di spalle, ma il film non fa misteri sui patti segreti con la Mafia per eleggere il figlio e infatti ecco Sheeran che guida un camion carico di armi che serviranno per la sciagurata invasione alla Baia dei Porci. La riconquista di Cuba come pagamento dell’elezione: non ci sono tirate ideologiche ma i fatti parlano da soli, non hanno bisogno di sottolineature. E che non ci sia molta differenza con il repubblicano Nixon, cui va il sostegno (e i finanziamenti) di Hoffa, ecco Gordon Liddy, proprio quello cui Sheeran aveva consegnato le armi per Cuba e che si rivede in tv coinvolto nello scandalo Watergate. Anche di Hoffa e dei suoi legami malavitosi non si dice tantissimo, ma se la Mafia decide che bisogna eliminarlo, si capisce bene che al di là dei prestiti per costruire alberghi e casinò i suoi rapporti con l’organizzazione erano molto stretti. Per non parlare dell’appoggio richiesto per controllare il sindacato.
Certo, a Scorsese non interessano le denunce o gli scandali, non ha rivelazioni sconvolgenti da fare, ma per la prima volta gli interessa dire che gli eroi di tutta una vita cinematografica vivono sotto una cappa soffocante, che cancella ogni possibile enfasi e mitologia. Sono pedine di un gioco più grosso di loro. E anche se nel film si ascolta la musica di Grisbì e la recitazione di De Niro ricorda il Max di Jean Gabin, non c’è più il romanticismo della sconfitta. Alla fine, c’è solo il tradimento di un’amicizia e il potere della Politica.